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Sparsa animae
fragmenta recolligam.

Francesco Petrarca


Il vuoto, per quanto provassi ad ignorarlo, era da anni una mia parte integrante.
Lo vivevo come un immenso e pesante spazio che da solo si era fatto posto scavando all'interno del mio petto, incastrandosi nei posti che il cuore lasciava liberi, premendo e spingendo contro lo sterno per allargarsi ancora di più.
Era talmente grande che il mio petto non gli bastava: era talmente avaro che più posto si faceva più ne pretendeva dell'altro.
Come una massa informe scivolava tra le mie viscere, saliva lungo la gola bloccandola, ma allo stesso tempo scendeva fino allo stomaco, stritolava l'intestino e prepotente si faceva spazio tra gli organi.
Era un'antipatica massa informe, pesante, dolorosa, avara e malata, che talvolta immaginavo di eigengrau, un colore che per quanto simile non è nero, e non è nemmeno una tonalità molto scura di grigio, bensì è quel colore asettico che si vede quando si è in assenza di luce: il colore del buio insomma.
Lì dentro era sempre tutto buio.
Non era soltanto così però, e le volte in cui il vuoto diventava più pesante e prepotente, stritolava con maggiore forza lo stomaco, schiacciava il cuore quasi a volerlo fare esplodere e ostruiva la gola fino a ridurmi al vomito, a tremiti e palpitazioni, lo immaginavo di semplice e puro colore bianco.
Newton terrebbe a ricordarmi che il bianco è tutt'altro che vuoto, dimostrandoci con l'esperimento che i Pink Floyd hanno scelto per la copertina di Dark Side of the Moon, nel quale viene fatto passare un raggio di luce bianca attraverso un prisma di vetro da cui in uscita si ottengono i vari colori dell'arcobaleno, dimostrò che il bianco non è altro che l'assorbimento e la relativa riflessione di ogni frequenza racchiusa nella gamma visibile, e dunque -in sintesi- che la luce bianca è tale, perché composta da tutte le frequenze dello spettro visibile.
Assurdo che sia stato proprio l'assorbimento di tutte le frequenze e la loro conseguente riflessione a significare per me il vuoto, il silenzio, e il nulla. Forse ero della teoria che il tutto fosse niente, eppure il nero per me non era come il bianco, nonostante anche lui sia un tutto, assorbendo anch'esso ogni frequenza visibile, con l'unica differenza che non ne rifletteva alcuna.
Il nero non lo vivevo come dolore, come peso, o come vuoto, bensì lo pensavo vivo e pieno. È solamente un colore riservato, che tiene per sé ciò che acquisisce dagli altri.
Il bianco invece, ai miei occhi era un tipo falso. Non riuscivo a credergli, e non riuscivo nemmeno a capirlo. Rifletteva ogni cosa che aveva dentro, ma siamo sicuri fosse luminoso come mostrava di essere?
Insomma, qualsiasi cosa mi vogliate dire, il bianco per me, oggi come anni fa, equivale all'assenza di vita, ed io lo sentivo pesare al centro del petto sotto forma di un vuoto che tentavo di riempire e zittire con la chiassosa vitalità di Milano.
Che strana che devo essere, ad associare ai colori acromatici una personalità tutta loro.

Ma tornando a noi, tralasciando il bianco, il nero, Newton e tutti gli altri cervelloni che studiarono la luce e le onde visibili, era intanto arrivato l'atteso sabato della cena di lavoro, ed io mi trovavo a casa di Camilla a gesticolare con in mano una spugnetta per il trucco.
Avevo saputo tramite il direttore che con grande sforzo era riuscito a convincere l'avvocato Rivera di partecipare ad una delle nostre squallide cene lavorative, e poco prima di andare nel locale al quale il nostro capo restava fedele ormai da anni, io ero intenta a coprire con del correttore le occhiaie, prova di tante notti in bianco trascorse a contare le auto che passavano sotto alla finestra di casa mia.
Le parlai dell'avvocato, e di come ogni emozione riemergesse ogni qual volta lo incontrassi.
«Sapevo già tutto.» Tenne a precisare con nonchalance.
Mi voltai verso di lei distaccando l'attenzione dal mio riflesso. «Come?»
Lei sollevò le spalle. «Credo sia parte di me e del mio lavoro capire dai comportamenti di una persona cosa le succede, ma se questa persona è emotivamente vicina a me e io tengo al suo bene come se fosse il mio, mi è ancora più semplice.» Sorrise. «Non potevo sapere ogni particolare, ma la situazione l'avevo già presupposta.»
«Sei una veggente», commentai io, ma Camilla scosse la testa. «No, lavoro con persone che mentono e mi nascondono il novanta percento di ogni cosa. Si tratta di abitudine.»
Tamponai con la spugnetta sulle occhiaie per un'ultima volta e poi passai del mascara sulle ciglia.
Indossavo un vestitino viola che ricadeva morbido sui lineamenti del mio corpo, lasciando all'immaginazione le forme che venivano soltanto accennate quando la stoffa ricadeva su una curva e aderiva dolcemente alla pelle.
Sensuale ma non volgare, come lo ricordavo dal giorno in cui l'avevo preso e chiuso in un armadio in attesa dell'evento giusto, malgrado non mi calzasse bene quanto sperassi, non per colpa del vestito o del fisico, ma per il mio scarso amor proprio che ancora non mi aveva permesso di accettarmi come meritavo di fare.
In accordo con Camilla avevo optato per delle décolleté, poiché se io ero infinitamente attratta dalle sfide, lei a riguardo fu la mia più grande maestra.
L'avvocato mi aveva ordinato di non indossare i tacchi e sapevo non tollerasse alcuna trasgressione ai suoi ordini, ma io, per quanto forte fosse l'effetto che lui aveva su di me, mi ostinavo a non obbedirgli, forse curiosa di conoscere il vero Alexander Aaron Rivera una volta portato oltre il limite della pazienza e della sua antipatica mania del controllo verso sé stesso e verso l'altro.
Ma perché mai si sarebbe dovuto controllare? Si conosceva così bene da poter essere sicuro della sua scelta o era semplicemente talmente presuntuoso da non mettere mai in discussione le decisioni che prendeva? Cosa temeva sarebbe potuto accadere se avesse perso il controllo?
La mia amica raccolse i capelli biondi in un'aggressiva coda di cavallo, prese dal bancone le chiavi dell'auto e con il capo mi fece cenno di uscire di casa.
Mi avrebbe portata lei, poi sarebbe andata a casa mia a tenere compagnia a Merlino, il mio gatto particolarmente viziato.
L'Audi di Camilla, con musica dance perenne e l'acceleratore ormai consumato dal piede pesante di Camilla, mi portò al luogo dell'appuntamento, tra insulti e colpi di clacson, con un ritardo di un quarto d'ora a causa delle strade trafficate del sabato sera.
Come un incubo apparve in fondo alla sala una tavolata di gallinelle starnazzanti, con a capo tavola quello snob puzzolente del nostro direttore, al quale vicino sedevano i ragazzi del nostro ufficio, che per istinto di sopravvivenza tendevano a restare separati dalle donne dell'azienda.
Saltò all'occhio un posto libero tra Mitch e Giulio che immaginai fosse il mio. Tirai un sospiro di sollievo quando vidi Marco seduto di fronte a Mitch, ma accanto a lui, un secondo posto vuoto.
«Siediti accanto a me» ordinò il figlio del direttore, con quella sua voce fiacca, che decisamente non aveva lo stesso vigore di quella di Alexander: non era allo stesso modo autoritaria.
Marco se confrontato all'avvocato Rivera, non mi faceva più così tanta paura.
Mitch allontanò dal tavolo la sedia che aveva alla sua sinistra e mi sorrise. «Siedi dove vuoi.»
Presi posto tra Mitch e Giulio, fulminata dallo sguardo infastidito di Marco.
Mi sporsi verso il mio migliore amico. Aveva notizie dell'avvocato Rivera? No, disse, ma sarebbe arrivato a momenti.
Lui si avvicinò al mio orecchio senza dare nell'occhio. «Sei molto carina. Lo farai impazzire.» Sogghignò pronto ad una delle sue solite battute. «A meno che tu non finisca sotto al tavolo per la paura.»
Sorrisi. «Proverò a restargli seduta di fronte.»
Daniela diede con il gomito un colpo al braccio ad una ragazza del suo stesso gruppo di lavoro, si scambiarono sguardi complici e le gallinelle alzarono le voci rendendole ancor più stridule, presero a gesticolare con movimenti ampi e repentini mentre rivolgevano lo sguardo all'ingresso del ristorante.
Mi voltai anch'io, storcendo il naso per i tentativi superficiali e vergognosi delle mie colleghe di attirare l'attenzione dell'uomo sulle quali non fece cadere lo sguardo nemmeno per sbaglio.
L'avvocato Rivera camminava a passo lento, il direttore con smania si alzò andandogli in contro e porgendogli la mano alla quale l'avvocato rifilò una stretta fugace.
«È un piacere averla qui.»
Mi aspettai di sentire un «anche per me è un piacere», ma forse sottovalutai l'arroganza dell'avvocato Rivera e di conseguenza sovrastimai la sua cordialità, visto che più di rifilare al signor Rubini un cenno del capo di approvazione altro non fece, limitandosi a dire falsamente, soltanto per una questione di educazione, un «mi dispiace aver tardato, ho avuto un imprevisto lavorativo.»
Rubini tuttavia non ci fece caso, e l'accompagnò al posto libero accanto a Marco, che era anche abbastanza vicino al suo da poterlo stordire con il blaterare inutile da uomo snob.
«Buonasera.» Mitch lo salutò, l'avvocato rivolse anche a lui un cenno minimale e smorzò di poco il gelo nei suoi occhi. Puntò lo sguardo su di me, il ragazzo alla mia destra mi scosse da sotto il tavolo il braccio che gli era vicino come a volermi svegliare dalla trance, e a fatica riuscii a mormorare il medesimo saluto.
«Ciao, Anastasia», disse lui.
Il mio nome gli stava bene in bocca, talmente bene che ogni qual volta lo masticasse un fremito mi riscuoteva svegliandomi dall'indifferenza che tendevo a mantenere in quei momenti.
La sua voce era talmente piena di sfumature, che descriverla mi è difficile. Emanava autorità, ma allo stesso tempo rilassava; era bassa e gutturale, ma anche calda e avvolgente.
Il capo si alzò con teatralità per chiamare un cameriere al quale chiese di portare del vino bianco, che stava a significare solo una cosa: cena a base di pesce, per impressionare l'avvocato.
Mitch mi si avvicinò all'orecchio ancora una volta. «Pesce direttamente pescato dal Naviglio Grande?»
Risi e scossi la testa.
«Lo sai anche tu che il migliore è del Naviglio Pavese.»
Per poco Mitch non si strozzò con il pregiato vino, ma probabilmente, se nel soffocarsi avesse sputato anche solo una goccia di vino, il direttore prima l'avrebbe raccolta con una spugnetta per evitare andasse sprecata, e poi si sarebbe tagliato le vene per quella minuscola gocciolina di vino caro quanto un polmone, versata sul tavolo.
L'avvocato mangiò un pezzo di pane. «Hai risolto quella faccenda?»
Mi guardai attorno per cercare di capire a chi si stesse rivolgendo, e lui non mancò all'occasione di chiamarmi per nome.
«Anastasia?»
Mi schiarii la voce e arrossii. Sapevo che Mitch fosse l'unico a conoscere la situazione, ma l'idea che l'avvocato ne avesse parlato proprio accanto a Marco, mi fece sprofondare in un disagio tremendo.
«No.» Presi fiato mentre l'imbarazzo mi ostruiva la gola. «La mia amica non ha ancora risolto», borbottai.
Un sorriso spavaldo di chi non credeva alle mie parole gli spuntò spudorato tra le labbra. Sapeva bene che fossi io la ragazza con quel problema, ed ero stata io stessa a farglielo capire, tuttavia smise di parlarne e si concesse alle chiacchiere da fanfarone del direttore.
Ascoltammo anche noi il capo parlare: o lui o le galline, e mi sembra ovvia la scelta migliore.
Quando il signor Rubini parlava era parecchio divertente, comunque. Non prestavo mai attenzione ai suoi discorsi, bensì ascoltavo la sua finta erre moscia, che si diceva fosse magicamente apparsa dopo il suo periodo in politica: tornato da Roma, aveva la erre moscia da aristocratico.
Gesticolava come se stesse per annunciare l'arrivo della Regina, aveva lo sguardo perso nel nulla, il capo girato a quarantacinque gradi, gli occhi socchiusi e il mento alto.
E poi sussurrava. Parlava talmente piano che, nel chiasso del locale, risultava difficile riuscire a cogliere le sue -e qui passatemi il francesismo- colossali stronzate.
Ad ogni modo era particolarmente divertente vedere l'effetto del denaro su un uomo di cinquant'anni passati, pieno di squilibri e di ipocrisia.
L'avvocato Rivera disse qualcosa per rispondere a Rubini, ma non avendo seguito il discorso mi persi nei movimenti della sua bocca, senza nemmeno preoccuparmi di cosa stesse dicendo.
Poi bevette dalla coppa, si bagnò le labbra ed il suo pomo si alzò e si riabbassò nell'atto di deglutire, con il pollice si ripulì con fare sensuale l'angolo della bocca dalla quale io pendevo, d'un tratto mi sentii bruciare. Avevo il suo sguardo addosso e tutta la sua attenzione.
Chinai il capo verso il piatto con l'antipasto che non avevo voglia di mangiare.
«Qualcosa non va?»
Arrossii. Ora sentivo ogni centimetro della mia pelle scottare, le guance, le orecchie, il collo, e addirittura la scollatura. Sentii i seni divenire pieni e palpitanti, un calore riempì il basso ventre e il mio corpo divenne d'un tratto insoddisfatto.
Cosa mi stava facendo? Poteva accorgersene?
Scossi la testa e mi costrinsi a guardarlo negli occhi.
«No, niente da dire.» Dissi, e perfino la mia voce era cambiata, facendosi fioca e spossata, ma allo stesso tempo bramosa.
Per un attimo incrociai lo sguardo confuso di Marco, e temetti che il mio stato fosse evidente a chiunque, e a lui fastidioso.
Mi stavo forse trasformando in una gallinella?
Intanto Rivera si sbottonò i polsini della camicia e sollevò le maniche scoprendo gli avambracci coperti da una lieve lanugine virile e per nulla invadente.
Marco mi fulminò con lo sguardo. Era infastidito, e solo in quel momento lo temevo.
Appena saremmo stati soli, me l'avrebbe fatta pagare.
Mi adombrai, i miei occhi color acqua si incupirono e i lineamenti del mio volto si tesero. Ogni muscolo lo sentivo tirare, rigido, e in qualsiasi posizione mi mettessi ero scomoda.
Mitch se ne accorse, e sotto lo sguardo dell'avvocato mi chiese come stessi. «Bene», sono solamente irrequieta e confusa, avvocato.
«Is she okay?» Sorrisi a sentire l'avvocato parlare al mio amico in inglese, sapendo che per entrambi fosse una lingua più comoda.
Mitch mi guardò quasi con tenerezza. «Plight.»
Plight: condizione difficile.
Mi rivolsi a Mitch. «Vieni a prendere una boccata d'aria?»

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