I pazzi e gli scellerati non hanno bisogno di preghiere

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«Vice ammiraglio!». La sua voce si unì al rumore di passi, nello spezzare il silenzio del corridoio. «Vice ammiraglio, aspetti!».

L'edificio Alfa-1 era esclusivo del corpo docenti, a quell'ora occupato a istruire le nuove generazioni o gestire scartoffie. La sua udienza era stata tenuta a porte chiuse e il periodo degli esami si stava avvicinando, non dando ad altri un motivo per trovarsi in quegli spazi.

Trenner rallentò, ma non si fermò. Le grandi vetrate accarezzavano con riverenza la sua figura in movimento, in un gioco di ombre e luci, che donava nuove sfumature di colore alla rara presenza di una divisa blu sul terreno accademico. La affiancò, chiedendosi se mai un posto avrebbe dimostrato di accoglierla allo stesso modo.

«Lange», la salutò, con il nome che lei stessa le aveva donato.

«Cos'era quello?».

«Dovresti dirmelo tu». Le linee che regalavano al suo volto un'espressione rilassata, quasi maliziosa, come una bambina che si nascondeva dietro ai genitori per scampare alla punizione della maestra, si incupirono, al tintinnio proveniente dal suo comunicatore. Lesse il messaggio, chiudendolo con un sospiro stanco. «Devo andare», annunciò.

«Ma-».

«Lavorare per il comando implica poco tempo libero, mi dispiace». Ancora pochi metri e avrebbe raggiunto l'uscita sul giardino interno. Le afferrò un braccio, impedendole di scappare via.

«Trenner, che sta succedendo?». Prima che la potesse liquidare, dando la colpa alla pressione dei piani alti, continuò. «Mi hai costretta ad arruolarmi,» le ricordò, «il minimo che puoi fare è spiegarmi perché hai impedito ai professori di sbattermi fuori». La donna mise una mano sopra la sua, intrecciando le loro dita per allentare la presa che aveva sul suo bicipite. Con un altro ufficiale avrebbe avuto conseguenze ben peggiori per un gesto del genere.

«Credevo di non poterti costringere a fare nulla», le sorrise, riacquistando subito i toni professionali. «Non ho altre informazioni oltre quelle che ho fornito in quell'aula, Aykari. Dovrai cercare le tue risposte altrove». La decisione era stata presa da un livello al quale lei non avrebbe potuto accedere, voleva dire.

«Grazie, vice ammiraglio». Non si stava riferendo solo all'udienza. Lo sapevano entrambe, nessuna lo evidenziò, se non con un cenno di saluto. Avanzò verso le porte, prima di voltarsi.

«Lange», si morse un labbro, come se stesse riflettendo sul pronunciare quelle parole, «credi che questa sia la vita per te?». Ho sbagliato quella sera?

La risposta si sarebbe dovuta trovare fra quelle mura, nei cinque anni trascorsi sotto quel cielo artificiale, che l'aveva vista maturare, studiare, dormire poco, sfidare ogni suo limite, alzarsi e cadere. In cui aveva scelto di ignorare la sua sospensione, imbarcandosi sulla Victoria, dove Aykari Lange e Aykari Nanufaru avevano trovato un modo di coesistere e aveva ridefinito sé stessa, salvando e perdendo più vite di quante riuscisse a contare.

Ma non erano stati gli ultimi anni o gli ultimi giorni a definire Aykari. Che ancora si sentiva quella ragazzina diciassettenne che passava la vita a correre, che si nascondeva alla luce del sole e gridava al cielo notturno perché l'accogliesse, perché non la rifiutasse anche lui. Perché se ci fosse stato un posto per lei, lo avrebbe potuto trovare solo fra le stelle, lei che aveva lo stesso sangue del figlio di una supernova. Pensò ai suoi sogni, alle sue speranze, alle sue delusioni, che le laceravano l'animo giorno dopo giorno. Pensò a come era sopravvissuta a tutto quello, alzando il capo e chiedendo di colpirla più forte. Che avrebbe detto quella ragazzina?

«Forse sì, vice ammiraglio», si sporse verso il calore dei raggi, «problemi?».


«Forse sì, vice ammiraglio», si sporse verso il calore dei raggi, «problemi?»

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