9

65 10 0
                                    

Il segreto del cambiamento
è concentrare tutta
la tua energia non nel vecchio,
ma nel costruire il nuovo.

Socrate


Dopo un fine settimana di una snervante lentezza venne il lunedì, odiato dalla stragrande maggioranza di lavoratori e studenti.
Mi chiesi se tutti odiassero il lunedì per abitudine e per prassi, o se davvero fosse così brutto come si diceva in giro.
Voglio dire: so bene che riprendere il lavoro dopo uno o due giorni di riposo può sembrare traumatico, ma nonostante tutto si ricomincia la settimana riposati, si spera, e lavorare a mente tranquilla non è poi così male.
Ad ogni modo quella mattina quasi difesi il lunedì, e forse il mio giudizio venne condizionato dalle circostanze in cui mi trovavo e dall'acidità di stomaco che mi prendeva non appena mi soffermassi un secondo di troppo a pensare all'avvocato.
Vestita con un leggero abitino nero dalla gonna appena sopra al ginocchio e le maniche corte, mi trovavo di fronte alla scarpiera presa da una forte indecisione: delle sneakers bianche come l'avvocato avrebbe preferito o dei tacchi neri che lui mi aveva chiesto di non portare?
I tacchi. Perché? Perché io non sottostavo al volere di alcun uomo e volevo dimostrarglielo.
Mi sentivo spavalda, piena di coraggio e sfacciata. Una ragazzina insolente che si preparava per una mattinata di lezioni con il professore che più detestava ma che non vedeva l'ora di incontrare così da poterlo sfidare.
Fuori dal suo ufficio, tutto quel coraggio però era sparito.
Ricordai il motivo per il quale mi trovavo lì: non era stato lui a convocarmi, ero stata io a volerlo; io gli avevo accennato di aver bisogno del suo aiuto e lui, l'occasione di avere un mio punto debole in mano per potermi controllare al meglio, non se la sarebbe mai fatta perdere.
E poi gli avrei dovuto parlare di Marco: era bene farlo.
Mi schiarii la gola e bussai.
Due colpi leggeri sul legno della porta dati con le nocche che subito arrossirono.
«Entra.»
Sospirai. Stavo andando incontro al mio aguzzino e non ne capivo il perché. Sentivo l'istinto di corrergli in contro contrastarsi con quello del scappargli lontano.
Sentivo il bisogno di stargli vicino mentre lo stomaco si contraeva e contorceva alla sua presenza.
«Buongiorno Anastasia.»
A-na-sta-sia, la sua lingua ipnotica batteva sul palato e sui denti, la sua voce mi scavava sul petto e mi avvolgeva le viscere, il suo odore lo si sentiva dall'ingresso, sebbene lieve e delicato e mai invasivo, e i suoi occhi li si notava anche a due metri di distanza quasi brillassero in un cielo blu notte.
Un calore mi colpì il ventre e si disperse per il corpo; eppure ero appena entrata.
Imprecai tra me. Cazzo.
«Siedi pure.» Parlò lui di nuovo, gutturale ed ermetico, senza ch'io avessi ancora proferito parola.
Era appoggiato al muro, con le gambe incrociate all'altezza delle caviglia e le braccia conserte, ed era vestito con dei semplici pantaloni ed una camicia bianca leggera, che se solo ci fosse stata più luce a baciargli il busto, sarebbe stato come averlo nudo di fronte a me.
Mi indicò una sedia al lato opposto della scrivania.
Mi avvicinai lentamente, accompagnata dal ticchettio dei tacchi che lui fissava con un angolo della bocca alzato e una mano a massaggiarsi il mento. Li aveva notati.
Allontanai dalla scrivania la sedia, mi misi seduta e accavallai le gambe. Lui si sistemò sulla poltrona di fronte a me.
«Di cosa volevi parlarmi?» Appoggiò una mano ad un bracciolo mentre la gamba sinistra, aderente al tessuto nero del pantalone, era piegata e con la caviglia poggiata al ginocchio della destra, e l'altra sua mano, mollemente adagiata al suo interno coscia.
«Ho un problema.» Quasi balbettai, e lui sorrise. Colse il mio disagio come una margherita in un prato e non lo sfruttò a suo favore, non gli strappò via i petali, ma anzi posò il fiore in un bicchiere che riempì d'acqua e ne rallentò l'invecchiamento.
Mi sentivo stupida per il controsenso dei tacchi che audaci lo sfidavano e il mio comportamento impaurito che altro non faceva che dimostrargli quanto fossi in realtà impaurita.
«Lo so che hai un problema, Anastasia. Ciò che voglio sapere da te, o meglio, che tu desideri che io sappia, è di cosa tratta questo tuo problema.»
Deglutii e cambiai gioco come una bambina che scappa dal suo dottore. «Io non voglio parlarle del problema, ma porle una domanda.»
Portò il piede che prima era appoggiato al ginocchio a terra e tenne le gambe aperte, mentre il tessuto gli tirava alle ginocchia e alle cosce e la camicia gli si arruffava sull'addome laddove la cintura in pelle nera stringeva.
«Chiedi, allora.» Con un gesto della mano mi intimò a parlare. Notai i suoi occhi puntarsi sulle mie cosce, dove la gonna si era alzata nel gesto di accavallare le gambe, ma non esprimeva niente, e nei suoi occhi non scorsi né l'approvazione né il dissenso.
Confusa, non sapevo se desiderassi porgli la domanda che inevitabilmente l'avrebbe condotto al mio problema, stare con lui ad assaporare il suo odore, o al contrario non dire nulla e andarmene lontana da lui, rischiando fosse Mitch a risolvere il problema e mettendolo così nei guai con il signor Rubini; ma ancor peggio era la nuova emozione che mi creava disordine: la paura del desiderare, sebbene nel subconscio, di attrarlo. Ma se quest'ultima fosse stata quella vera, allora avrebbe avuto ragione Camilla, nel dire che io ero attratta dalla contorta natura dell'avvocato Rivera e quindi dell'effetto che aveva su di me.
«Il mio lavoro, mi impone l'obbligo di segretezza. Non temere che io riveli qualcosa di tuo a qualcuno se è questo quello che ti trattiene.»
Nel mio silenzio capii di star sbagliando gioco, e di starmi scavando da sola la fossa.
Io ero troppo poco esperta.
Fossi stata spavalda quanto quei tacchi dimostravano, qualsiasi fosse stata la mia domanda lui non avrebbe capito se fosse stata per me o per qualche mia amica, ma vista la mi insicurezza, altro non poteva che cogliere quanto la faccenda mi toccasse, e dunque si sarebbe capito essere un mio, e mio soltanto, problema.
Ma se avessi ripreso il controllo dell'Anastasia che ero nel momento in cui scelsi di calzare i tacchi poco tempo prima, dimostrandogli che la timidezza fosse scaturita dalla sola sua figura, e non dall'argomento che sarei andata a trattare, forse avevo ancora una buona speranza di fargli cogliere non fossi io la parte direttamente interessata. A quel punto però, una volta saputo come prendere il problema dal lato legale, come l'avrei affrontato da sola?
«Temo di dovermi fare un giro per le vie di Milano a domandare a qualche gatto se ti ha mangiato la lingua.» Scherzò con una delicatezza che in lui avevo dimenticato, e che mi riportò alla sera in cui si era preoccupato per me, e senza approfittarsene aveva protetto la bambina impaurita che mi si celava dentro.
In quel ragionamento la mia mente lo difese: manipolatore o meno, era un brav'uomo, ed io potevo fidarmi.
Rossa in volto, perché mi ero sentita trattata come una bambina, gli risposi cercando la stessa sicurezza che portavo ai piedi.
«A che punto, le attenzioni di un uomo su una donna, vengono considerate sbagliate?» Domandai di fretta, come quando si strappa via un cerotto in un colpo solo per non sentire dolore.
Il suo volto si adombrò, ma finse indifferenza e mi rispose. «La corte Penale, ha stabilito che si ha violenza sessuale ogni volta in cui viene compiuto un qualsiasi atto che consiste in un contatto corporeo, anche se fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque in un coinvolgimento della sfera fisica di quest'ultimo, e pone quindi in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sua sfera sessuale.» Si sporse in avanti appoggiando le braccia alla scrivania, unendo le mani ed intrecciandone le dita. «Per aiutarti a comprendere meglio: il toccamento non casuale del seno, anche se sopra ai vestiti, verrebbe considerato violenza sessuale.» Tradusse con parole comprensibili.
Mi ripetei a bassa voce le sue parole, le masticai e tentai di capirle; poi annuii.
«La semplice molestia sessuale, è invece solo in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale, ovvero di atti di corteggiamento invasivo ed insistito. E se dalle espressioni verbali a sfondo sessuale si passa ai toccamenti a sfondo sessuale, si realizza delitto di abuso sessuale, consumato o tentato a seconda della natura del toccamento.»
Riempì al posto mio il silenzio non sentendosi rispondere. «Ho chiarito i tuoi dubbi?»
Mormorai un «sì» con una flebile e bianca voce.
L'avvocato tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona. «Non conosco il tuo caso, ma visto l'argomento che hai desiderato chiarire, mi sento in dovere di dirti che qualsiasi tipo di molestia, violenza, o abuso, va affrontato. Non ti interrogherò solo perché non so fino a che punto tu voglia aprirti con me, ma per qualsiasi cosa, il mio numero è a tua disposizione.»
Annuii ancora. «La ringrazio.»
«C'è altro che desideri sapere?»
Invasa da una leggerezza immensa, quasi mi sentii d'un tratto felice, abbastanza da poter scherzare.
«Voglio sapere come fa a ricordare tutte queste cose.»
I suoi occhi vennero attraversati da un lampo di divertimento, e la solita espressione arrogante gli tornò in volto.
«È il mio lavoro.»
«E come può essere così perfetto il suo italiano se non è la sua lingua madre?» Sapevo non gli piacesse parlare di sé in questo modo, ma ero tornata combattiva e vogliosa di provocazione, tanto che dimenticai fosse un particolare al quale lui non aveva mai accennato, ma che infatti avevo scoperto durante una mia ricerca nell'internet.
«Io lavoro con la comunicazione, pertanto credo necessaria la massima conoscenza della lingua che porta a delle buone capacità persuasive utili nella mia professione.» Una gestualità discreta, fluente e quasi ipnotica accompagnò la sua voce. «Ho vissuto molto in Italia.»
Lo guardai meglio.
Gli diedi trentacinque anni. Dodici in più di me.
Mi finsi scettica. «Okay, le credo.»
«Hai finito ora?» Iniziava ad irritarsi.
«Nono», dissi scuotendogli a pochi centimetri dal volto l'indice della destra in segno di negazione.
«Ultima domanda, Anastasia. Pensaci bene.» Stava iniziando ad irritarsi, era rigido sulla poltrona, sporto in avanti, e tra le mani muoveva nervosamente una penna.
Portai in avanti il busto e appoggiai le mani alla scrivania sfidandolo. «La sua età.»
«Trentotto.»
«Compiuti?»
«Sì.»
«Quando?»
Alzò gli occhi al cielo. «Novembre.»
«Quindi ne compie trentanove tra cinque mesi.»
Si tirò in piedi di scatto e mi venne vicino. «Basta così. Sono venuto qui per parlare con te, ma non posso stare l'intera mattina in questo posto. Questo non c'entra con il motivo per il quale sei venuta a parlarmi.»
Passò di lato alla scrivania e mi venne accanto. Mi alzai e sistemai la gonna, i suoi occhi percorrevano le mie gambe pallide mentre arrossivo. Tornò l'insicurezza.
Le mie gambe non erano lunghe e slanciate, ed erano bianche come il latte. Camilla le aveva perfette in confronto a me, e anche tante mie colleghe le avevano più belle delle mie.
Chissà quante belle gambe e quanti bei fisici aveva visto lui prima di posare i suoi occhi su di me.
Chissà quanto belle erano quelle di sua moglie.
Io sembravo una pesca acerba in piena estate: indietro nel periodo in cui più sarebbe dovuta essere buona.
Si fermò con lo sguardo sulle alte décolleté nere scamosciate e scosse lievemente la testa.
Mi schiarii la voce. «Mi scusi. Volevo solo parlare con lei.»
«Hai parlato con me, Anastasia.»
Scossi la testa e tornai seduta. «Non ho parlato con lei, e lo sa meglio di me.»
Si avvicinò ancora. «Cosa stai cercando di dirmi?»
«Lo sa, lei ci lavora con l'italiano, lei ci lavora con la lingua e con la comunicazione.» Un tono supplichevole mi riempì la bocca d'amaro.
«Vorrei davvero sapere cosa ti porta ad una tale incoerenza.»
Parlava del controsenso dell'avergli disobbedito portando dei tacchi e del mostrarmi al contrario intimorita dalla sua figura, parlava del controsenso della sicurezza con la quale davo certe risposte e dell'insicurezza con la quale glie ne rifilavo delle altre, del modo in cui talvolta mi mostravo a lui vulnerabile smentendo tutte le altre in cui con spavalderia gli avevo risposto a tono cercando di sfidarlo, e di come alzavo la gonna per essere guardata mentre altre tentavo di allungarne la stoffa per coprire più parti di me possibili.
Lui mi metteva paura e mi creava sicurezza, mi eccitava e mi opprimeva, mi faceva del bene riaprendo vecchie ferite che cominciavano a sanguinare.
Prese il mio silenzio come una risposta.
«Credo sia per te un momento difficile. Deduco tu stia vivendo qualcosa di forte che ti sta sfuggendo di mano e che alla minima attenzione che non ti fa sentire in pericolo e che anzi ti dà un senso di protezione, senti qualcosa di piacevole, indipendentemente da chi tu abbia di fronte.» Una gestualità delicata e ben posta, rese ancora di più il significato delle sue parole.
Credeva fossi attratta da lui perché lui era in una posizione che per la mia mente mi avrebbe potuta tenere al sicuro dalle mani di Marco, malgrado il carattere dell'avvocato accendesse in me la provocazione e la sfida che nessun altro uomo aveva mai fatto.
«Lei si sbaglia.» Incrociai le braccia al petto offesa.
Mi prese il mento in una mano quasi facendomi male e mi sollevò il volto.
«Io mi sbaglio?»
Imperterrita: «Sì, si sbaglia.»
Mi guardò i piedi con una smorfia di disapprovazione, poi tornò con gli occhi nei miei.
«No, Anastasia. Io non sbaglio mai.»
«Le dico di sì, invece.»
Mi sistemò i capelli dietro l'orecchio scoprendomi completamente il volto che arrossì sentendosi sbagliato, si abbassò di poco, il giusto per guardarmi. Il mio viso, con ogni umana imperfezione, era scoperto di fronte a lui. Il suo profumo mi soggiogò, entrò dalle narici e mi riempì il petto.
«Dimostramelo», disse.
Gli guardai la lingua muoversi e battere sui denti, le labbra si unirono e subito si staccarono nel labiale della M, di nuovo batté sui denti, si unirono ancora, e poi la lingua toccò il palato.
Dimostramelo, dimostramelo. Di-mo-stra-me-lo.
Il suo fiato mi accarezzava il volto, il mio petto si alzava e si abbassava il doppio più veloce del suo, schiava del suo labiale ogni cosa intorno a noi si sfumò in una nube, e restò solo lui, chinato davanti a me, con la mia mente in pugno.
Lui era calmo, mi guardava negli occhi inespressivo attendendo una mia risposta. Con un gesto fluente si sistemò i capelli che gli ricadevano di fronte agli occhi, la stoffa della camicia aderì al bicipite: l'avrei voluta strappare fino a scoprire i suoi muscoli costretti a quel tessuto bianco.
Mi teneva il volto alto con il pollice e l'indice posati sul mio mento. I suoi respiri profondi vennero coperti dai miei ansimi e dal cuore che sentivo pulsare in gola, gonfiandosi fino ad ostruire il passaggio dell'aria. Deglutii con fatica.
«Glie lo dimostrerò».

Princeps LuxuriaeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora