Purgatorio

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Avvertenza: attacco di panico nella prima scena (descritto male, ma comunque presente)





«Non c'è più traccia di Lange e Brahms», così aveva riferito quel tecnico al capitano. E il suo corpo si era immobilizzato.

Non Aykari. Non poteva essere, non quella ragazza, no. Quella bastarda era figlia di Nanufaru, figlia di una stella morente, non sarebbe bastata una stupida nave vidane per eliminarla. No.

No.

Si accorse di star tremando quando Okeke le poggiò una mano sulla spalla. Si ricompose, asciugando le lacrime che dominavano le sue guance, sopprimendo un singhiozzo.

«Mun? È questo il tuo nome?».

«Devo andare nell'ala medica», evitò la sua pietà e il suo sguardo, «hanno bisogno di me». Scostò l'altra, voltandosi verso la porta. Anni di disciplina e minacce su cosa sarebbe accaduto nel mostrare una debolezza erano duri da eliminare.

Avanzò nel corridoio senza meta, lasciando che le sue gambe la portassero dove preferivano. La morsa che le costringeva il petto le permetteva appena di respirare, prendere decisioni le sembrava un'utopia. La testa le doleva troppo e cos'era quel ritmo veloce? Da dove arrivava? Portò il suo palmo sopra al cuore, temendo le scappasse via e si accasciò contro una parete libera del corridoio, accanto al vano riservato all'estintore.

Collise la schiena contro la parete, ma era gelatina, in cui sprofondare. Doveva prendere fiato. Doveva solo prendere fiato. Ma il suo dannato corpo non rispondeva, portò le dita davanti agli occhi, al momento più simili a bastoncini in procinto di spezzarsi. Si torcevano, muovendosi a scatti e non obbedivano. Perché non obbedivano?

La luce era troppo intensa, troppo intensa, ma non poteva chiudere le palpebre, sarebbe sprofondata e poi Aykari... No, Aykari doveva salvarla, lei doveva fare qualcosa-

«Dimmi cinque cose che vedi», una voce calma e ferma la riparò da quell'attacco luminoso. Dovette ripetersi altre due volte, affinché comprendesse le sue parole e potesse seguirle.

«Le mie-le mie mani», cominciò, «una divisa bianca, le tue mani, il... pavimento e le pareti», strinse le braccia attorno al suo busto, «e non lo so, sono a cinque?». Il pilota addolcì la sua espressione, accucciata anche lei per terra, a mezzo metro di distanza in modo da non essere una figura opprimente.

«Riesci a dirmi due cose che senti?». Annuì.

«La tua voce e... il ronzio della nave».

«Perfetto, una cosa che riesci a toccare?».

«Ho avuto un attacco di panico, vero?», ignorò l'ultima richiesta. Conosceva già la risposta, ne aveva visti molti durante la sua pratica e non era così ingenua da credere che i medici ne fossero magicamente immuni, ma trovava tuttavia ironica la situazione. I medici non erano dei buoni pazienti.

«Qualcosa del genere, come ti senti?». Si passò una mano sul volto, la percezione tornata in suo controllo.

«Uno schifo», ammise, piano, come se temesse di essere udita da orecchie indiscrete. Come se sua zia sarebbe apparsa, scuotendo il capo, un giudizio peggiore di mille bacchettate. «Uno schifo inutile».

L'altra donna non rispose, limitandosi a massaggiarle il ginocchio con movimenti circolari. Apprezzò la pace che le stava riservando, ma il silenzio non era per tutti. Era una assenza e lei non aveva bisogno del ricordo che qualcosa fosse venuto a mancare nell'universo. Nel suo universo, in cui anche nel vuoto riusciva a esserci rumore. Un rumore qualsiasi, bastava che ci fosse.

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