Calibrare fari rossi

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Duarte non aveva badato a spese per equipaggiare la sua ultima creatura. Il suo supervisore le aveva confessato si fosse recato di persona al Porto per dirigere l'operato, litigando con più di un collega e alcuni grandi ammiragli. Sapeva la matriarca Lange fosse una di loro, ma non era una novità: l'ammiraglio e la donna avevano iniziato il loro conflitto aperto prima della sua nascita. Uno dei motivi per cui rispettasse tanto l'uomo che stava accompagnando a morire.

Se va, la uccideranno.

Le parole del capitano non lasciavano la sua mente e il nero della tuta da lancio non favoriva pensieri di altra natura. Chiuse la cerniera, recuperando dal sedile posteriore la maschera per l'ossigeno e il visore. Brahms entrò in quel momento, non varcando del tutto il portello. Stringeva i due paracadute contro il suo stomaco e teneva lo sguardo basso, nel misero spazio che li separava. Avevano optato per una navetta piccola, in modo da rubare meno posti possibili nel caso l'equipaggio avesse dovuto evacuare e per dare l'impressione che l'ammiraglio fosse realmente solo.

«Pronti?», la voce del loro comandante li richiamò all'ordine. Il navigatore chiuse l'accesso e le porse una cinghia dello zaino sottile. Lo infilò, assicurandolo sopra il petto e l'ombelico.

«Pronti», confermò, sedendosi accanto al suo compagno di avventure.

Duarte non rispose, procedendo con l'accendere i motori e decollare verso il pianeta sottostante. Decise di non guardare fuori dal finestrino e concentrarsi invece sul suo compito. Non era sicura fosse la persona giusta per il lavoro, ma sulla Victoria non vi erano altri con le sue conoscenze del sistema bepsiliano, per quanto meno approfondite di altre aree. L'emergenza e i ritardi nella scelta dei responsabili ufficiali avevano portato Duarte a dover riporre le sue speranze in lei. O forse era solo destino.

Almeno Brahms non dava segno di vivere quell'attesa meglio di lei. Da quando erano partiti, il solo rumore presente nell'abitacolo era dato dal ripetuto battere del suo tallone sul pavimento.

«In che tipo di combattimento è specializzato, Brahms?», chiese, strofinando i polsi fra loro. Non era mai stata brava nelle chiacchiere di circostanza.

«Arti marziali miste», le rispose, monotono, «ho avuto il titolo per tre anni di fila, nella regione artica».

«Non è l'ultima in classifica?». L'altro scoppiò a ridere, passandosi una mano sul collo.

«Già», constatò, rivolgendole per la prima volta i suoi occhi castani inumiditi. «Ripensamenti?».

Anche troppi. Scosse il capo.

«No, è solo che...», fece scoccare la lingua sul palato, pensando a come formulare l'informazione senza fornire troppi dettagli, come il luogo e la causa dell'evento, «abbiamo in comune un pugno in faccia dato dalla stessa persona».

«Grier?», esclamò, indietreggiando con il busto. Annuì, premendo fra loro le labbra. «Lo trovo stranamente rassicurante», ammise, «non dovrei, vero?». Non da chi aveva rifiutato di dare un gattino a una massa di muscoli, perché aveva trovato Gastolfo De Ritterborn III un nome terribile. Soprattutto per la non esistenza dei primi due.

«Aykari», gli porse la mano.

«Lovro», la strinse, tornando poi a concentrarsi sui suoi pensieri. Lo imitò, mentre il suo orologio interno le suggeriva mancasse meno di un minuto al lancio.

«Ci siamo», non mancò Duarte, «rallentate quel coso». Si voltò un istante. E non servì aggiungesse altro.

L'altro aprì lo sportello, mormorando una preghiera troppo agitata per essere rispettosa, e saltò. Lo raggiunse, dopo un'ultima occhiata alla postazione da pilota. Speranzoso, determinato, ma non impaurito. Quello aveva convogliato lo sguardo dell'ammiraglio, così simile a quello di quella dannata tela tanti anni prima. Dubitava che allo specchio avrebbe trovato lo stesso.

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