Capitolo 2

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EDEN

Per una manciata di secondi, incredibilmente eterni, non riesco proprio a capacitarmi, a capire cosa ho davanti, chi sto guardando.
Gli occhi di un bellissimo verde, grandi, ma incredibilmente cupi come le profondità di una foresta proibita; i capelli castano chiaro rasati ai lati, un ciuffo più lungo a ricadergli sul davanti, in ordine; la mascella scolpita, la barba a incorniciargli le guance, a nascondere qualche cicatrice ormai sbiadita; e ancora quel taglio netto sul sopracciglio e labbra apparentemente morbide, pronte a pronunciare parole oscene, capaci di spingerti a peccare e di attirarti nel suo inferno perverso.
La sua è una bellezza che farebbe sfigurare qualsiasi opera d'arte tra le migliori. Di un livello talmente superiore da superare il consentito. Una minaccia in grado di ridurre i sensi in gelatina.
Uno come lui sembra essere stato forgiato dal diavolo in persona. Nonostante le fiamme emanate dal suo corpo, inietta stille di puro gelo da quelle iridi maledette.
Sta offuscando qualsiasi cosa come nebbia. E io non riesco a sostenere quel brivido, a trattenere quel battito che mi sfugge e si perde quando mi accorgo che ci stiamo fissando a vicenda come due specie diverse poste l'una di fronte all'altra.
«Chi sei tu?», soffio la domanda senza voce, pur non volendolo sapere veramente.
Che cosa mi sta succedendo? Perché non ho più il controllo di niente?
Sono a un passo dalla libertà, uno solo. Eppure qualcosa sta andando comunque storto. Continuo a inciampare, a non trovare equilibrio. Come se una forza superiore mi stesse mandando verso la direzione opposta. Tra le braccia di un nemico che non conosco.
«Tu...», balbetto verso la donna appena comparsa, la quale dopo essersi posizionata a poca distanza, in modo teatrale, scioglie lo chignon rivelando una chioma folta biondo ossigenato, fin sopra le spalle; un sorrisetto freddo, a tratti selvaggio e strafottente le increspa le labbra. «Io», replica con sfida, mettendosi composta. «Ci si rivede, principessa».
«Che cosa significa? Hai bisogno di soldi?»
Libera una risata cristallina. «Soldi?», sputa fuori la parola come se l'avessi derisa. «Con i tuoi potrei effettivamente farci qualcosa di diverso. Pulirmici il culo, ad esempio», solleva una spalla suggerendomi: "Chi ti credi di essere? Prendi questo, stronza!".
«Ti consiglio di non fare tante storie e di seguirci, principessa. Oppure vuoi che la tua famiglia venga fatta a pezzi? Magari inizierò da tuo fratello, quello attraente dagli occhi scuri, il maggiore. Com'è che si chiama...», picchietta un dito sul labbro inferiore.
Sta bluffando. Lo capisco dalla sua postura. È fin troppo decisa e precisa nel modo di parlare. Non sta di certo improvvisando. Piuttosto è come se stesse seguendo un copione.
«Hai un coltello in più per me?», mi ritrovo a chiedere per smascherare il suo giochetto.
L'occhiata che mi scocca lascia intendere ciò che già sapevo. L'ho beccata.
«Sei molto più intelligente di quanto vuoi far credere».
Un altro tizio ha preso il posto del dio greco. Quanti sono?
Mi strattona per farmi camminare. Non riesco a vederlo in faccia, ma percepisco la tensione dei suoi muscoli e il suo fiato caldo sul mio orecchio sensibile. Strizzo lievemente la palpebra provando a mantenere la calma. Non voglio urlare e mostrare loro tutta la mia paura.
«Seguici e non ti farai male».
Mi dimeno un po' contro di lui, per protesta. Mi sembra di avere un muro di mattoni alle spalle. Anche se per un attimo penso che abbia smesso di respirare. «Lasciami andare o chiamo a raccolta i cani con un fischio», rispondo a tono girando lievemente il capo, soffrendo per la mancanza di libertà di movimento.
La sua bassa risata si ripercuote sulla mia schiena. «Hai fegato, te lo concedo. Ma non sei nella condizione di decidere o fare qualsiasi mossa senza rischiare di perdere qualcuno a te caro. Pensavo avessi un minimo di buon senso almeno tu».
Uno schiocco di dita spezza la nostra disputa prima che io possa replicare. «Mi sono rotto le palle. Forza, non ho tutta la notte. Ci pensate voi a ficcarla dentro il mezzo con o senza il suo benestare o devo pensarci io?», lancia uno sguardo annoiato all'enorme orologio al polso arricciando il naso. «Siamo in ritardo, dannazione».
Joleen sposta i suoi occhi alle mie spalle. Comunica silenziosamente con l'individuo a tenermi ferma e dopo un momento quest'ultimo mi solleva e mi trascina come una bambina verso un furgoncino simile a un SUV dall'aria costosa e al contempo sospetta.
Provo a urlare, a difendermi, a piantare i piedi nudi sull'asfalto, ma è tutto un inutile spreco di energie. Allora fischio e i cani cominciano ad abbaiare in lontananza.
«Sta' buona, cazzo!»
Mordo il labbro e quando vengo depositata sul sedile, finalmente i miei occhi scorgono il mio rapitore.
Sto per essere trascinata via da dei diavoli con l'aspetto di angeli, incredibile!
Mi solleva il mento con due dita. Lo fa in modo delicato rispetto al tizio che mi ha afferrato prima. «Piacere di conoscerti, Eden, sono Faron».
Stringo le labbra. «Non m'importa chi sei! Fammi uscire da qui, brutto stronzo», provo a superarlo e mi si preme addosso bloccandomi con un braccio sull'addome e una mano sulla bocca quando oso fischiare di nuovo. «Ferma!», ordina usando appositamente un tono freddo e intimidatorio.
Lo sportello viene chiuso con un poderoso urto e mi ritrovo seduta tra lui e Joleen, mentre davanti c'è il tizio annoiato e più attraente che io abbia mai visto. A differenza degli altri due, non si è ancora presentato.
Sto cercando in tutti i modi di non attirare il suo sguardo. Non che l'abbia fatto per più di mezzo secondo.
Il ragazzo dagli occhi grandi e scuri, capelli rasati e altezza da Adone rimasto in disparte e in attesa, carica sul mezzo il mio borsone, posizionandosi subito al volante.
Qualcosa in lui attira la mia attenzione. Metto a fuoco e quando mi sorride affabile dallo specchietto retrovisore: «Che diavolo significa?», strillo incredula.
«Ciao», ribatte mettendo in moto.
«Tu... sei co-con questi farabutti?»
Ride e lo fanno anche i tre, affatto offesi dal mio giudizio. «Divertente».
Li guardo confusa. Mentalmente però sto incanalando quante più informazioni possibili su ognuno di loro.
«Ti ricordi di me, vedo. Mi lusinga sapere che mi hai notato. Solitamente le persone come te non lo fanno. Ci siamo visti un paio di volte in effetti, ma non sono mai riuscito a presentarmi perché eri sempre circondata e inavvicinabile. Colgo l'occasione per farlo adesso, mi chiamo Terrence. Non lavoro come guardia per tuo padre. Be', lo faccio, ma non per una nobile causa temo».
Mi sento come colpita alla nuca. Sono una stupida. Cosa credevo di fare quando sono scappata senza un piano ben definito? Come ho fatto a non pensare alla possibilità che qualcuno avrebbe potuto approfittarne per prendermi in ostaggio?
«Sei stato credibile», dico, aggrottando la fronte.
«Lo prendo come un complimento».
«Non lo è», sputo fuori con disprezzo. «Quale bastardo mangia sotto lo stesso tetto per poi ingannare il suo padrone e sputare su quel piatto?»
«Be', direi che la sta prendendo bene. E io che pensavo che avrebbe protestato e pianto come una ragazzina. A quanto pare le voci su di lei erano fondate», afferma Terrence con un sorrisetto da stronzo. «Ho perso la scommessa, cazzo!»
«Paghi la cena a tutti!», cantilena Joleen.
«Non è ancora detta l'ultima parola, Terrence. Visto che hai scommesso su di me, a mia insaputa, pagherai a me la cena. Sono stanca di piatti stellati al sapore di niente. Ho voglia di una pizza e che sia italiana, non quelle che propinano in ogni ristorante. Sempre se non vuoi sentire le mie urla e vedere quanto riesco a piangere istericamente fino a farti impazzire e a implorare di farmi smettere», gesticolo.
Terrence molla una pacca sulla spalla all'uomo seduto immobile davanti a me.
«È tosta. Ci toccherà tenerla d'occhio più del previsto. Avremo un gran bel da fare, temo». Parla come se non fossi presente. Il che mi irrita e non poco.
«Adesso capisco a cosa ci serve», aggiunge Faron.
Parlano tra loro, ma io non partecipo. Mi volto e stanca osservo l'auto macinare chilometri, porre una distanza sicura dalla mia vita, quella che a poco a poco mi stava distruggendo.
Se da una parte è stato un colpo di fortuna, dall'altra è una seccatura. Mi toccherà essere furba, più dei tre che mi circondando come avvoltoi.
Cala il silenzio, interrotto dal rumore della vettura, dai respiri. Le sicure non sono state inserite, noto. Forse perché convinti che io non sia una minaccia.
Un minuscolo barlume di speranza si accende in me e nascondo un sorriso.
Controllo appena, per non fare notare a nessuno di loro il mio interesse verso la mia unica e possibile via di fuga e in pochi secondi insceno la mia parte. Porto una mano alla gola e la schiarisco un paio di volte con delle smorfie.
«Posso avere un sorso d'acqua? Dovrebbe esserci una borraccia nel mio borsone, non ricordo se sono riuscita a impilarla tra le mie cose».
Il tizio davanti a me non si scompone e non presta neanche attenzione. Allora comincio a tossire, dapprima emettendo un verso strozzato, come quando stai per essere colpito da un attacco d'asma. So come inscenarne uno senza destare sospetti.
Joleen, si volta, un lampo di apprensione le attraversa il viso. «Volete porgerle un po' d'acqua o dobbiamo continuare a sentirla ansimare come un asino fino a quando non muore? Mi sembra che gli ordini fossero di portarla a casa viva, non morta. Non vorrei avere fatto tutta questa strada e fatica per niente».
Sentendo questo, mi agito maggiormente portandomi la mano alla gola.
Da quanto escogitano questo piano? Come ha fatto mio padre a non accorgersi di niente?
«Il tuo borsone non è a portata di mano», Faron mi porge una bottiglia. «Prendi questa».
Le mie mani fingono un tremore improvviso dovuto a uno spasmo e la lascio cadere ai miei piedi. L'acqua schizza un po' da tutte le parti. Il tizio davanti a me arriccia il naso imprecando quando viene colpito dal getto.
Siamo a metà percorso, rifletto. Scatta qualcosa dentro di me: l'istinto di sopravvivenza prende il sopravvento quando Faron si piega per prendere la bottiglia e porgermela. «Ecc...»
Agisco. Non ho un altro secondo da perdere. Miro alla gola di Joleen con una gomitata e, in contemporanea, mollo una ginocchiata a Faron. Ne rimane uno pronto a bloccarmi, ma per puro miracolo e grazie alla mia agilità improvvisata, spalanco la portiera lanciandomi fuori dalla vettura in corsa.
Cado sull'asfalto e rotolo per qualche metro percependo a malapena le urla provenire dal furgoncino che si ferma in uno stridio di gomme. L'impatto è doloroso quando sbatto contro un masso ai margini della strada. «Merda!», impreco con i polmoni in fiamme. Mi rialzo malamente e comincio a correre recuperando terreno, tornando indietro. Conosco una scorciatoia, mi nasconderò da qualche parte per un paio di ore.
Mentre corro a rotta di collo, ignorando fitte di dolore dovute alle escoriazioni e forse a qualche costola che si è incrinata, mi risale addosso la stessa sensazione di prima. So di non potermi girare. Alle mie spalle c'è qualcuno. Scommetto quell'uomo pronto a farmi a pezzi con uno sguardo.
Sarebbe un errore colossale perdere terreno proprio adesso che mi sono aperta la possibilità di tornare libera.
Scaccio via la paura. Tasto la tasca posteriore dello zainetto che ho ancora in spalla, apro il bottone e tiro fuori il mio telefono che chissà come, a seguito della caduta, è rimasto illeso.
Senza pensarci, compongo il numero di mio padre, ma parte subito la segreteria. «Proprio tipico quando ho bisogno di te!», ringhio.
Allora non mi rimane che inviare un semplice messaggio vocale di aiuto a mio fratello. «Ace, sono scappata ma hanno tentato di rapirmi. Sono riuscita a sfuggirli, anche se a breve mi prenderanno di nuovo. Non so che cosa vogliono. Hanno un furgone simile a un SUV nero e sono in quattro, tre uomini e una donna. Non so se sono armati. Se senti questo messaggio...», dico affannata, «per favore, avvisa nostro padre! Non è uno scherzo, Ace! Ripeto, non è uno scherzo!»
Riaggancio, nascondo il telefono in tempo perché so di non avere scampo. So che provarci non è stato abbastanza.
Vengo sollevata, i piedi che penzolano a qualche centimetro da terra. Non mi resta aria nei polmoni per gridare. Vengo poi caricata come un sacco di patate sulla spalla muscolosa della bestia che mi ha appena raggiunta per farmela pagare.
«Mossa sbagliata scappare!», ringhia e d'impulso invade il mio spazio personale sollevandomi l'abito dalle cosce, esponendo la mia pelle al suo sguardo corrotto.
Come un barbaro incapace di tenere a freno i propri impulsi, si china e morde. I suoi denti si avventano sulla mia povera natica, lasciandoci il segno e un dolore così forte da farmi urlare e reagire.
Gli è bastato un dannato gesto per far scuotere il mio corpo in brividi violenti. Inerme.
Mi sento inerme.
La rabbia mi esplode dentro e reagisco prima che lui possa anche solo osare toccarmi e prendersi altre libertà.
Prima di ogni altra cosa strillo; poi, in un gesto disperato, andando a tentoni con la mano, graffio il suo viso e premo le dita sul suo occhio facendolo urlare di rimando. In questo modo riesco a scivolare giù dal suo corpo, a scappare di nuovo. Ma sono a piedi nudi, ferita, senza fiato perché l'asma sta davvero arrivando, con un'intensità tale da mandarmi al tappeto.
Il Karma è un gran bastardo!
«Ti consiglio di fermarti o la tua punizione sarà peggiore di un piccolo morso quando ti prenderò!»
Mi fermo. Sento il cuore che si dimena fino in gola. Sollevo il mento. Un gesto di forza il mio, non di sottomissione; nonostante le parole che a breve sarò costretta a pronunciare, tra affanno e furia che si mescolano tra di noi con minacce silenziose.
Nel riflesso acceso dei suoi occhi, vedo la mia paura. Le labbra arrossate dall'incisione dei denti, schiuse, il petto scosso per il fiato fatto a pezzi dall'affanno, il rossore ad accaldarmi le guance.
Non c'è molto, eppure c'è tutto. Ci sono io, braccata ed emotivamente provata. C'è lui, così vicino da terrorizzarmi con la sua altezza, con quell'intenzione nascosta a guizzare in quel verde sempre più cupo.
Come posso spiegarlo... il terrore che mi striscia addosso e mi si ancora nel petto. Non so dire cosa mi stia terrorizzando di lui. Forse il modo in cui potrebbe fare a pezzi la mia libertà è già un motivo sufficiente per temerlo e odiarlo.
«Piccolo morso hai detto? Sei...»
Sputa all'angolo. «Me la pagherai, piccola stronza. Vieni qui, adesso!»
Mordo il labbro, tenendo per me alcune parolacce. «Solo se mi fai una promessa».
Solleva lo sguardo stupito. Ma è solo un attimo. Come se non dovesse mai farsi cogliere alla sprovvista, torna minaccioso. «Hai perso ogni diritto di pretendere qualcosa quando sei scappata e mi hai attaccato. Non avresti dovuto», lecca le labbra.
È sangue quello che vedo? L'ho colpito alla bocca? Non lo ricordo e francamente non mi dispiace. L'ho fatto solo per difendermi.
Arretro. «Verrò con voi solo se nessuno...», rischio di svenire, ma inspiro e stringo i pugni in vita conficcando le unghie nella carne. Solo quando sento dolore riesco ad allentare la presa. «Se nessuno mi metterà le mani addosso. Non so che cosa volete, ma so che io non ho alcuna colpa. Almeno questo me lo devi».
Gratta la fronte come uno che sta per avere o un mal di testa lancinante o una brusca reazione. «Entra in auto», scandisce ogni singola parola.
Capisco che il suo è un rifiuto netto. Faccio un passo indietro per metterlo alla prova ma rimane immobile, le braccia incrociate. Il punto in cui ha morso il mio sedere fa male, brucia come se bastasse un solo sguardo da parte sua a farmelo riprovare sottopelle quel dolore.
«Più tempo mi fai perdere, più ti metti nei guai. Adesso vieni qui. Odio essere in ritardo sulla tabella di marcia».
«Direi che è un problema tuo, non mio», mi ritrovo a dire con una certa spavalderia, mentre dal cielo arrivano le prime avvisaglie di un acquazzone passeggero.
Mi fissa con un'espressione a metà tra il disprezzo, la curiosità e forse il divertimento. «Ci stai tenendo testa e ammetto che ne sono estremamente sorpreso. Ma i giochi sono finiti. Muoviti».
«La prima regola di un piano ben congegnato non dovrebbe essere quella di non farsi cogliere di sorpresa dalla vittima?», lo sbeffeggio per sdrammatizzare e per riprendere un altro po' di fiato.
Inspira a fondo e il modo in cui lo fa mi agita qualcosa dentro fino a farmi venire voglia di scappare.
«Vieni qui», mi fa cenno di avvicinarmi a lui con l'indice mentre strattona la sua cravatta sciogliendo il nodo infastidito, al contempo con una sensualità che mi fa stringere le ginocchia.
I miei piedi come mossi da una magia, si recano nella sua direzione. Il mio corpo mi sta letteralmente tradendo. Insomma, dovrei scappare, mettermi in salvo. Eppure non succede. Vado dritta, raggiungo il mio rapitore.
Le sue pupille guizzano. La vena sul collo, ben visibile, trema. Solo pochi passi a dividerci e lui mi attacca. Facendomi voltare, con un certo impeto, mi toglie lo zainetto dalla spalla. Il suo petto accarezza la mia schiena mentre mi lega i polsi con la sua cravatta.
Il peso e il calore del suo corpo riscuotono il mio. Le sue mani... le sento dappertutto anche se sono concentrate e si muovono agili creando un nodo complicato con il tessuto. Vortici di tensione si concentrano insistenti sulla parte bassa della mia vita. Anche provandoci, non riesco a muovere un singolo muscolo. Sono incatenata a lui. Avvicinata come un minuscolo pezzetto di ferro a un magnete.
«Basta con le stronzate», sibila nervoso, portandomi di nuovo in auto. «Da questo momento in poi starai buona e al tuo posto o sarò costretto a usare le maniere forti. Intesi?»
Una tempesta di brividi mi investe quando mi respira vicino.
Cosa c'è di più crudele?
«Fine dei giochi, stronza», mi sibila ancora all'orecchio, sculacciandomi per spingermi ad entrare in auto.
Non ho neanche il tempo di lamentarmi.
«Chi cazzo sei, una Barbie wrestler? Questa non me l'aspettavo!», ride divertita Joleen, vedendomi balzare sul sedile. «Hai fatto come in quei film d'azione, assurdo!»
Non scorgo nessuna traccia di vendetta sul suo bel viso. Solo qualcosa di simile al sospetto e alla curiosità mentre massaggia il collo scrutandomi di sbieco.
Ci sto provando a restare intera. Davvero. Ma sono come una foglia secca in bilico su un albero spoglio. Mi basta una folata di vento. E arriva con la consapevolezza che non ne uscirò presto da questo incubo.
Un sospiro spezza la tensione. «Era nuovo questo abito, cazzo!», si lamenta all'improvviso lo stronzo. «Ed era uno tra i miei preferiti».
I suoi occhi approdano nei miei, catturandomi nella loro rete. Il suo sguardo irradia brutale dominazione; senza il minimo sforzo riesce a trasmettere un distacco deleterio.
Parla poco, ma con il suo atteggiamento sta sussurrando tutto quello che pensa. Come un dio silenzioso, si eleva al di sopra degli altri tre. Pieno di sé e sicuro abbastanza da non lasciarsi fregare un'altra volta. Ma avere quella posa, quell'espressione, non gli dà il diritto di trattarmi come ha fatto lì fuori.
«Be', dovevi pensarci prima di indossarlo per una simile azione, non credi? Ad ogni modo, il mio culo non meritava quel morso, tantomeno una sculacciata. Sei un animale».
Tace per un momento spingendo il mio cuore a fare le capriole. Quando le sue narici guizzano, io trattengo il fiato, perché so che sta per attaccarmi. Infatti, pochi istanti dopo, sporgendosi mi afferra per il collo. «E tu sei violenta e insubordinata».
«Allora lasciami andare».
«Così che tu possa scappare e fare di nuovo la spia piagnucolando con tuo fratello o attaccarci uno dietro l'altro come una gattina inferocita? Non hai capito chi sono, vero? Non saranno i tuoi tentativi a fermarmi. Adesso sta' al tuo posto!», mi ringhia contro.
Rimango a fissarlo, gli permetto di torturarmi ulteriormente come un predatore abile e spietato, ma non gli mostro la mia paura. Il modo in cui sta riuscendo a far scorrere il mio sangue in ogni parte del mio corpo fino a incendiarlo. Quando mi lascia andare, riprendo fiato boccheggiando e tossendo.
Faron e Joleen ghignano, poi tentano di smorzare la tensione. «Basterà mandarlo in lavanderia quel vestito. In quanto al tuo sedere... spiacente, dovrai tenerti il livido, principessa».
«Smettila di chiamarmi così. E tu, viscido pezzo di melma, me la pagherai. Sei un bastardo. Se provi ancora a mettermi le tue mani addosso te le taglio e le do in pasto ai miei cani e con i tuoi denti mi creo una collana», do sfogo alla mia furia.
Per tutta risposta, lecca le labbra ancora insanguinate e comincia a smanettare con il suo iPhone ignorandomi.
Molte cose ti restano aggrappate nel cuore e il tempo non è in grado di strapparle via.
Un brutto sogno.
Sembra un brutto sogno.
Incredula, stanca, spezzata, fisso la strada che si confonde ai miei occhi.
Ogni via di fuga, impossibile da raggiungere.
Sta arrivando la notte, l'aria è leggera e la lieve pioggerella che si è abbattuta poco prima ha lasciato spazio a un odore sgradevole di asfalto bagnato e terra umida che filtra dal finestrino semi-aperto. Il cielo inizia a sgombrarsi dalla spessa coltre di nuvole e punti luminosi illuminano il buio.
Abbasso solo per un istante le palpebre, cercando una posizione comoda per lenire il dolore che sento su ogni singolo muscolo.
Se è stato un brutto incubo, allora perché ricordo tutto? Perché fa così male?
La paura dovrebbe acuire il resto, ma i miei sensi sono ancora tutti in allerta.
«Ci divertiremo con te».
La voce odiosa del mio rapitore mi riporta al presente.
Sollevo la testa e mi volto nella sua direzione.
Disgustata.
Umiliata.
Avvilita.
Adirata.
Digrigno i denti quando si sporge. «Avvicinati ancora a me e faccio a pezzi quello che resta delle tue palle!», replico aspramente. «Non ti è bastato il primo assaggio?»
Il balordo seduto davanti a me ride in modo malvagio, spingendo i membri della sua banda a fare lo stesso.
Non vi è nessuna bontà nei loro occhi. Nessuna scintilla di umanità sui loro volti temprati dalla furia. Mi stanno prendendo in giro. Stanno cercando di confondermi, di spaventarmi.
«Dove mi state portando?», oso chiedere.
«Per quanto io sia attratto dalle donne con la lingua lunga, preferisco quando riescono a stare zitte. Mettiti comoda, sarà un lungo viaggio».
Qualcosa di freddo mi punge il collo.
Il gesto è stato talmente fulmineo da non essere riuscita a impedirgli di farmi del male.
Sgrano gli occhi, mi dimeno, ma sembra che la sostanza appena iniettata nel mio corpo, faccia il suo corso più velocemente in questo modo. In breve, i miei occhi si appannano, i muscoli diventano liquidi e la mia mente si perde. L'oscurità ha altri piani. Comincia a risucchiarmi fino ad avvolgermi e accogliermi tra le sue braccia fatte di niente.
Mi rendo conto troppo tardi che non ho più nessuna certezza, nessun riparo. Sono sola in mezzo alla tempesta.
Con il cuore stanco l'ho appena capito. Ho capito di non potere più tornare indietro. Di dover andare avanti senza voltarmi a guardare i resti affilati di quello che ormai si sta tramutando così in fretta in passato.
Ma se c'è una cosa che ho imparato è che prima o poi ognuno ha quel che si merita. Loro mi hanno condannata, ma non sarò io a morire.

♥️

Cruel - Come incisione sul cuore Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora