Capitolo 2

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"Ho provato ad affogare
i miei dolori,
ma hanno imparato
a nuotare."
FRIDA KAHLO

La notte è il momento peggiore, quello in cui la sua assenza fa più male.
Mi manca il contatto tra la sua pelle fredda e il mio corpo caldo, le sue labbra carnose sulle mie e quei baci pieni di passione che mi bruciavano l'anima. Riusciva e riesce tutt'ora a scatenare in me emozioni mai provate prima, così forti ed intense da farmi paura.

Provo a dormire, girandomi più e più volte in questo letto vuoto e gelido; senza però riuscirci.
L'insonnia mi accompagna in ogni singola notte, tenendomi per mano come farebbe un amico, accarezzandomi la fronte madida di sudore e trafiggendomi il petto con lame invisibili.

Ho sempre amato la notte, l'ho sempre vista come un momento unico; mentre ora vorrei soltanto che non arrivasse mai.
L'ansia scalcia nella mia pancia come un bambino irrequieto, il respiro si fa corto e le mani iniziano a tremare.
Mi accade sempre più spesso ultimamente.
Forse dovrei ricominciare a prendere le pillole per cercare quantomeno di lenire questi sintomi sempre più evidenti; da quando se n'è andata ho smesso di farlo e questo periodo di merda non fa altro che accentuare il mio disturbo.

Ricordo ancora la prima volta che il mio terapista nominò il disturbo Borderline di personalità. Elencò una lunga serie di comportamenti caratteristici come ad esempio l'impulsività, i repentini sbalzi d'umore o il non saper restare soli. Avevo solo dodici anni all'epoca, eppure avevo impiegato pochissimo tempo ad associare quella lista alla mia quotidianità.

Prima di Miriam vivevo una vita sregolata, padroneggiata dal mio essere impulsivo; mi alteravo facilmente e le risse erano praticamente all'ordine del giorno.
Non che con lei mi sia comportato diversamente, ma perlomeno ho provato a tenerla lontana dal mostro che covava in me; ho provato ad essere migliore per lei...fallendo miseramente.
Ho cercato con tutto me stesso di nascondere il mio disturbo ai suoi occhi.
Semplicemente perché mi vergognavo o forse perché avevo paura che sarebbe fuggita da me, che non sarebbe riuscita a capirmi e che per lei sarebbe stato troppo difficile restarmi accanto.

Ricordo alla perfezione la sera in cui, dopo quella sorta di cena a casa di mio padre, avevo sputato fuori tutta la verità mettendola davanti alla cruda realtà.
Ricordo bene anche come lei mi aveva sorpreso in quell'occasione, abbracciandomi e incutendomi un coraggio che da tempo mi mancava.
«Non sei più solo» questo mi aveva detto, stringendomi a sè.
«Non sei più solo» ripeto tra i denti, ricordando quel momento.

Durante la mia adolescenza non avevo mai avuto il timore della solitudine. Ho sempre passato la maggior parte della mia vita accanto a persone assenti, vuote a tal punto da essere inesistenti.
Ero solo e questo non mi faceva paura.

Credevo che questo lato del mio disturbo non mi avrebbe mai colpito, mentre ora invece per la prima volta mi sento realmente solo, completamente abbandonato a me stesso.
In questi tre lunghi mesi ho pensato svariate volte di farla finita, di scrivere una volta per tutte la parola FINE sulla mia vita.
So per certo che nessuno sentirebbe la mia mancanza, nè verserebbe una lacrima per me.

L'unico problema è che sono un codardo, per quanto odi me stesso e la mia inutile vita, non ho il coraggio di farlo. La mia mente malata pensa che sarebbe troppo facile dire basta e ammazzarsi; ama piuttosto essere masochista e crogiolarsi nella sofferenza e nel dolore più crudo, quello vero.
Non amo fare la vittima, ma è un'ottima scusa per continuare a rovinarsi la vita.

Rigiro tra le mani il contenitore delle pillole; quelle che dovrebbero servire a curarmi, a farmi stare meglio e, ridendo istericamente, le lancio nel water premendo il tasto dello scarico.
Le osservo attentamente vorticare insieme all'acqua per poi scomparire nel fondo.
Poggio le mani ai lati del lavandino di marmo ghiacciato e alzo lentamente la testa per guardare la mia immagine riflessa nello specchio di fronte a me.

L'inferno in noi 2 {CAOS}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora