EDENMi sento come una falena intrappolata in un barattolo.
C'è qualcosa di sbagliato in me. Non faccio che attirare odio da parte dell'universo. Non è una sorpresa, considerando tutto quello che ho fatto a testa china nell'ultimo periodo. Ma sono stanca di ritrovarmi in situazioni in cui mi viene richiesto un certo quantitativo di coraggio e una forza che man mano si esaurisce facendo risalire in superficie la disperazione.
Tutto questo è reale.
Non un sogno.
Non il frutto della mia immaginazione.
Non mi sveglierò, non sarò nella mia stanza o tra le braccia di Darrell, con un anello al dito, dopo essere svenuta in seguito alla sua proposta di matrimonio.
Inutile chiudere gli occhi, perché una volta riaperti mi troverei esattamente qui: immobile e incapace di fare anche un solo passo, con la mano appoggiata ancora allo sportello, a fissare esterrefatta l'enorme villa che mi si para davanti.
Dopo avere viaggiato per ore, molte delle quali le ho passate dormendo e in preda agli incubi, siamo atterrati in una pista isolata, su una piattaforma in mezzo al nulla e siamo saliti subito su un SUV blindato, guidato da Terrence. Lo stesso che continuava a controllare ogni cosa, dai sedili alla strada, dai suoi compagni ai miei occhi, con maniacale attenzione. Come se da un momento all'altro qualcuno potesse raggiungerci e farci fuori.
A causa dei vetri oscurati non sono riuscita a captare nessun segnale, nessuna immagine precisa del posto esatto in cui ci troviamo, eccetto la strada che sfrecciava davanti a velocità costante.
Fuori, lontana dal calore percepito dentro il SUV, devo abbracciarmi per non rabbrividire e non sentirmi spaesata e così piccola da poter essere ingoiata in un sol boccone dal posto in cui mi ritrovo senza possibilità di scelta.
Un lungo viale costellato da lampioni e alberi si ferma ai piedi di una scalinata in pietra antica che conduce al portone principale in legno scuro con ornamenti in oro. Le finestre ad arco con cornici spesse bianche, il tetto spiovente su alcuni punti. Una parte della struttura è in fase di ristrutturazione. Dà tanto l'impressione che qualcosa sia esploso all'interno, lasciando solo una carcassa adesso coperta da spessi teli e dalle impalcature.
Vi è un giardino dall'erba curata ambo i lati, con statue disposte in punti strategici e panchine in pietra dietro spesse strutture di vegetazione; dei roseti, i cui colori variano e le cui primule si stanno aprendo sotto una luna piena e pallida a rischiarare il buio intorno.
L'aria profuma di fiori ed erba e il frinire delle cicale fa da colonna sonora all'atmosfera suggestiva.
Più in là, a metri di distanza, su un isolotto di terra ben tenuta e circondata da una sorta di recinzione di pietra e edera intrecciata a nasconderla, si intravede un'altra villa.
Quando il portone principale si spalanca, trattengo il fiato osservando la guardia che esce per accertarsi che sia tutto calmo, l'uomo poi china il capo dando il via libera a un altro che lo supera.
Cammina zoppicando, riuscendo a reggere il proprio peso grazie a un bastone. Lo strumento è particolare, un'asta di un legno pregiato con all'apice una miniatura in oro. Un animale con le fauci spalancate e rubini al posto degli occhi.
L'uomo che potrebbe avere cinquant'anni, più o meno l'età di mio padre, porta un abito Gucci e tiene il mento sollevato. I suoi capelli sono un po' lunghi ma tenuti in ordine e all'indietro dal gel. Barba sale e pepe, a tratti ispida a incorniciargli guance affilate.
Si ferma a poca distanza da me dopo avere sceso i gradini con lentezza calcolata. Il sorriso affabile, ma occhi di un predatore freddo e privo di qualsiasi scrupolo mi studiano a lungo.
«Benvenuta, Eden», mi saluta con voce tenue.
Odora di muschio, posso constatarlo quando mi si avvicina facendomi il baciamano. Per fortuna le sue labbra non toccano il mio dorso.
«Hai viaggiato bene?»
Avverto il suo sguardo soffermarsi su ogni singola parte di pelle esposta, piena di segni e sporca, seguire le linee del mio seno, dei miei fianchi, fino ai miei piedi nudi. Nauseata, mi circondo il busto con le braccia, lo faccio di nuovo, con la sensazione di essere caduta in una trappola dalla quale non troverò facilmente una via di fuga.
L'uomo non deve metterci poi così tanto a ottenere la risposta, visto che sono in maniera evidente in uno stato pietoso. Per quanto mi sia data una sistemata dentro il bagno del jet privato, non sono riuscita a medicare tutte le ferite perché ero troppo agitata e in preda al panico per pensare all'aspetto fisico. Sono solo riuscita a pulire il viso anche grazie al fazzoletto che mi è stato offerto; il pensiero di usarlo su altre parti del mio corpo mi faceva strano dal momento che mi toccherà restituirlo. Guardandomi allo specchio ho visto il graffio sul mento e la disperazione riflessa è stata sufficiente a mandarmi fuori di testa.
La mia matrigna farebbe una scenata nel vedermi ridotta in questo stato. Io semplicemente mi vergogno.
«Sì. In un certo senso. Ma... posso sapere chi è lei?», chiedo intimidita.
Se in un primo momento appare sorpreso, l'uomo di seguito sorride con aria quasi selvaggia. «Noto che qualcuno ha dimenticato qualcosa di importante e forse anche le buone maniere». I suoi occhi marroni, come quelli di un rapace particolarmente incattivito, si spostano sullo stronzo appoggiato al SUV.
«A te l'onore!», replica semplicemente quest'ultimo, fumando una sigaretta elettronica con noncuranza. «Non era necessario dirglielo. Avrebbe solo reso le cose ancora più difficili. Ma se vuoi rischiare adesso, procedi pure. Così ti renderai conto con chi abbiamo a che fare».
Alle mie narici arriva lo stesso odore che ho sentito quando mi ha afferrata: cannella. Non era un profumo, solo un aroma usato per aspirarlo.
«È un animaletto particolarmente sveglio», mi offende di proposito, posando dentro la tasca interna dell'abito la sigaretta e recuperando lo Zippo per giocarci.
Ignoro la fitta che mi attraversa al ricordo della sua giacca sulla mia pelle.
«Sono il capofamiglia, mi chiamo Seamus Blackwell», l'uomo che ho davanti interrompe le mie delucubrazioni mentali dandomi una stilettata.
In un primo momento sbatto le ciglia come se dentro le mie palpebre ci fossero dei minuscoli sassolini o della sabbia.
Quel nome...
Arretro immediata di un passo. Minuscoli aghi di pino mi pugnalano in ripetizione il cuore fino a creare migliaia di buchi sanguinanti. Mi stringo ancora più forte e comincio a tremare dentro, a rifiutarmi di ripensare a quel giorno; di accettare che la persona che ho davanti ha dato il via all'incubo che mi perseguita e di cui porto dentro i segni.
«È uno scherzo?», la voce mi esce alquanto stridula.
Con quale coraggio? Soprattutto perché?
«Temo proprio di no, signorina Rose. Adesso la prego di seguirmi. Sarà nostra ospite fino a quando suo padre non avrà pagato il suo debito nei confronti della mia famiglia. Voglio però rassicurarla, finché vivrà sotto il mio tetto, nessuno le farà alcun male», punta quello sguardo sulle mie ferite con aria contrita. Per fortuna non può vedere quelle interne, perché ce ne sono. La parte destra del mio corpo infatti fa ancora parecchio male. Sono sicura degli altri lividi che spunteranno nelle prossime ore.
«Mi scuso enormemente per il trattamento che ha subito. Mi assicurerò che non avvenga di nuovo», scocca un'occhiata tagliente ai presenti, immobili e silenziosi come soldati.
Corrugo la fronte. Non mi muovo quando comincia a salire i gradini quasi arrancando. Per un attimo immagino che quel bastone si spezzi e lui ruzzoli giù e si rompa come un uovo.
«Io non verrò da nessuna parte con lei. Con il dovuto rispetto, è mio padre che vuole. Non me. Non sarebbe saggio...»
Ride. Una risata priva di ilarità rimbomba intorno come un tuono. Si volta reggendosi sul pomolo di quel dannato bastone. «Saggio? Parla a me di saggezza, signorina Rose? Lei non ha la minima idea di...», stringe le labbra interrompendosi. All'improvviso si sgonfia come un palloncino bucato da uno spillo, la mano con la quale impugna il bastone gli trema. «Mi fa arrabbiare quando qualcuno non apprezza la mia ospitalità e la mia cortesia. La prego di seguirmi!», usa un tono imperioso.
«Cortesia?», urlo isterica. «Dice sul serio? Devo forse ricordarle che mi ha fatta rapire? Non ho di certo ricevuto un invito per presentarmi in questo posto!»
Faron, dandomi un colpetto lieve mi spinge in avanti. «Cammina», mi ordina teso. «Niente colpi di testa. Non è un gioco, principessa. Qui non puoi scappare».
Adesso che posso guardarlo meglio, mi accorgo dei bellissimi occhi nocciola chiaro simile al miele appena raccolto, e dei capelli biondi, di una tonalità più scura rispetto ai miei, tendente al castano. Il naso dritto, la postura di un marine e la classe di un principe. È attraente, e a quanto pare dall'occhiataccia che mi rivolge nel vedermi imbambolata, è impegnato con Joleen; la quale prendendolo a braccetto per marcare il territorio, mi incita a camminare.
Entrambi non mi guidano verso l'entrata principale, salgono sui gradini poi svoltano incamminandosi lungo un sentiero che conduce dietro un'ala della villa, in direzione di una sorta di scantinato dell'orrore situato proprio sotto le impalcature.
Esito prima di scendere i gradini di pietra. I miei occhi vagano verso il SUV ancora visibile, ma lui se ne è andato lasciandomi al mio destino. Non pensavo mi avrebbe scaricata in questo modo. Ma ho altro a cui pensare al momento: scoprire cosa mi attende e cosa vogliono da mio padre.
Il signor Blackwell è già sparito dentro. «Per essere zoppicante, sa come muoversi in fretta».
Mi accorgo che Faron ha sentito e sta sorridendo. «Anni di pratica, principessa. Andiamo».
Ferma sulla soglia, percepisco risate, tintinnii, musica, odore di tabacco e qualcosa che non riesco ad associare. Faron apre il portone con un certo impeto lasciandomi entrare.
Davanti ai miei occhi non vi è una comune e lurida topaia piena di ubriaconi o una stanza delle torture come avevo immaginato. Solo un club di lusso pieno di luci, spogliarelliste e alcolici. Un posto che solo i ricchi possono costruire sotto la propria villa o comprare senza il minimo sforzo per capriccio. Uno solo di quei bicchieri o una sola delle bottiglie disposte su varie mensole tra statuine e vasi, vale quanto una settimana di stipendio.
Forse, il locale è stato costruito per permettere a tutti gli uomini non sposati o che lavorano a stretto contatto con Seamus Blackwell di passare qualche ora libera senza pensieri. Ma temo che sia qualcosa di più di un semplice locale in cui divertirsi. Sono certa che le pareti di pietra, il tetto a volta e tutte le luci sospese come stelle cadenti, siano solo una bella facciata per nascondere il marcio, la vera natura di questo ambiente che puzza di soldi corrotti, pagamenti, patti e punizioni. Il sentore che ti macchia l'anima e ti consuma lentamente fino a ucciderti.
Le persone presenti, al mio arrivo, si voltano a guardarmi ma non smettono di bere o di giocare a carte e chiacchierare tra loro.
Pizzico il labbro con i denti. Cerco una risposta in Joleen, un qualche tipo di empatia o conforto, ma anche lei sembra avere indossato una maschera.
Mi domando se qualcuno sia rimasto autentico di fronte a questi individui o se sia necessario costruirsi una sorta di doppia facciata per non lasciarsi giudicare o sopraffare.
Quando il signor Blackwell passa tra loro, tutti, nessuno escluso, si limitano a salutarlo con dei cenni del capo. Un rispetto che sembra essersi meritato. Succede anche con mio padre. Ma al contrario dei presenti, i suoi uomini ne hanno paura.
Il signor Blackwell raggiunge e dice qualcosa al ragazzo dall'aspetto ordinario, alto e apparentemente forte che si trova di guardia in fondo alla sala e lo guarda con ammirazione. Questo scostandosi gli apre subito la porta alle sue spalle, abbassando il capo in segno di rispetto.
Quegli occhi scuri scandagliano la sala, mi trovano, mi minacciano e infine mi fanno cenno di entrare.
Avanzo spaesata, un po' in imbarazzo ad affrontare gli sguardi di questi estranei che a quanto pare sanno chi sono.
Supero la porta e di conseguenza anche la soglia ad arco con una spessa tenda, rimanendo piacevolmente colpita. Non c'è niente di sporco o losco come avevo immaginato. Solo una stanza in stile moderno con luci colorate; un bancone marmorizzato con un vassoio già pieno di bicchierini da riempire, mensole colme di bottiglie di alcol. Un divano lungo in pelle grigio fumo riempie parte dello spazio rettangolare dal pavimento a mosaico; davanti è stato collocato un cubo con un palo da lap dance e le pareti sono state coperte da specchi. Enormi pannelli a riflettere tutto.
Il signor Blackwell si siede proprio al centro del divano e batte la mano rugosa sul posto vuoto accanto a sé. «Venga qui, signorina Rose. Abbiamo tanto di cui parlare».
«Perché non mi dice la ragione di tutto questo? Cosa vuole da me esattamente? Sono confusa e voglio tornare a casa mia».
Beve un lungo sorso di liquido ambrato dopo essersi servito da solo e avere slacciato la cravatta con un gesto carico di frustrazione. «Dubito che lei voglia tornare a casa. Da fonti certe ho saputo del fidanzamento. Non mi congratulerò con lei dato che non è avvenuto. Ad ogni modo, a tempo debito avrà ogni risposta. Adesso però mi preme renderla partecipe del fatto che si trova sotto la tutela di mio figlio e non intendo richiamarlo solo perché lei non sa tenere a bada i propri istinti o la propria lingua. Che per inciso sembra molto affilata. Anche se so per esperienza, che non è mai colpa di una sola persona quando si comincia una discussione», aggiunge a denti stretti alla fine. «Capisce quello che sto cercando di dirle?», picchietta il bastone sul pavimento.
Che sono una fottuta marionetta. Che ho perso la libertà quando mi hanno afferrata e trascinata con la forza dentro quel furgone.
Un momento, quale figlio?
Non dirmi...
In questo istante vorrei solo mettermi a piangere come una bambina e implorare pietà. Ma non ci riesco. Non sono stata cresciuta in questo modo. Prevarrà sempre quel lato di me che non riuscirà mai a spezzarsi del tutto.
«Capisco, ma non significa che io condivida o che possa accettare senza protestare. Se vengo attaccata io attacco. Se mi fanno del male io faccio del male. Non penserà mica che io me ne stia immobile come una bambola mentre lei mi usa per una scaramuccia con mio padre, che per inciso mi troverà in fretta e gliela farà pagare», ribatto aspra, al pensiero di quel bastardo dagli occhi verdi che cerca di sottomettermi e di mio padre in azione.
Il signor Blackwell si mette comodo. Il volto improvvisamente inespressivo. «Le ho già detto che nessuno le farà del male. Ma temo che lei sia stata cresciuta in un certo modo e che per questa ragione ha bisogno di un piccolo incentivo per credermi e per cedere il suo potere nelle mani di mio figlio». Beve un sorso prendendosi il suo tempo, facendo accrescere di proposito dentro di me l'apprensione.
«Di cosa sta parlando?»
Tossicchia leccandosi le labbra secche e sottili. La porta alle mie spalle si apre e proprio lui entra nella stanza seguito da Joleen, Terrence e infine anche Faron. Non sembrano contenti della situazione.
Rimango impalata mentre prendono posto. Faron e Joleen un po' in disparte sul divano, come se avessero altre incombenze anziché assistere ai giochini del signor Blackwell. Terrence si mantiene alla sinistra del demonio dagli occhi verdi, comodo e con un bicchierino in mano. Ma non sta affatto bevendo.
Il signor Blackwell invece schiocca le dita. Due guardie si fanno avanti e mi afferrano per le braccia.
Mi dimeno nell'immediato. Non ho un attimo di esitazione. Nonostante il dolore che si diffonde dalla costola al resto del busto, mollo alla prima un pugno sullo zigomo, minacciando la seconda con una finta.
«Toglietemi le mani di dosso!»
Bugiardi. Non sono che bugiardi.
Sento la risata del signor Blackwell, ma a lui sembra essersi aggiunto qualcun altro.
Freddo polare scivola nelle mie vene alla vista dell'uomo che entra dalla doppia porta alle spalle del divano. Il viso segnato da una smorfia, dalla barba scura e dai capelli rasati. «Le mie fonti non mi avevano detto che oltre ad essere meravigliosa, sapeva anche difendersi così bene. Attaccare due energumeni e urlargli contro richiede coraggio. Allora è vero quello che si dice di Rose. Quel bastardo deve proprio trattare i figli come soldati», ride ancora. «Spero di non essere in ritardo per lo spettacolo», mi si avvicina, senza mai smettere di fissarmi come un maniaco. «Ho avuto degli affari da concludere», lecca le labbra, mi afferra il viso facendomi girare dapprima a destra poi a sinistra. Sento sulla pelle il calore dell'anello enorme che porta sull'indice. «Sono Parsival Blackwell», si presenta, dopodiché mi lascia andare e fa un cenno alle mie spalle. «Andiamo ragazzi, è solo una gattina spaventata. Che saranno mai un paio di graffi».
Le guardie mi afferrano, questa volta con forza maggiore e per le ascelle. Scalcio rabbiosa. «Lasciatemi andare!»
«Non sei in ritardo. Stavamo giusto per iniziare. Tuo figlio non si unirà a noi?»
Con la coda dell'occhio noto il demonio che mi ha catturata irrigidirsi. Ma quando Parsival nega servendosi una generosa dose di Vodka liscia, taglia e accende un sigaro, rilassa le spalle.
Non ho il tempo di fare congetture, di capire o chiedere, vengo sistemata sul cubo e legata al palo con le mani dietro la schiena.
Il signor Blackwell si solleva. «Niente di personale, signorina Rose. Solo un piccolo monito di ciò che potrebbe accadere qualora dovesse decidere di non collaborare per il tempo in cui sarà nostra ospite», afferma e con un cenno nella stanza cala il silenzio, il buio.
Il cuore mi schizza nel petto quando si diffonde la musica. La porta si apre ed entrano delle ballerine seguite da altri uomini armati e divertiti. Alcuni ubriachi fradici, altri rissosi.
Luci stroboscopiche feriscono le mie iridi. Non riesco a muovermi molto o a sottrarmi quando qualcuno sale sul cubo e comincia a sfiorarmi, a lanciarmi banconote addosso insieme a qualche insulto alla mia famiglia.
Qualcuno più audace, mi strappa una spallina del vestito, lasciando la mia pelle e il mio seno in parte ancora più esposto.
Urlo e mi dimeno sputandogli addosso. Ma tutto viene coperto dalla musica, dalle risate. È come se non mi vedessero.
So cosa stanno cercando di fare, eppure mi sento comunque umiliata e violata. Soprattutto appena noto una delle guardie prendere il telefono del signor Blackwell e filmare tutto quanto su suo ordine.
Quando sento una mano infilarsi tra le mie cosce, per me è troppo. Indietreggio carico il colpo e colpisco. Non importa chi sia. Tutto ma non questo.
Passano pochi secondi in cui attendo che l'uomo mi schiaffeggi. Non succede. Mi ritrovo invece avvolta, odore di menta e quello lieve della cannella raggiunge le mie narici. Uno, due... una tempesta di battiti bussa violenta contro il suo petto solido quando mi si schiaccia addosso.
Mi sento avvampare. Mi si attorciglia lo stomaco. Il mondo per un attimo smette di esistere, si appanna alle sue spalle quando sollevo gli occhi.
Mi immobilizzo, come una cerva sotto il mirino di un'arma che sta impugnando a sua insaputa l'uomo che mi guarda come un cacciatore sul punto di sparare. Di colpirmi a morte solo per vedermi sanguinare.
Avverto il vigore della sua stretta e mi piacerebbe essere libera per strapparmela di dosso la sua impronta calda che come un tizzone ardente mi sta ustionando.
Paura... ce n'è così tanta dentro di me. Riaffiora svolazzando come uno sciame d'api assassine lungo la mia pelle che vibra e si dimena insieme al cuore, troppo stanco di tremare per il sentimento sbagliato. Ogni assenza riappare dalla mia anima e mi colpisce insieme ai ricordi come un pugno ben calibrato e impossibile da non incassare.
Mi piacerebbe poter guarire. Ma ci sono attimi nella vita che sono come segni, cicatrici e tatuaggi sulla pelle. Non puoi rimuoverli. Puoi solo toccarli con gentilezza, accarezzare con mano ciò che prima è stato graffiato, inciso e dilaniato dalla rabbia.
E lui... lui ignaro si sta dissetando, sta rubando direttamente dai miei occhi quello che fa ancora male, pur non comprendendolo a pieno. Pur non sapendo come sono morta lentamente in quegli istanti. Perché nessuno c'era quando Darrell mi faceva male. Nessuno poteva fermarlo. Nessuno si accorgeva dei tagli sul mio cuore a ogni aggressione fisica e verbale da parte sua.
Mi piega il collo con le dita, premendo il pollice sulla vena che pulsa e abbassandosi all'altezza del mio viso, a poca distanza dalle mie labbra, guancia contro guancia, mormora: «Faresti bene a stare ferma. Hai appena colpito mio zio e lui non è il tipo che lascia correre. Fammi un cenno se hai capito, uccellino!»
Nonostante l'impegno, lo shock prende il sopravvento, tremo e lascio uscire un singhiozzo che si perde in fretta mescolandosi alla musica e al chiasso che ho dentro.
«Allora?», mi incita, accarezzandomi come se volesse calmare un cucciolo spaventato.
Il profumo della sua pelle mi si insinua dentro, ricordandomi momenti di un passato sotto il sole, tra risate e vita. Attimi in cui era piacevole esistere.
Ne inspiro quanto più possibile fino a riempire i polmoni, i quali bruciano mentre io mi inebrio come una tossica. Sono una fottuta masochista, una grandissima stupida che al momento non può reagire e si rifugia in qualcosa che non può avere.
Muovo la testa per annuire. Non riesco a parlare, a muovermi o a combattere.
«Bene. Adesso, obbedisci e non ti farai male. Ribellati e sarò costretto a punirti davanti a tutti», sibila all'orecchio. «Sono la tua unica salvezza in questo momento, uccellino», spiega con voce greve. «Per quanto sia riluttante per te».
Strofina le guancia sulla mia. «A breve farò qualcosa che non ti piacerà. Dovrai permettermelo e stare ferma. Ti farò uscire in fretta da qui», sussurra, facendo una lieve pressione con la mano per farmi girare la testa verso la sua faccia.
Non è il mio vestito distrutto a fare male. Non m'importa se questi estranei vedono quello che c'è sotto. Voglio solo che finisca. Le lacrime si accumulano, mordo forte il labbro per bloccare altri singhiozzi.
«Farò quello che avrebbe dovuto fare mio zio e qualcos'altro per rendere il tutto più divertente per i nostri spettatori eccitati. Quindi sta' ferma. Se non ti bastano le mie minacce, sappi che l'ho sentito mentre sussurrava a mio padre che ti vorrebbe per il figlio. Ti trova attraente e sono certo che ti prenderebbe anche per sé. Il mio morso lo conosci, quello di mio cugino no e te lo sconsiglio perché è uno psicopatico».
Sono in lotta. Dentro la mia testa sto combattendo più di una battaglia e sto cercando di capire il significato delle sue parole.
Ergendosi in tutta la sua altezza, attende una mia reazione o forse solo la mia approvazione. Ma non posso permetterglielo. Non posso fidarmi di lui. Abbasso il viso disgustata.
Non si perde in altre chiacchiere. Si muove contro il mio corpo. Le sua lingua ruvida crea una striscia umida e calda dalla spalla all'incavo del mio collo facendomi gemere. Ci versa sopra del sale, beve un bicchierino di Tequila e torna a leccarmi lentamente fino ad afferrarmi il viso e ad avvicinarmi al suo.
I passaggi li ha appena fatti nel modo sbagliato, ma era questo il suo scopo.
Il fiato mi viene meno. Gli occhi mi si annebbiano e sussulto quando infila la mano tra noi due dopo avere piazzato un ginocchio nel mezzo per farmi divaricare le gambe. Stringo i pugni legati tra loro alle mie spalle e mordo forte il labbro quando le sue dita mi accarezzano l'interno coscia. Il sangue avvolge la mia bocca perché recido l'interno guancia.
Lo guardo rabbiosa negli occhi. «Non farlo!», gli urlo silenziosamente. «Basta!»
Ma non mi ascolta. Non sono niente a parte un ostaggio da usare per un giochetto malato.
Una lacrima solca la mia guancia quando infila una banconota nei miei slip e mi strappa maggiormente il vestito dalle cosce per mostrarlo a tutti, per permettere a quella guardia di filmare e a suo zio di vedere quello di cui è capace di fare.
Sento urla di approvazione e quando indietreggia non ci vedo più dalla furia. Carico, gli sputo il sangue addosso e colpisco. Il mio piede nudo impatta proprio sulla sua faccia da idiota.
Sangue comincia a sgorgare dal suo naso che raddrizza senza tante cerimonie, facendo emettere versi di disgusto tra i presenti.
«Filma pure questo, lurido pezzo di merda! Appena mi avrai liberata ti farò a pezzi!»
Mi rendo conto che la musica si è appena spenta e che l'unico tuono che sento dentro, arriva dal mio cuore affaticato.
Lui si lecca le labbra come una fiera, assaggiando e assaporando il suo e il mio sangue lentamente.
Mi aspetto qualsiasi brusca reazione.
Sorride.
Sorride, cazzo!
Ed è dannatamente sexy.
I suoi occhi...
Hanno quel luccichio di pura crudeltà, più chiari di quando me li ha puntati addosso dopo avermi fatto voltare e avere fatto tremare la terra sotto i miei piedi. Sono semplicemente ipnotici.
Avverto ancora il fastidioso sfarfallio nello stomaco. Mi sento come una corda sul punto di spezzarsi perché troppo tesa.
Non sono abituata a trovare attraenti certi uomini, eppure è come se non riuscissi a controllare quello che provo quando vedo lui. Ed è alquanto disturbante, oltre che inaspettato e inopportuno. Per non dire: orribile e letale, se lo si guarda da un punto di vista diverso.
Batte le mani e mi si avvicina ancora con una sigaretta appena accesa, tenuta all'angolo della bocca, strizzando l'occhio a causa del filo di fumo che si innalza dalla cartina che continua a bruciare senza essere aspirata.
«Benvenuta a casa, mia piccola e selvaggia Eden Rose!», dopo avermi afferrato saldamente entrambe le guance, mi bacia forte la fronte imbrattandomi di sangue. «Ci divertiremo io e te, uccellino». Lanciandosi sul divano brinda insieme agli altri, i quali dimenticano in fretta la mia presenza.
Lo fisso con disgusto e odio. Sarà il primo ad essere cancellato dalla mia lista; gli farò così male da fargli urlare la parola pietà. Da farlo inginocchiare e soffrire. Perché sono una Rose, non mi spezzo. Io pungo e avveleno lentamente fino a uccidere.
Vengo liberata, barcollo in avanti rischiando di cadere, ma braccia forti mi sollevano e mi portano fuori tenendomi come se fossi una bambina.
Mi rannicchio contro quel petto ampio, annuso l'odore del muschio bianco e di qualcosa di speziato che aleggia intorno, rimanendo a occhi chiusi più di quanto in realtà vorrei.
Mi capita quando sono spaventata. Un meccanismo di difesa che mi è rimasto dopo gli incidenti più brutti e difficili della mia esistenza. È come se una parte della mia anima non volesse vedere niente e mi tenesse ancorata all'oscurità.
«È tutto finito, tranquilla».
Terrence continua a camminare. Non ho il coraggio né la forza di rispondere. Mi sento prosciugata. Ho solo bisogno di metabolizzare il tutto senza farmi venire un esaurimento nervoso e di raccogliere i pezzi per potere reagire.
Sbircio appena quando ci fermiamo. Quanto tempo è passato?
Ampie vetrate a specchio, una struttura in stile moderno sotto fari bianchi a costellare il viale pieno di ciottoli, ci accoglie. Abbiamo raggiunto la seconda villa.
«Riesci a reggerti in piedi?», domanda inserendo un codice sullo schermo di fianco alla porta e scansionando la sua impronta digitale per poterla aprire.
Se dapprima annuisco per riuscire a creare una distanza tra me e lui, quando scivolo giù e mi guardo, non sento più la terra sotto i piedi. Terrence, prontamente, sostenendomi, mi conduce all'interno.
Superato un lungo corridoio incolore, con quadri astratti in bianco e nero, saliamo scale in ferro battuto e a chiocciola fino al piano superiore.
La stanza al terzo piano in cui ci fermiamo, si trova in fondo e a distanza rispetto alle altre tre presenti.
Non appena varco la soglia, un po' incerta se provare a scappare o accettare la prigionia, vengo accolta da una nota tenue di vaniglia e cocco, da una piacevole luce dalla luna che filtra dalle ampie vetrate dandomi uno scorcio della stanza. Pavimento in legno chiaro tendente al grigio, pareti di un tenue color Tiffany acquoso, mobili dal design moderno.
«Spero sia di tuo gradimento».
Terrence rimane sulla soglia per permettermi di esplorare da sola e ammirare l'enorme spazio privato che avrò a disposizione.
Una porta conduce a uno studio, poi c'è un salottino all'angolo e un bagno dotato di vasca e doccia quadrata dal vetro trasparente.
«Ti piace?», osa chiedere, forse notandomi stupita.
«Questa sarà la mia gabbia?»
Ridacchia come se avessi detto qualcosa di divertente, lasciando il mio borsone e lo zainetto all'angolo, su uno sgabello imbottito. «Deduco ti piaccia, la tua gabbia. Bene, se hai bisogno mi trovi di sotto».
Corrugo la fronte. «Non rimani qui... a fare la guardia?»
Abbozza un lieve sorriso che attenua parte della tensione che ho nel petto. «Per quanto mi piacerebbe continuare a guardarti, ho del lavoro da sbrigare. Trovi quello che ti serve nei cassetti. Se hai fame, scendi in cucina e prepara quello che vuoi», replica allontanandosi.
Lo seguo fuori dal corridoio. «Terr...»
Si volta appena. «Quello che ti hanno fatto... era il tuo battesimo. Per quanto orribile, era necessario. Non dovrei dirlo, ma hai sbalordito tutti dando dimostrazione di essere degna. Fai parte della famiglia ora. Non sei una prigioniera. Ma non cercare di scappare o qualcuno potrebbe farsi male. Hai capito che sei legata a noi e sei una nostra responsabilità, vero?»
Annuisco sempre più confusa.
Abbassa le spalle. «Togliti quegli stracci, disinfetta bene quelle ferite e riposa», non aggiunge altro lasciandomi sola.
Chiusa la porta della mia nuova stanza, mi giro un po' spaesata intorno, alla ricerca di possibili trappole o telecamere.
Avvicinandomi alla vetrata, tiro la tenda bianca. Non trovando niente di sospetto, mi sposto in bagno per una doccia.
L'acqua calda mi aiuta subito a rilassare i muscoli e a lasciare andare i cattivi pensieri.
Non sono al sicuro qui. Non so se mio fratello mi ha creduto, se ha ascoltato e trasmesso il mio messaggio, tantomeno se hanno già iniziato a cercarmi. Forse lo faranno quando avranno ricevuto il video girato prima, mi dico stringendo i pugni.
«Che diavolo ho fatto?»
Strizzo i capelli e fuori dalla doccia, anche se insicura, dopo avere medicato le ferite e avere ingoiato un antidolorifico mi preparo per dormire.
La stanchezza, nonostante le proteste nella mia testa, prende il sopravvento non appena adagio la guancia sul morbido cuscino di seta.
Mi addormento in fretta e mi sveglio dopo poco a causa di un rumore ripetuto e di un verso simile a quello di un animale ferito.
Corrugo la fronte, mi sollevo a metà busto accendendo la luce della lampada posta sul comodino, dove ho già disposto una pila di libri e il mio telefono, inutile dal momento che hanno già tolto la sim.
Qualcosa urta contro la parete. Una risatina riecheggia seguita da un lungo lamento.
«Ahhh! Ancora, ancora!»
Colpo. Lamento.
«Così! Sì, sì, sì!»
Colpo. Lamento.
Ricado indietro sul letto. Fisso il tetto picchiettando le dita sul lenzuolo mentre i due che si trovano nella stanza accanto, proseguono imperterriti e sempre più affannati.
Terrence non mi ha detto che ci sarebbe stato qualcuno in questo piano. Credevo mi avessero confinata appositamente lontana da loro.
Spengo la luce e provo a ignorare l'amplesso che rimbomba come un film porno messo a volume alto in una casa abbandonata. Cerco di dormire, ma è inutile. Alla fine, sconfitta e stanca, recupero la vestaglia dal borsone e avvertendo i crampi della fame, scendo al piano di sotto in cerca della cucina.
Qualcosa da mangiare mi farà dimenticare il disgusto e il nervoso che sto sentendo. E principalmente mi aiuterà a trovare un modo per uscirne.♡♡♡
** Buona sera, come state? Sono tornata con un nuovo capitolo. Spero vi sia piaciuto. A poco a poco vi svelerò di più sui personaggi, sulle loro vite e sui loro piani.
• Vi prego di lasciare una stellina in segno di passaggio e apprezzamento. Magari per voi non sarà importante, ma per chi scrive lo è. In quanto è un aiuto in più per fare conoscere a più persone la storia quando magari non si ha un costante passaparola da parte di chi legge.
• Se avete domande o curiosità, commentate e fatemi sapere cosa ne pensate fino ad ora della storia. Ci tengo a sapere le vostre opinioni.
Grazie per avere letto questo capitolo.
Al prossimo aggiornamento, nuvole! **♡♡♡
Mi trovate su:
IG: valar.morghuliss
TikTok: giorginasnow
STAI LEGGENDO
Cruel - Come incisione sul cuore
ActionFamiglia. Onore. Dovere. Non esiste altro nella vita di Dante, figlio minore della potente stirpe Blackwell. Non c'è amore. Non c'è felicità. Solo macerie e il gelo a scorrergli nelle vene. Perché il passato tempra, insegna e spinge a calcolare...