Capitolo 6

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EDEN

"Ogni crepa può essere riparata."
Abbasso il viso stropicciando l'involucro contenente uno dei post-it che sono riuscita a infilare nel borsone.
«È una bugia, mamma». Vorrei tanto dire ad alta voce.
La verità è che per quanto provi a tenere insieme i pezzi, all'interno rimani segnato, tanto fragile. Perché per quanto sia umanamente possibile rialzarsi, i danni interiori e certe ferite rischiano comunque di essere irreparabili o di infettarsi.
La verità è che quando cadi a fondo e ti rompi, rimani rotto. Puoi assemblare i pezzi, ma avrai sempre la costante sensazione di averne perso per sempre qualcuno. E poi devi restare in perfetto equilibrio per non correre il rischio di cadere e ferirti con una di quelle schegge che non sei riuscito a smussare. Devi fingere che siano solo inutili graffi quelli che ti sei procurato al cuore; anche se continuano a sanguinare davanti a tutti.
«Signorina Rose, vedo che è già sveglia. Venga qui».
Il signor Blackwell mi fa cenno di avvicinarmi a lui. Se ne sta perfettamente immobile, appoggiato al suo bastone. Indossa una vestaglia leggera blu cobalto con lo stemma di famiglia cucito sulla parte sinistra del petto.
Fare una breve passeggiata fuori dalla villa per schiarirmi un po' le idee e calmarmi, non è stata una buona idea, ma non posso rifiutarmi; pertanto, nascondo il post-it in tasca, supero il viale e raggiungo il giardino adiacente.
Le guardie appostate ad ogni angolo, seguono i miei movimenti sin da quando ho messo piede fuori dalla porta. Nessuno di loro in questo momento però osa farsi avanti. Il signor Blackwell deve averli addestrati come cani. Sanno perfettamente quando è il momento di agire.
«Ha dormito bene? Si è trovata comoda nella sua nuova stanza?»
«Converrà con me che "trovarmi comoda" non poteva essere facile dopo essere stata rapita, punita e poi spedita in un ambiente nuovo, che non è il mio».
Ci troviamo sul retro della villa. Una zona scarsamente illuminata dal sole e un boschetto fitto davanti, dal quale proviene l'odore pungente di legno e erba. Il costante frinire delle cicale, il cinguettio degli uccellini, lo svolazzare delle api e quasi un conforto.
Il signor Blackwell prende posto sul divano in vimini, versa del tè su una tazzina e ne beve subito un sorso prima di rispondere. Il tutto senza mai permettermi di avvicinarmi oltre, senza chiedermi di sedermi. In questo modo mi dimostra che sta esercitando il suo potere.
«Sono sicuro che riuscirà a sentirsi a proprio agio. Si dia del tempo», porta ancora la tazzina alle labbra. La mano gli trema, ma riesce a mimetizzare il gesto proseguendo con il suo discorso: «Qui può muoversi dove e come vuole. Se ha bisogno di qualcosa in particolare, lo metta pure per iscritto e mi faccia recapitare il biglietto da una delle guardie. Accontenterò ogni sua richiesta».
Tenendo le mani dietro la schiena, mi pizzico un braccio per trattenermi. Ma di fronte a tanta arroganza, serve a poco il monito che do a me stessa.
«Be', se la mette così e posso muovermi liberamente, allora perché le sue guardie mi seguono a ogni passo? Nel biglietto da farle recapitare, posso scrivere di voler essere riportata a casa, dalla mia famiglia? Ah, e che ne dice se...»
Solleva la mano pallida, l'indice puntato come monito. Riesce ad azzittirmi con un semplice gesto, incredibile!
«Basta così», mira quegli occhi duri nei miei. «Tornerai a casa quando lo dirò io. Prendila come una vacanza. Adesso va'! Esplora la villa, conosci i miei figli, ma non riprendere più questo discorso o ti farò fare un altro giro al club. E questa volta non ci sarà mio figlio ad aiutarti».
Rabbrividisco di fronte alla compostezza appena sfoderata e stizzita mi allontano senza neanche salutarlo. Che se ne vada al diavolo.
«Bastardo!»
Entrata in casa, mi dirigo in cucina e mi preparo una ciotola di latte d'avena e cereali.
Se proprio devo stare qui, mi toccherà scrivere davvero una lista delle cose che mi servono, molte delle quali per una possibile fuga.
«Potrei chiedere qualcosa di inappropriato. Sono curiosa di vedere la reazione di quel viscido pezzo di merda».

* * *

L'alba è passata da un pezzo. Il sole splende rendendo l'aria calda e il paesaggio una cartolina dai colori accesi. Siamo ben lontani dalla città. All'orizzonte vi è l'immensa distesa blu. Non ho ancora capito dove ci troviamo e ho il sospetto che se solo provassi a uscire da quel cancello, la mia vita si trasformerebbe in un inferno peggiore da quello che mi è stato offerto.
Non posso neanche connettermi. Mi hanno confinata e mi guardano a vista, come una potenziale minaccia. A quanto pare mi si legge in faccia il bisogno di fuggire.
Staccandomi dalla vetrata, pur riluttante, accolgo il consiglio del signor Blackwell e gironzolo dentro questa meravigliosa casa, al momento silenziosa.
Mi sento un po' spaesata e scombussolata dagli eventi che mi hanno condotta in questo posto, ma potrei trovare qualcosa di utile per scappare o magari un segreto da poter usare al momento opportuno e con cui barattare la mia libertà, mi dico entrando distrattamente nella prima stanza, l'unica ad avere la porta chiusa.
Mentre questa scorre, distratta varco la soglia, ritrovandomi in un meraviglioso spazio rettangolare, arioso, luminoso e... terribilmente in disordine.
«Com'è possibile? Da quanto tempo vivono qui? Perché tengono questa stanza in questo stato?»
Dovrebbe essere uno studio, situato a distanza dal soggiorno e dalla cucina; tra l'entrata, il bagno e la scala che conduce ai piani superiori.
Davanti a me c'è una bellissima libreria incastonata nella parete. Ma nonostante ciò è come trovarsi in un magazzino. All'angolo, ci sono attrezzi di ogni dimensione e tipo per il giardinaggio. Fusti di colore bianco e dei rulli appoggiati a una scala lasciata sul pavimento. Il resto: scatoloni.
Mi avvicino alla pila e sbircio all'interno di quelli che sono aperti e dai quali intravedo dei grossi volumi di legge impolverati.
I miei occhi, saettano verso la libreria vuota. Mordo forte l'interno guancia, il labbro inferiore e stringo le dita in grembo mentre vengo colpita da un'idea che prende sempre più forma dentro la mia testa. In fondo, ho bisogno di un momento di svago per accettare questa follia, no?
«Mi auguro di non offendere nessuno se cercherò di rendere personale e accogliente questa stanza», mormoro.
Da un paio di ore ormai non faccio altro che parlare da sola. Un modo come un altro per non comportarmi come una ragazzina spaventata. So che ho tutto il diritto di esserlo, ma non posso abbassare troppo le difese. C'è la mia vita in ballo e quella della mia famiglia. Per quanto io abbia avuto bisogno di allontanarmi da loro, voglio bene a mio padre, alla mia matrigna e soprattutto ai miei fratelli. Mi si spezzerebbe il cuore se dovessi perdere anche solo uno di loro.
Scacciando via i cattivi pensieri, lo scenario di un'ipotetica tragedia, corro in camera, indosso indumenti comodi: un paio di pantaloncini di cotone e un top nero con il logo di Batman.
Tornata di sotto, infilo le cuffie alle orecchie, accendo l'iPod e selenziono "Experience" di Ludovico Einaudi.
Accompagnata dalla musica, dopo avere tolto la polvere dalle superfici e ricoperto il pavimento di vecchi giornali, dipingo le pareti di bianco. Proseguo controllando che le mensole della libreria siano integre e ben salde; infine dispongo i volumi insieme agli oggetti che trovo negli scatoloni: statuine, vecchi trofei, piantine grasse finte. Ci sono persino dei quadri. Ma per appenderli dovrò aspettare che le pareti siano asciutte.
Se inizialmente mi sentivo in colpa per avere messo le mani su qualcosa che non mi appartiene, man mano che la stanza prende forma, comincio a cambiare idea.
Dopo tutto il trambusto della notte scorsa, non riuscendo a riprendere sonno, ho messo in ordine la mia stanza partendo dallo studio. Non contenta, ho pulito da cima a fondo il bagno, nonostante fosse già tutto in perfetto ordine. Ho persino trovato la lavanderia al piano di sotto e ho fatto del mio meglio per avere i miei pochi indumenti puliti.
Non devo fermarmi o la realtà mi piomberà addosso come un dardo. Insomma, nemmeno ventiquattr'ore fa ero ancora la principessa della famiglia Rose, la protagonista di una serata in cui dopo il taglio della torta, a mezzanotte, mi sarei dovuta fidanzare per affari, con un uomo che in questo momento starà sicuramente accusando la mia famiglia per questa trovata e starà mettendo sotto torchio le guardie.
Avevo solo bisogno di evadere, di uscire come qualsiasi ragazza, scherzare, divertirmi, lavorare, fare esperienze e conoscere il mondo. Invece sono stata rapita e sono passata in fretta da una prigione a un'altra, senza possibilità di scelta.
Canticchio sempre più rilassata. Nel frattempo, maniacalmente, controllo che le viti non sporgano e la mensola alla quale sto dedicando tutta la mia attenzione sia salda. Dopo averla pulita, dispongo quello che trovo nello scatolone lasciato in equilibrio alla base della scala. Continuo così, passando alla successiva, quella più in alto.
Sto per scendere dalla scala per controllare di avere messo tutto nel giusto ordine, quando un rumore improvviso mi fa voltare in fretta. Invece di appoggiare il piede sul gradino della scala, prendo il vuoto, perdo l'equilibrio e scivolo giù.
Caccio un urlo.
Non so come sia possibile. Non tocco terra. Non mi faccio male. Sento solo mani possenti afferrarmi per i fianchi, sostenermi; poi due braccia stringermi contro un petto duro come il marmo. Le mie dita, in risposta, si aggrappano come ventose alla pelle perfettamente liscia e calda del mio salvatore.
Ma non appena oso voltarmi e sbirciare, la favola, il castello, tutto crolla giù. Perché non c'è nessun principe a tenermi come se fossi un bene prezioso da portare in salvo.
Davanti a me, un cavaliere dall'anima nera, macchiata dalla finta indifferenza sfoggiata con orgoglio e convinzione. Un'anima di tenebra, senza paura, pronta a farmi precipitare negli inferi più profondi.
Non dovrei farlo ma è inevitabile. Contro ogni buon senso, mi ritrovo a inspirare il suo profumo, una traccia sottile di spezie, crema solare e qualcosa di mascolino, di suo. Una scossa elettrica mi attraversa e trattengo il fiato. Di colpo è come se dalla stanza fosse stata risucchiata via anche la più piccola boccata d'aria. Mi sembra di sentirlo ovunque, in ogni mia terminazione nervosa, in ogni fibra.
Le sue dita a fare pressione sulla mia pelle, hanno appena premuto un interruttore invisibile, accendendo in me una minuscola fiamma che potrebbe trasformarsi in un rogo.
Feroce.
Distruttivo.
Corrosivo.
Una sequenza devastante e continua di emozioni, mi si abbatte dentro come onde di un mare mosso. Così tanto da stravolgermi.
Pensavo di non poter avere simili reazioni di fronte a qualcuno tanto attraente. Mi sono illusa di essere immune. D'altronde sono sempre stata circondata dal fascino, dal narcisismo. Mi sono ritrovata costantemente in mezzo a uomini egocentrici ed egoisti. Evidentemente mi sbagliavo. Si sbaglia, e certi errori poi costano molto cari. Proprio come adesso.
Non c'è gentilezza nei suoi occhi. Solo un rancore che non riesco a comprendere, non fino in fondo. Eppure ha evitato che mi facessi male cadendo dalla scala. Perché? Avrebbe potuto semplicemente godersi la scena e poi stuzzicarmi come ha fatto per gran parte del tempo sin dal momento in cui ci siamo scontrati.
Schiacciati l'una di fronte all'altro, immobili e sul punto di andare in cortocircuito, respiriamo appena.
Sono stordita dalla sua bellezza, e dannazione, mi sto sentendo una traditrice verso quella minuscola parte di me che non vuole proprio saperne di cedere. Il disgusto per la breve e piacevole sensazione provata, presto affiora e rendendomi conto di quello che sta effettivamente succedendo, mi divincolo liberandomi dalla sua presa, evitando di spingerlo e toccarlo ancora.
Ma lui non mi lascia andare. Non con quegli occhi attraversati dalla luce del giorno. Verdi, con pagliuzze all'interno. Neanche dal suo odore, che comincia a circolare come tossina nelle vene.
Dante non sembra un mortale. Ha una bellezza sfacciata, uno sguardo distaccato e freddo e le movenze di uno che del mondo ha visto abbastanza e sa prevedere qualsiasi catastrofe.
Rispetto alla notte passata in cui ha iniziato a stuzzicarmi in soggiorno, prima dell'arrivo di Joleen, ho modo di constatare meglio che è molto alto. Ha un fisico che potrebbe fare invidia a un modello di una copertina patinata. Con quel braccio coperto da tatuaggi che si diramano verso tutta la parte sinistra del petto.
Ma non è la bellezza ad attrarmi di lui. Sin da quando mi ha rapita e poi rincorsa come un animale famelico disposto a sbranarmi, ogni volta che lo ritrovo a poca distanza, sento come un pizzicotto sul basso ventre.
Senza chiedere permesso, mi strappa una cuffia dall'orecchio sfiorandomi il lobo, e ascolta le ultime note musicali del balletto "Fiamme di Parigi" che avevo scelto prima di essere interrotta.
Corruga la fronte e vorrei tanto protendere la mano, avanzare con le dita fino a toccare la sua pelle, distenderla.
Quando mi restituisce la cuffia mi piacerebbe tanto sapere cosa ha attraversato la sua mente. Quale pensiero si è ingarbugliato a tal punto da fargli strizzare la palpebra lievemente.
«Non hai sentito cosa ho detto perché avevi le orecchie tappate. Almeno ascolti buona musica e non quei pezzi commerciali che le fanno sanguinare».
Dovrebbe essere una battuta o un complimento velato sui miei gusti musicali, ma ne esce più come un'accusa volta a farmi sentire nervosa. Mi crede tanto scontata e frivola?
«Perché sei qui?», ritrovo la voce, timorosa di quello che sta per dire.
«Potrei chiederti lo stesso. Ma so già la risposta», ribatte piccato, incrociando le braccia al petto. «Non aprire quella scatola. Non è roba tua».
Seguo il percorso della sua mano quando indica l'angolo dove tra gli scatoloni aperti e svuotati dalla sottoscritta ne rimangono un paio ancora imballati e con il nastro nero sul quale vi è la scritta "FRAGILE" in stampatello e perfettamente visibile da qualsiasi angolazione.
Mi sono chiesta sin dall'inizio chi fosse il proprietario di quelle scatole e adesso mi chiedo cosa ci sia di così prezioso.
Dato che appartengono a lui, so che non mi sarà più possibile sbirciare. In più, mi sta facendo sentire una ladra e non nascondo di rimanerci male. «Non vuoi portarle nella tua stanza? Non so se hai notato, sto...»
«Non devi aprirle per nessuna ragione al mondo quelle. Devono restare lì, all'angolo, dove le ho lasciate. Non me ne frega niente se stai mettendo le mani qui dentro per non annoiarti. Non è un problema per me. Ma quelle, non le toccherai», mi interrompe brusco. «Intesi?»
Apro e richiudo di scatto la bocca. Perché mi sta sgridando?
Gratto la nuca abbassando lo sguardo. Mi rendo conto di non dover sempre permettere all'impulso di lottare di sovrastarmi. Decido di essere più pragmatica, meno polemica rispetto a quando ho parlato con suo padre. «Faranno da brutto soprammobile o saranno utili per posizionarci sopra le lampade, se per te è accettabile. C'è altro?», domando con un filo di voce, sperando che mi lasci in pace.
Si avvia alla porta. «Per il futuro, non sentirti in diritto di poter fare quello che cazzo ti pare solo perché ti è stata lasciata una certa libertà. Soprattutto non toccare quello che non ti appartiene».
«Potresti almeno fingere di essere gentile ogni tanto. Non perdi di certo il primato di "Mister Malvagità". Inoltre, non c'è motivo di trattarmi in questo modo solo perché mi sono permessa di entrare qui dentro e dare una sistemata. Dovresti solo ringraziarmi. Stronzo!», mormoro, apprestandomi a salire nuovamente sulla scala. Recupero la macchina fotografica dalla mensola dove l'avevo lasciata e trovando l'angolo e la luce giusta, scatto qualche altra foto.
Mi volto percependo di non essere sola e lui se ne sta lì, appoggiato allo stipite della porta scorrevole, a fissarmi. Deve avermi sentito prima. A mia discolpa pensavo di essere di nuovo sola. Ma non mi scuserò per avere detto quello che penso.
Quegli occhi verdi... il mio cuore ha un piccolo sussulto quando inclina la testa da una parte e come un rapace me li punta addosso. A seguito del movimento, un ciuffo castano dorato gli ricade sulla fronte ma non sembra dargli alcun fastidio. Gli concede solo un'aria di pura malvagità.
Quando penso che stia per aggiungere qualcosa in grado di demolirmi moralmente, la sua espressione muta repentinamente. All'inizio è come se non riuscisse a respirare.
Staccandosi dallo stipite, avanza a passo deciso.
Indietreggio, le mie dita cercano a tentoni e trovano appiglio sulla superficie della libreria. Premo la schiena contro una delle mensole proprio quando lui piega e appoggia il braccio su quella che si trova poco più sopra la mia testa. Abbassa il viso e il suo fiato caldo alla menta mi raggiunge insieme alla sua colonia.
«Durante l'organizzazione del piano, nella mia mente eri diversa, molto».
La sua mano libera scivola lungo il mio fianco e preme le dita sulla mia pelle, riscaldandomi all'istante. «Odio sbagliarmi».
Nonostante pronunci queste parole, nella sua voce non c'è traccia di irritazione. Dissipa parte del mio nervosismo distraendomi quando le sue dita accarezzano in cerchio la mia pelle.
«Lo pensi perché ti affronto. Perché sei abituato a vincere e con me non ci riesci».
Solleva l'angolo del labbro. «Non mi dispiace quando reagisci, uccellino», mi dà un buffetto sul dorso del naso. «E io vinco, in qualsiasi modo».
Sbuffo. «Sai cosa dicono della troppa convinzione», sollevo gli occhi. Le falene nel mio stomaco svolazzano all'impazzata come rapaci che si precipitano sulla preda colpendo in ripetizione con artigli affilati.
Mi rende nervosa e lo sa. Lui lo sa.
Le sue mani si stanno muovendo di nuovo, mi sfiorano la pelle e il sangue mi si incendia. Il cuore prende a battermi sconnessamente dentro la gabbia toracica.
«Mi piaci di più quando sei vulnerabile», mormora. «Proprio come eri qui», picchietta l'indice sulla sua tempia.
Per poco non crollo al suolo. Sento le ginocchia tremare al suono della sua voce bassa, cavernosa, roca. Si sprigiona come una sinfonia sui miei nervi, facendomi formicolare in ogni parte del corpo.
Abbassa il viso. La sua bocca sul mio orecchio. «Tieniti alla larga dai guai, uccellino».
«Mi stai dicendo che dovrei tenermi alla larga da te?»
Confusa corrugo la fronte. La sua mano scatta veloce, con il pollice mi distende la pelle e dopo pochi secondi in cui trattengo il fiato, ci preme sopra la sua bocca; proprio come ha fatto al club. Questa volta però non ride, non mi dà alcun benvenuto e non mi imbratta di sangue. La sua è solo una promessa sigillata e incisa sulla mia pelle.
«Esatto», strofina la punta del naso sul mio, poco prima di soffiarmi in faccia.
Sto per avere un arresto cardiaco. Qualcuno lo fermi.
Per fortuna si allontana, anche se lo fa lasciandomi un enorme vuoto addosso e il peso di qualcosa a cui non riesco a dare un nome.
Trovando Joleen immobile sulla soglia, crea una sorta di muro di pietra e in un attimo torna l'uomo imperturbabile di sempre.
«Interrompo qualcosa?», domanda lei con una certa esitazione, sventolando con allegria un sacchetto di carta che man mano si sta ricoprendo di chiazze di unto e riempie la stanza di un odore particolarmente appetitoso.
«Passando per il centro, mi sono fermata a prendere qualcosa da mangiare per rifocillarti. Pensavo che... avresti avuto bisogno di un po' di cibo spazzatura», conclude a denti stretti. Notando Dante ancora impalato e impegnato a fissarmi in cagnesco dopo avermi parlato in quel modo, inarca un sopracciglio.
Scommetto che ha assistito a tutto. Ha solo la decenza di non mettermi in ulteriore difficoltà, dato che mi sono appena comportata come una ragazzina di fronte a un idolo.
«Se il tuo è un tentativo di corruzione, be' ci sei riuscita», replico quasi gracchiando. Ho ancora la voce roca, pertanto la schiarisco con un colpetto di tosse. «Ho fame», aggiungo.
Percependo la tensione, Joleen indaga: «Qualcosa non va?», posa il sacchetto sulla scrivania addossata alla parete.
«No, no. Tutto... bene», tentenno sulle ultime due parole.
«In realtà stavo dicendo alla tua nuova amica di non mettere mai più le sue manine da principessa sulle mie cose o la prossima volta ci piazzerò sopra delle trappole. Vediamo se è un topolino intelligente», solleva l'angolo del labbro.
Non mi permette di ribattere, visto che si allontana lasciandomi con Joleen, apparentemente sorpresa dalla sua reazione.
«Avete mai richiesto un parere da parte di uno specialista? Ha più sbalzi d'umore lui di una donna sulla soglia della menopausa», mi ritrovo a chiedere e a parlare ad alta voce.
Joleen sposta confusa lo sguardo alle sue spalle. Ma siamo rimaste sole. «Dante non è pazzo. Ha le sue buone ragioni per comportarsi in maniera incoerente. Inoltre deve avere discusso con Faron. È molto importante per lui il rapporto con il fratello e quando succede qualcosa il suo umore ne risente per giorni. Ti abituerai a loro», solleva una spalla. Un modo per dire di passare all'argomento successivo.
«Come mai vivete tutti insieme? Lui non ha un posto suo?»
Joleen esita. Non sa se dirmi la verità o mentire. «In realtà, anche se Faron è il primogenito e fa gran parte del lavoro sporco, Dante è il proprietario dei posti in cui siamo soliti spostarci. È bravo nel suo lavoro. Lo è in tutto quello che fa. La sua villa preferita al momento è in ristrutturazione dopo che una banda rivale ha fatto saltare parte della zona giorno. Questa gli serve solo per il lavoro attuale», parla a macchinetta. «So che te lo stai chiedendo. È successo lo stesso alla villa accanto. Quella è di proprietà della famiglia Blackwell da generazioni. Ma Dante ha sempre preferito edificarci vicino qualcosa di più moderno e averci con lui».
Tradotto: questa casa gli serve solo a causa mia. Altrimenti sarebbe altrove a divertirsi. Ho anche il sospetto che Dante voglia stare lontano da suo padre. Come biasimarlo?
«Non vi dà fastidio non avere privacy? Insomma, tu e Faron non nascondete di certo di essere attratti l'uno dall'altra».
Nega. «Affatto, Eden. A noi la casa non serve quasi mai, eccetto per dormirci. Stiamo quasi sempre fuori», risponde, ponderando bene ogni parola. Ho notato che si è agitata sul posto quando l'ho incalzata con le mie domande. Forse dovrei smettere di essere così curiosa. Potrebbe insospettirsi e non essere più gentile.
«Io e Faron abbiamo una relazione aperta. Sappiamo entrambi quello che c'è in gioco, da sempre, e in ogni caso non... funzionerebbe in altri modi tra noi. Ci abbiamo provato. Ci piace vivere tutti insieme e quando abbiamo bisogno di un po' di spazio, be', troviamo un altro posto, altra gente».
Sposta subito l'attenzione sui volumi che ho sistemato sulle mensole, facendo cadere il discorso con un sorriso. «Stai rendendo questa stanza davvero accogliente. Avrei dovuto farlo io, ma...»
«Ma devi rapire le persone e non puoi adagiare per un secondo il tuo mantello da cattiva, per dedicarti a queste cose», concludo per lei, con sarcasmo.
Batte e strofina le mani, indicando il pranzo. «So che non sei abituata a questo genere di cibo, ma pensavo ti avrebbe fatto piacere provare il brivido del fritto».
Mi avvicino con cautela. Scarto l'involucro come una bambina e prendo subito un gambero fritto mordendolo e masticandolo voracemente. «Uhm... grazie», biascico.
Sentendo il gemito che ho appena emesso, Joleen ridacchia e sedendosi sul divano in pelle bordeaux, coperto da un telo bianco, mi fa cenno di non starmene in piedi e di raggiungerla.
«Passami il mio panino. Non ho fatto colazione e divorerei qualsiasi cosa in questo momento».
Joleen ha quei modi amichevoli capaci di metterti a proprio agio. So che non è mia amica, forse non lo sarà mai. Ma se voglio escogitare un piano, affinché vada tutto liscio, ho bisogno di avvicinarmi a ognuno di loro.
Mi siedo accanto a lei. «Come mai Faron o gli altri ti permettono di avvicinarti a me?», domando con cautela.
Mastica lentamente. Come se avesse avuto un'illuminazione, pesca una busta dalla tasca porgendomela. «La tua nuova SIM card. Abbiamo già memorizzato i nostri numeri. Sei libera di usarla, ma non puoi contattare in alcun modo la tua famiglia».
Osservo la minuscola SIM bianca. Non riconosco il marchio. «Non non credo mi servirà a qualcosa dato che non posso comunicare con nessuno della mia famiglia».
«Non ne sarei tanto convinta sul fatto che non ti servirà». Soppesa per un interminabile secondo il mio sguardo corrucciato. «Non dovrei dirtelo, ma tuo padre ha scandagliato i suoi cuccioli per trovarti. Non si sono bevuti la storia della fuga. Sei un bene prezioso per il tuo paparino e i suoi affari».
Bevo un sorso di Pepsi, trattenendo a stento il sollievo. «Lo hanno annunciato?», domando speranzosa.
«Non ancora. Sai bene che se lo facesse cadrebbe quella solida facciata che ha costruito in questi anni».
Ha ragione. Annuisco di nuovo abbattuta. «Sapete dove mi stanno cercando?»
Il suo fissarmi con quel sopracciglio perfetto e inarcato mi suggerisce: "Ovvio, sciocchina!".
«Per quanto sia un uomo intelligente e abbia a sua disposizione molti uomini, dubito possa trovarti tanto in fretta», ghigna e un moto di orgoglio le affiora in volto. Sposta poi la sua attenzione verso la libreria. «Non dare retta a Dante. Gli piace avere il controllo di tutto ed è geloso delle sue poche cose. Non invadere i suoi spazi e lui non ti darà alcun fastidio. Non intendeva di certo...»
La fermo prima che possa concludere il discorso. «Oh, intendeva eccome mettermi in guardia. Devo ricordarti che mi ha morsa? Mi fa ancora male la chiappa. Sto pensando di chiedere un consulto medico. Non vorrei che mi avesse trasmesso la rabbia», pulisco le mani con una smorfia al ricordo di quegli attimi in cui mi sono sentita avvilita.
«È solo che ti vorrebbe un po' più... gestibile».
«Conosco quelli come lui, Joleen, e non mi lascerò intimorire solo perché pensa che io sia una ragazzina viziata che è appena entrata nella vostra famiglia dopo essere stata rapita. Non dimentico il mio ruolo in questa storia».
Joleen termina il suo Crispy MacBacon e si tuffa sulle ultime patatine. «Una cosa è certa, avrà pane per i suoi denti», mi sfiora una guancia e balza subito in piedi controllando lo schermo dell'Apple Watch. «Bene, la mia pausa pranzo è finita. Se hai bisogno mi trovi di sopra nel mio studio. Ho un paio di chiamate da fare e dei clienti da aggiornare», si avvia sculettando elegantemente verso la porta.
«Che lavoro fai?», oso chiedere.
«Sono un avvocato».
Dopo appena pochi passi, ricordando qualcos'altro, si volta. «Stasera usciamo».
Pur essendo curiosa sulla destinazione, non la trattengo oltre e torno al lavoro.
Non so con esattezza cosa succederà questa sera, mi auguro che questo incubo si concluda presto.

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Cruel - Come incisione sul cuore Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora