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Rapita,
nello specchio dei tuoi occhi
respiro il tuo respiro.

Saffo


«Vuoi un passaggio?» Un'auto accostò al marciapiede.
«Non sono una prostituta, va avanti.»
Una risatina roca si propagò nell'aria. «Non ti ho chiesto di salire in auto e di soddisfarmi, ti ho offerto un passaggio.»
Sfoderai il più falso dei sorrisi. «No, grazie.»
Accelerai, e a testa alta e con sguardo strafottente camminai lungo la via che in pochi minuti mi avrebbe riportata a casa.
«La sera una ragazza così giovane non dovrebbe stare in questa zona.»
Alzai gli occhi al cielo. Non era giornata per infastidirmi.
La macchina seguì il mio passo scandito dal ticchettio dei tacchi a spillo scomodi e dolorosi -ma che slanciavano le gambe-, e con ingenuità tentai di superare la velocità del motore.
«Te ne vuoi andare?» Mi voltai verso il ragazzo che con una mano teneva svogliatamente il volante e quasi gli sbraitai contro con vocina stridula e fastidiosa: ciò che la mia era non appena ne perdevo il controllo.
«Ti seguirò fino a quando sarò certo tu sia a casa sana e salva, allora.» Non era quel tipo di uomo abituato a perdere.
Andai ancora più veloce fino a quando non sentii i palmi caldi di un anomalo bruciore, un dolore pulsante alla parte bassa della schiena per il contraccolpo e il fianco premuto sui sanpietrini che palpitava per la botta presa. Ci misi del tempo per capire fossi caduta e che un mio tacco si fosse rotto.
Maledetti, stupidi e inutili sanpietrini.
L'uomo scese dall'auto e mi venne incontro. Era alto, molto più di me, e da quella prospettiva ancora di più mi sentivo piccola.
Incrociai le braccia al petto e mi finsi austera.
«Sei così nervosa che il tacco della tua scarpa ha deciso di lasciarti per intraprendere vita solitaria.» Mi schernì.
Si piegò su di me, io allungai le braccia e rivolsi le mani con i palmi lesi aperti verso di lui. Ignorai il bruciore, spinsi le mani contro il suo petto con l'intento di spingerlo via, nonostante le poche forze del mio fisico sfatto dopo una serata infelice e indimenticabile.
Quasi quel contatto lo infastidì, con una mano mi prese entrambi i polsi e senza stringerli li allontanò dal suo petto lasciando che le braccia mi ricadessero inermi lungo i fianchi.
Sulla sua camicia bianca delle goccioline di sangue si dilagarono lentamente nella trama del tessuto che gli copriva i pettorali.
«Non spaventarti, sto cercando di evitarti una brutta serata.»
Arrossii. Tentavo di restare impassibile, ma più mi sforzavo nell'impresa più il mio comportamento somigliava a quello di una ragazzina impaurita se confrontato a quello di una donna rispettabile che tentavo goffamente di imitare.
Lui ignorò i miei modi, fu morbido nei movimenti; le sue dita indice e pollice si posarono sulla fibbia del laccetto della scarpa sul lato della gamba offesa, la slacciò, e per un movimento che erroneamente fece fare alla mia caviglia mi trovai a mugolare per il dolore con una smorfia in volto.
Con fretta gli occhi dell'uomo saettarono sui miei, vacillarono dal destro al sinistro per decifrare la mia espressione e con immaturità chinai il capo nascondendomi.
Contraddittoria cercai poi l'apatia. Gli dimostrai di non provare alcun dolore, gli dimostrai di essere una donna forte cosicché se quell'uomo avesse avuto idee maliziose per pecca della mia cagionevolezza, avrebbero lasciato la sua mente una volta constatato fossi una donna forte.
Non sapevo se stessi prendendo per i fondelli me o lui.
Donna forte? Io? Forse non mi conoscevo abbastanza, forse speravo di saper mentire, forse non consideravo quanto ridicola mi stessi rendendo agli occhi di quell'uomo, quanto ancor di più gli potessi sembrare un cerbiatto spaventato che non aspettava altro che correre via con quelle fragili gambe esili da selvaggina.
Se mi avesse voluto fare del male, in quella caduta mi ero giocata ogni chance di sfuggirgli. Avrebbe potuto farmi di tutto e lo sapevo. Lui, lo sapeva.
Ero lì, seduta a terra, indolenzita e senza una scarpa, ad attendere che lui decidesse se lasciarmi andare o se portarmi con sé e farmi qualsiasi cosa gli aggradasse, per poi liberarmi una volta esaurito ciò che il mio corpo inesperto gli avrebbe potuto dare.
Intanto lui distolse gli occhi attenti dal mio volto e sfilò la scarpetta mentre tentava di non fare movimenti improvvisi, di non toccare troppo e di non violarmi in alcun modo, perché sapeva -nonostante la mia scorza di orgoglio-, che avevo paura.
Mossi il piede della scarpa che aveva perso il proprio tacco e ancora soffocai un rantolo. L'uomo mi guardò, i suoi occhi preoccupati nei quali vedevo riflesso lo scintillio della luce calda del lampione nel blu notte carezzarono ancora la pelle rosea del mio volto. Con una mano prese il piede incriminato e lo mosse lievemente. Feci appello a tutta la mia freddezza, tentai di ignorare la mia bassa soglia del dolore e lui mosse ancora il piede che costringendo la caviglia a ruotare. Sottrassi con uno strattone il piede dalla sua presa che però non cedette e in un lamento languido gli feci intendere di aver provato dolore.
Sorrise tronfio, due eleganti fossette gli spuntarono sulle guance.
Stava cercando di farmelo ammettere. Aveva notato il mio grande, immane orgoglio e ci giocò finché non lo vide cedere.
Con che razza di uomo avevo a che fare?
«Hai preso una storta, è normale faccia male.» Disse il bipolare tornando premuroso, intanto tolse anche l'altra scarpa, prendendola per il tacco e facendola scivolare via dal mio piede.
«Non mi fa male.» Mi resi ridicola nel tentativo di apparirgli insensibile.
Mi alzai prima che riuscisse a prendermi in braccio e zoppicai via da lui, il più veloce possibile, saltellando ed imprecando sotto voce, avvolta in una nube di nervosismo e paura.
Rise ancora. «Guarda che è inutile fare l'orgogliosa, ti ci porto io a casa.»
«No!» Sbraitai ad un passo dalla crisi di nervi.
Il suo tono arrogante, il suo modo di fare così presuntuoso e sicuro di sé... Un uomo irritante, non era niente di più.
Lo vidi con la coda dell'occhio incrociare le braccia al petto, appoggiarsi con calma alla sua auto e fissarmi zoppicare in attesa di un cedimento.
Devo esser stata ridicola, lì, a piedi nudi su uno sporco marciapiede di un quartiere di Milano, con i tacchi e la pochette in mano, un ginocchio sbucciato e il vestito sporco.
Neanche venti secondi dopo, smisi di resistere al dolore della caviglia, mi voltai verso di lui, che ancora aspettava tornassi indietro con un sorrisino di presunzione, e anch'io a braccia conserte come lui, con tono altezzoso, accettai la sua offerta a modo mio: «Solo perché camminare scalza in questo marciapiedi mi fa schifo, nient'altro.»
Mi venne incontro. «Lascia riposare quella povera caviglia», disse prendendomi in braccio a mo' di sposa. Accettai il calore del suo corpo, lo accolsi e gli strinsi le braccia attorno al collo giovando di quel contatto caldo e rassicurante. Con il naso gli sfiorai il collo, godetti del suo profumo di rum, iris e tuberosa. Un profumo sicuramente costoso.
Lui staccò dal mio corpo una mano con la quale aprì la portiera. Si chinò e mi appoggiò con grazia al sedile dell'auto.
Agitai in aria l'indice: «se proverai a toccarmi, io...» ma lui m'interruppe. «Tu niente, non tocco le donne senza il loro consenso. Le ragazzine nemmeno le guardo.»
Offesa incrociai le braccia al petto. «Io ho ventitré anni, non sono una ragazzina.»
Alzò le mani in segno di resa pieno di divertimento. «Va bene, perdonami, donna matura.»
Si sporse verso di me. Un profumo dalla virilità rassicurante mi inebriò le narici fino a soggiogarmi. Attonita, ipnotizzata dal suo odore, mi lasciai sovrastare dal suo corpo.
«Cosa...» cercai di domandargli il suo intento, ma le parole mi morirono in gola, mentre io, palpitante, accolsi il lieve contatto del suo braccio sul mio addome.
Un click precedette il suo brusco allontanarsi da me, ed io mi risvegliai dall'incantesimo.
Mi aveva allacciato la cintura di sicurezza.
«Via Marconi.» Mi finsi austera.
Mi voltai a guardarlo. Non un sorriso, non un accenno di alcuna emozione.
Qui l'apatico era lui, non io.
Portava una camicia bianca sbottonata sul petto, ora macchiata del mio sangue dopo che gli avevo poggiato le mani addosso per allontanarlo. Gli percorsi con gli occhi le braccia sulle quali il tessuto aderiva per la tensione; sul polso portava un orologio dall'aria costosa, e sulla mano che morbida teneva il volante, una fede d'oro bianco.
Provai ad ipotizzare la sua età. Trentadue? No, troppo pochi. La sua voce era matura, le sue mani ruvide e venose, i suoi muscoli erano da uomo, e non più da ragazzo. La sua pelle era vissuta e benché la mascella fosse stata rada, un'allusione della barba sembrava volesse accennare alla barba ispida e spessa di chi l'aveva rasata già parecchie volte.
Fece un sorrisetto beffardo, compiaciuto dello sguardo di una ragazza -io- fisso su di lui.
Arrivammo zitti alla via di casa mia. Ogni tanto mi lanciava qualche occhiata, spesso cogliendomi con gli occhi persi in lui e sorridendo lusingato. Non voleva darmi la soddisfazione di sorridere di fronte a me, tuttavia sapeva che il mio imbarazzo fosse stato forte, in ogni momento in cui venivo beccata in flagrante ad osservarlo, a tal punto da non farmi render conto del suo sorriso per merito mio.
Si fermò di fronte al portone del palazzetto.
Vivevo in un piccolo appartamentino vicino ai Navigli; l'avevo curato affinché somigliasse il più possibile ad una casa, ed ora quelle tre stanze che prima mi sembravano fredde e dalle quali cercavo di tenermi lontana il più possibile, erano diventate il luogo che più desideravo, che faticavo a lasciare alla mattina e in cui non vedevo l'ora di tornare alla sera.
Esausta, gli avvolsi attorno al collo le braccia, e con le gambe avvinghiai la sua vita. Mi fidai di lui, lo lasciai fare solo perché nelle gambe non avevo nemmeno più le forze di sostenermi.
Volevo soltanto che quella giornata finisse in fretta.
Fu cauto nel sorreggermi dalle cosce, senza far scivolare le mani sul mio sedere per non spaventarmi.
Solo un uomo che della vita sapeva già qualcosa avrebbe riservato queste accortezze nel toccare una donna.
Mi lasciò di fronte alla porta di casa mia. Sussultai quando il freddo del marmo toccò i miei piedi scalzi che fino a prima lui non aveva fatto appoggiare a terra, caldi per il tepore di una sera estiva a Milano.
Rimasi appoggiata su una caviglia, dalla pochette presi le chiavi. Nel mazzo cercai quella dell'appartamento che ancora non avevo imparato a riconoscere, infilai la chiave nella toppa e concentrai le forze necessarie per far scattare la serratura. Forze che nemmeno se avessi pregato ogni residente dell'Olimpo sarei riuscita a racimolare.
Mi sforzai ed ansai per la fatica. Lo sentii sorridere, poi mi posò la mano sulla mia che lasciò la presa. Con un lesto movimento del polso la serratura scattò e la porta si aprì.
«Puoi andare, adesso.»
L'uomo scosse la testa. «Lascia che quando me ne vada possa dormire tranquillo per la tua incolumità.»
Mi posò una mano tra le scapole e mi spinse all'interno dell'appartamento.
«Non mi prendi in braccio?» Scherzai, o forse sperai. Ero stanca.
Da quanto non avevo più un contatto fisico con una persona? Da quando qualcuno non mi toccava senza farmi sentire a disagio?
«È già stato abbastanza, siediti e dimmi dove posso trovare del disinfettante.»
Offesa incrociai le braccia al petto. «Dannazione, so prendermi cura di me stessa, non ho bisogno che sia tu a farlo.» Rimasi ferma di fronte l'uscio, in piedi e quasi col broncio, mentre lui accorciava lentamente la distanza tra di noi.
S'ingobbì portandosi alla mia altezza, i suoi occhi fissi nei miei non emanavano alcuna traccia di dolcezza, ma freddi svolgevano il proprio ruolo nel rimprovero che non mancò a venire.
«Non ci siamo capiti, signorina», iniziò. Intanto abbassai la testa e mi concentrai su un punto immaginario nel pavimento tra i miei piedi scalzi e la punta delle sue scarpe stringate e laccate di nero. Mi alzò il mento prendendolo tra il pollice e l'indice e tornò a puntare gli occhi nei miei. «Ti ho chiesto di sederti, e di dirmi dove tieni il disinfettante.»
Arrossii, di nuovo. Ebbi fretta nell'allontanarmi da lui, mi buttai con teatralità sul divano e gli indicai la porta del bagno con arrendevolezza. «Nel mobile sotto al lavandino.»
Con un cenno del capo mi fece capire di aver apprezzato la mia accondiscendenza, si allontanò e mentre frugava nella cassettina di medicinali disordinati gli parlai, lontana dalla soggezione che la sua figura mi infondeva, e tentai di dirgli qualcosa.
«Perché mi tratti come se fossi deficiente?»
Lo sentii trattenere una risata. «Ti ho vista camminare da sola, con un vestito non di poco sopra al ginocchio, in un quartiere che pullula di prostitute. Come ti saresti difesa se un uomo avesse cercato di prendersi il tuo corpo credendolo in vendita?»
Mi ammutolii cercando una risposta. «Questo è un buon motivo per trattarmi da deficiente?»
Lo osservai venire verso di me. I suoi capelli spettinati per una giornata pesante gli ricadevano dolcemente sulla fronte mentre dalla camicia aperta intravedevo la V alla base del collo e l'inizio dei pettorali ai quali il tessuto aderiva.
Con una mano si appoggiò al bracciolo del divano, e ancora i suoi occhi si trovarono a poco dai miei. «No, ma il fatto che tu fossi intenzionata a proseguire per altri venti minuti, alle prime ore della notte, da sola in quella strada, mi fa pensare che tu manchi di prudenza.»
Mi accigliai. «Quindi pensi sia una stupida o...» non mi lasciò finire. «Imprudente. Penso tu sia imprudente.»
«E la mia imprudenza ti ha portato a perdere così tanto tempo per me?» Chiesi.
L'uomo si drizzò da quella posizione e incrociò le braccia al petto. Ora mi era di fronte, il mio naso gli arrivava più in basso dell'ombelico. In quella circostanza glie ne avrei dati quaranta.
«Sì.»
«Quindi ogni sera in cui trovi una donna camminare sola le offri un passaggio?»
Un angolo della sua bocca si alzò presuntuoso. «No. Ogni volta in cui vedo una ragazzina inerme camminare in una brutta zona, la coscienza mi spinge a portarla al sicuro.»
Sbuffai. «Mi hai presa per un agnellino indifeso.»
Si scostò i capelli dalla fronte con un repentino gesto della mano, la camicia gli aderì al bicipite scolpito e al fianco. «Con la differenza che tu hai più libertà di un agnellino, e potresti essere meno indifesa di lui. Un agnello è indifeso a prescindere dal luogo in cui si trova e sottostà al volere dell'uomo o alla forza di un predatore. Tu, che non devi sottostare al volere o alla forza di nessuno, decidi di tua spontanea volontà di finire in situazioni che ti rendono indifesa, e questo, a differenza di un agnello, ti rende anche incosciente.»
«Mi stai dando della stupida, quindi.»
Si inginocchiò di fronte a me e con una mano mi sfiorò il polpaccio. «Non avere la presunzione di ribattere ogni volta. Io seleziono con cura le parole che utilizzo nei miei discorsi, e ciascuna di loro ha un significato ben preciso.» Mi guardò dritta negli occhi. «Non interpretare.»
Mi zittii e lo lasciai esaminare il taglio a lato del ginocchio.
«È solo un graffio, puoi andare.»
Scosse la testa. «Non lo disinfetteresti se ti lasciassi sola in questo momento.»
«Non è importante farlo.» Lagnai senza smentirlo.
Lui mi ignorò, forse per restare fedele al rimprovero sul ribattere ad ogni sua parola. Non mi rispose né fece alcuna espressione. Passò il cotone impregnato di disinfettante sulla ferita e poi ci posò sopra un cerotto lilla mentre dei capelli gli caddero sul viso.
Arrossii. Avevo solo quelli a casa.
«Posso spiegare», tentai, ma lui sollevò una mano verso di me, zittendomi. Mi prese i polsi in una sola sua mano e rivolse verso sé i palmi delle mie mani disinfettandoli.
Solo in quel momento pensai alla sua camicia bianca, la guardai, sporca del mio sangue. Se solo avessi avuto meno paura, non glie l'avrei sporcata.
«Scusami per la camicia.» Dissi, ma mi ignorò.
«Ora cambiati, va a letto e riposa.»
Mi concentrai sul suo volto. Lo sguardo duro, le sopracciglia nere che gli incorniciavano gli occhi. Il suo naso greco, tra le due ossa malare che sostenevano le guance magre. Sotto al naso un discreto arco di Cupido contornava le labbra piene e rosee mentre la mascella glabra gli induriva i lineamenti.
Mi persi nei suoi occhi e distrattamente mordicchiai il labbro inferiore.
Le sue iridi sembravano una distesa di Myosotis in un prato inglese in piena primavera, ma imprigionato in una bolla invernale, che ghiacciava le goccioline di rugiada sui morbidi petali del fiore impallidendoli per il freddo.
I suoi occhi erano dei nontiscordardimé contornati dal verde e sbiaditi dal ghiaccio per la loro eterna e fredda prigionia nella bruma, racchiusi in un dipinto di Van Gogh finito sul fondo della chiara acqua marina che bagna le coste Sarde. Rende l'idea?
«E tu?» Mi maledissi per la risposta affrettata.
Non lo conoscevo nemmeno.
Sorrise alla mia ingenuità, due fossette invitanti gli sbucarono tra le gote e gli angoli delle labbra. «Io andrò a casa mia, farò una doccia e dormirò.»
Me lo immaginai steso a letto, in boxer neri, dormiente accanto alla bella donna che si era meritata il titolo moglie dopo una lunga sequenza di seduzione, cenette romantiche, e uscite.
Dal divano prese il cellulare che distrattamente aveva appoggiato e lo infilò in una tasca dei pantaloni, scostò i capelli corvini dalla fronte e lasciò casa mia, ormai profumata dell'odore di spezie e rum e con leggere note di cuoio, iris e tuberosa.
«Buonanotte.» Mi congedò.

Princeps LuxuriaeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora