Giocare in casa d'altri

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Non erano pochi coloro che avevano scelto di trovare il proprio posto nell'universo unendosi alla flotta. Con eccezione per le alte cariche, in cui il nepotismo regnava come i ratti nelle fogne della vecchia New York, uscire dall'accademia era un ottimo trampolino di lancio per avere una posizione sociale rispettabile, con una carriera stabile e dedicare la propria vita al progresso dell'umanità. Per chi non aveva nulla, non era secondario nemmeno lo stipendio sicuro.

Che in molti considerassero quindi l'accademia e, successivamente, la nave su cui prestavano servizio "casa" non era poco frequente.

Aykari non era mai riuscita a considerare nessun luogo come "casa". La maggior parte dei giorni, nemmeno l'accademia le sembrava il posto adatto. Aveva acquistato punti sin dal suo arrivo, quando aveva trovato l'intero satellite sprovvisto di sue foto segnaletiche. Era sorpresa lo stesso pianeta Terra non ne fosse pieno, ma anche le mura della casa in cui era cresciuta avevano trovato modi più subdoli e meno dimostrativi per ricordarle le sue origini peccaminose. Non era mai stata degna di quel luogo e quello era solo uno dei motivi per cui detestasse ricordare la sua infanzia, più di quanto non dovesse già fare.

L'accademia non era quindi migliore di qualsiasi posto dove fosse vissuta, ma qualcosa da chiamare "casa" lo aveva trovato anche lei. Era quella panchina sulla quale lei ed Eriki adoravano festeggiare dopo un esame ben riuscito. Era il tavolo in fondo alla mensa, all'alba artificiale – quando tutti cercavano di non perdere minuti preziosi di sonno o si disperavano per qualche corso –, dove lei si sedeva per fare colazione e bearsi del silenzio, nell'attesa che la sua amica la raggiungesse. Era la palestra in piena notte, quando il loro istruttore le lasciava senza saperlo le chiavi – a cui restituiva con puntualità la mattina seguente, non era una ladra –, e poteva muoversi nello spazio a suo piacimento, lasciando che anni di esperienza si esprimessero nei suoi gesti. Era la scrivania condivisa nella sua stanza, sopra la quale vi era tutto tranne il materiale didattico e a causa della quale non avrebbero mai passato un controllo. Era il letto della sua coinquilina, sul quale passavano le notti insonni a praticare qualche gioco da tavolo, in cui una volta compreso il regolamento era sempre ora di andare a lezione.

Era sicura il suo comportamento nel corso di quegli anni sarebbe potuto sembrare un tentativo di essere cacciata in modo innovativo, ma non poteva essere più lontano dalla verità: non avrebbe mai lasciato quegli sprazzi di casa, a costo di lottare con le unghie e con i denti. La vita le aveva presto insegnato quanto fosse utile affezionarsi a sensazioni flebili, la cui altra faccia era solo un'altra pugnalata. Di far quindi tesoro di quelle piccole felicità quotidiane, chiudendole a chiave per tirarle fuori nei momenti peggiori, pregando non cadessero nella nostalgia di qualcosa che non aveva mai potuto toccare per più di un tempo infinitesimo. Ma anche la nostalgia, anche le pugnalate, servivano a farle sentire qualcosa, qualcosa in quell'oceano di nulla in cui cercava disperatamente di non affogare.

La faceva ridere come il suo cognome portasse con sé stabilità: un pensiero lungimirante e una istituzione più antica della corsa allo spazio stessa. Ma quello non era il suo vero cognome per un motivo. La ribellione era quanto di più lontano da quell'ideale. Ed era ciò che aveva in ultimo condannato suo padre, senza un successore e solo contro il resto dell'universo. "La mela non cade lontana dall'albero", le ripeteva sempre sua nonna, prima di contrarre il volto in una smorfia infelice, unica emozione che adornava quella lastra impassibile, prima di lasciarla alle cure della loro tata robotica. "La biologia non mente", aggiungeva quest'ultima.

Gli dèi fanno impazzire chi vogliono perdere. Era forse quello il suo destino?


 Era forse quello il suo destino?

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