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Ogni relazione affettuosa,
anche la più temeraria,
conosce dei colpi
da cui deve guardarsi,
voglio dire delle parole
che vanno taciute,
degli argomenti
che non bisogna toccare.

Elsa Morante


Mi costrinsi a tornare lì dov'ero, a bloccare il flashback e a godermi Rivera, che era seduto di fronte a me, con le maniche della camicia alzate e qualche bottone aperto.
Lo guardai e riuscii a bloccare il ricordo di quel giorno di aprile; bloccai il viaggio che la mia mente stava cominciando a fare ed imparai a gestire la situazione, distratta dagli occhi dell'avvocato, che quella sera sembravano contenere il colore del cielo in una giornata d'agosto.
Mi persi nei movimenti ipnotici delle sue mani, nell'impercettibile movimento del suo petto che seguendo il respiro si alzava e riabbassava con una regolarità e lentezza disumana, e nel suo morbido modo di deglutire quando beveva dal calice che avvolgeva con eleganza tra le dita, bagnandosi le labbra che poi carezzava con la lingua.
I suoi occhi apprensivi colsero il disagio di quel momento e quasi ebbi la sensazione che avrebbe in parte voluto condurre la mia mente a quei ricordi che mi causavano le allucinazioni e gli incubi capaci di tenermi sveglia e terrorizzata giorno e notte per il solo gusto di me che, una volta rivissuto tramite i ricordi ciò che più mi faceva male, distrutta, glie ne avrei poi parlato, mi sarei aperta con l'uomo che poi avrebbe sfruttato quelle informazioni per portare avanti la denuncia per il figlio del direttore.
«Non sono affari suoi. Non è un caso che le riguarda.» Gli dissi. «Voglio solo risolvere la questione di Marco.»
L'avvocato annuì e lasciò perdere il discorso che lui stesso introdusse. «E cosa vuoi dire con risolvere?» Sorrise strafottente, perché conosceva le mie intenzioni meglio di me.
«Voglio che lei fermi qualsiasi procedura.» Fui ferrea.
«La questione di Marco non sarà mai risolta se tu non mi permetterai di proseguire.»
Scossi la testa. «Ma non è affar suo.»
«Sono a cena con te, è affar mio.» La sua voce profonda mi parve rimbombare per l'intera terrazza e quella frase mi colpì a tal punto da farmi credere che sarebbe stata in grado di diffondersi verso ogni orecchio di ogni commensale. Vittima dell'agitazione e del strano senso di colpa che provavo nell'essere seduta a tavola con lui, mi sembrò di sentire la sua voce rimbombare ed amplificarsi.
Seduta a tavola con un uomo sposato e di quindici anni in più di me, cominciai a sentire quella circostanza un semplice errore.
Sprofondai nel disagio, calda di vergogna e dalle mani sudaticce mi affrettai a riflettere su cosa avrei dovuto fare: ribattere alla sua presunzione sarebbe stato inutile, ma ci provai ancora una volta mentre venne servito l'antipasto.
«Lei è tenuto a rispettare il mio volere.»
Imbarazzata dal mio stesso coraggio mi mordicchiai un labbro e guardai distratta il bicchiere d'acqua con il quale presi a giocherellare. Alzai lo sguardo e cercai un tono da ruffiana. »La prego.» Lo supplicai sapendo quanto lui amasse le suppliche.
Rivera si sporse in avanti verso di me, vidi i suoi occhi passare dai miei alle mie mani, ma senza rifilare nemmeno uno sguardo effimero alle labbra che per lui stavo mordendo in un naturale e vano tentativo di seduzione.
«Tiens toi bien.» Scandì quelle parole francesi delle quali ora conoscevo la traduzione.
«Cos'ho fatto?» Arrossii e mi allontanai da lui. Non pensavo avrebbe percepito la provocazione che ai miei occhi era leggera e quasi impercettibile.
«Stupida non sei.» Sorrise prendendomi la forchetta. «Tu comportati bene, fallo per me.» Prese con la posata un boccone dell'antipasto e mi porse la forchetta. «Mangia.»
Presi in mano la posata e per un attimo sfiorai la sua pelle ruvida.
«Per quale motivo dovrei farlo per lei?» Domandai, poiché parlare con lui era un continuo chiedere spiegazioni, analizzare frasi complete ma allo stesso tempo poco chiare e rimanere con mille dubbi.
L'avvocato mi sorrise. «Ciò che ti chiedo è chiaro, tu fallo e basta.»
Masticai e poi bevvi un sorso d'acqua. «Quindi fermerà la procedura?» Cercai conferma.
«Aspetterò il momento giusto per agire.» Si perse a guardare il luccichio della luna sull'acqua del lago. «Non ho ancora sufficienti prove e testimonianze per mandare avanti la cosa senza il tuo pieno sostegno.» Mi guardò e sorrise. «So che una parte di te non desidera altro. Dobbiamo solo pazientare un po', giusto il tempo che quel tuo lato condizioni anche la parte spaventata e momentaneamente irremovibile.» Disse.
Avrei voluto ribattere, dirgli che si sbagliava e che ero talmente coraggiosa da potermela cavare da sola, ma non poteva esserci pensiero più sbagliato. Avrei voluto dirgli che non c'era nessuna cellula di me a desiderare che iniziasse quella procedura penale, ma nel subconscio non aspettavo altro.
«Tuttavia un po' ne sono rimasto deluso.» Sospirò bevendo dalla coppa il vino bianco.
Per un momento controllai se avesse appoggiato le labbra sullo stampo delle mie, ma anzi sembrò evitarlo, stracciando ancora una volta quel mio barlume di speranza. Il pomo si mosse e l'avvocato si leccò distrattamente il labbro inferiore.
Deglutii a vuoto. «Deluso?» Presi fiato. «Di me?»
Lui annuì ed io chinai il capo.
Odiavo quella frase, odiavo la delusione. Avevo vissuto anni con il terrore di deludere qualcuno, rovinandomi di ansiolitici e calmanti.
«Pensavo tu non fossi l'agnellino incosciente di quella sera, mi avevi convinto del contrario.» Si riferì al nostro primo incontro. «Ma sei così giovane che...»
Lo interruppi prima che potesse ferirmi ancora. «So quello che faccio.» Gli dissi. «Da quella sera lei mi tratta come se fossi una bambina impaurita abbandonata sul bordo di un'autostrada.»
Lui non ebbe alcun riguardo nel darmi ragione con un cenno del capo. «Non capisco dove tu voglia arrivare ostentando una maturità che nemmeno lontanamente appartiene alla tua età.» Si sporse in avanti, il suo calore mi avvolse, con un braccio si allungò verso di me e con il pollice mi accarezzò un angolo della bocca. Mi mostrò qualche briciolina dalle quali mi aveva ripulita e poi si pulì la mano nel tovagliolo.
La verità è che di fronte a lui, sarei sempre stata estremamente piccola.
«Vedi.» Cominciò a spiegarmi lui. «Il fascino di una donna matura è inevitabile, ma la bellezza della tua giovane età è irraggiungibile.» Sorrise. «La tua pelle non sarà mai più così, la tua purezza prima o poi sarà sporcata e la tua curiosità verrà frenata dalla monotonia.» Disse. «A quale scopo cerchi di nascondere la tua età?»
In qualche modo mi sentii lusingata da quelle parole.
Sei giovane, mi stava dicendo, e va bene così.
Il mio sguardo fuggì timido dal suo.
Tanto riuscivo ad essere spudorata, quanto prima o poi il mio coraggio veniva piegato dalla sua autorità.
«Quindi? A quale scopo?» Insisté.
Scossi la testa. «Lasci perdere.» Sospirai. «La prego.» Perché ogni volta che tentavo di sembrare matura lo facevo per lui, per ottenere quell'uomo che tanto desideravo convincendolo di essere grande abbastanza.
Mi avvicinò ancora la coppa con il vino che poco prima aveva toccato le sue labbra.
«Bevi.» Sorrise. «Se ne hai voglia.»
Mi accigliai. «Posso?»
Lui annuì. «Voglio farmi perdonare per tutto il disagio che ti sto creando.»
Talvolta il nostro rapporto sembrava un allenamento: faceva un passo avanti invogliandomi a farne uno a mia volta, ed arrivati ad essere vicini lui ne faceva due indietro, spronandomi ad andargli in contro.
Questa volta fui meno ingorda: bevvi posando le labbra in un punto non preciso e alzai lo sguardo per cercare il suo. Deglutii e prontamente s'avvicinò per sottrarmi il bicchiere.
«Basta così.» Disse.
Alzai gli occhi al cielo sbuffando. «Lei è infinitamente pesante.» Lo presi in giro cercando con disperazione della leggerezza, e lui mi rispose con un sorriso talmente timido da non far sbucare nemmeno un accenno delle fossette agli angoli della bocca.
Passavamo da momenti di infinita tensione ad attimi di enorme rilassamento.
«Tu sei immensamente impertinente.»
Provai ad accennargli un qualcosa che nemmeno io forse avevo ben chiaro, e che per me sarebbe stato un segnale che sapevo lui avrebbe colto. «Però non le dispiace.» Usai un tono scherzoso per mascherare il desiderio nascosto dietro quella mia frase che suonò come una domanda.
L'avvocato allora alzò un angolo della bocca, malizioso sorrise, colse il significato di quelle parole e mi rispose con orgoglio. «No, se mi piacesse non sprecherei fiato in rimproveri.» Sfilò la fede dall'anulare e cominciò a giocherellarci.
«Ma agli uomini come lei piace rimproverare.» Sostenni timida.
Lui alzò un sopracciglio. «Uhm?» Si incuriosì, si protese verso di me e poggiò gli avambracci al tavolo. «Gli uomini come me?» Domandò infilandosi la fede al dito.
Rimasi per un momento in silenzio. «Sì.» Borbottai.
Ma lui si impose. «Spiegati.»
Mi sporsi e mi allungai per afferrare il suo bicchiere, che prontamente allontanò schioccando due volte la lingua sul palato in segno di negazione.
«Non berrai più.» Sentenziò. «E ora concludi il discorso.»
Sospirai. «Non so nemmeno perché l'ho detto.»
«Oh sì che lo sai. Trova il coraggio di parlarmi sinceramente, non mordo.»
Presi fiato. «Lei forse ha una tendenza nel dominare sugli altri. Io credo che le piaccia sentirsi superiore e..» La mia voce, tra imbarazzo e disagio, sfumò nella brezza che veniva dal lago.
Sorrise comprensivo. «E per questo ti rimprovero?»
Annuii.
«Non sei su una strada totalmente sbagliata.»
Mi venne da tirare un sospiro di sollievo che lo fece ridacchiare.
«Non cerco di sentirmi superiore, ma ho una forte predilezione per il controllo.» Ammise. Ma questo già lo sapevo, ne avevo parlato con Camilla.
«Mi piace avere tutto sotto controllo, e talvolta sì, anche gli altri.» Si alzò le maniche della camicia, mangiò e si versò dell'altro vino lasciando passare interminabili minuti.
«Però non è il tuo caso.»
Si prese una pausa, si guardò attorno, ed io ne approfittai per guardarlo.
Cosa avevo fatto per meritarmi una cena con un uomo talmente bello?
Interruppe il silenzio: «tuttavia credo sia tu a gradire i rimproveri.»
Scossi la testa. «Sbaglia.» Non sbagliava, i suoi rimproveri mi piacevano, mi facevano percepire le sue attenzioni e li apprezzavo.
Rise. «È raro che io sbagli.»
«La prego.» Lo supplicai piena di vergogna.
Sapevo che quel particolare argomento, oltre che ad imbarazzarmi, mi rendeva anche molto irrequieta.
«Come hai una forte predilezione per il sentirti controllata, sbaglio?» Ne fu talmente certo.
Abbassai lo sguardo. «La smetta.» Pregai.
Affrontare sé stessi e conoscersi può essere estremamente difficile, ed accettarmi e capirmi, fu difficilissimo, ma ancor di più fu difficile il farmi andare bene che lui avesse capito chi fosse Anastasia, ancor prima che lo capisse Anastasia stessa.
Fu imbarazzante. Eppure di fronte a me avevo un uomo che aveva viaggiato moltissimo, che era estremamente aperto ad ogni cosa, e me lo aveva fatto capire accogliendo ed assecondando ogni mia stranezza.
«Sto dicendo qualcosa di sbagliato?» Insisté.
Chinai il capo, ma mai sarebbe stato abbastanza da nascondermi quanto avrei voluto fare. Sarei voluta sparire, dematerializzarmi e liberarmi dalle grinfie del suo controllo.
«Hai rimosso ogni cosa?» Chiese. «Sbaglio nel dire che avresti voluto che io continuassi?»
«La prego abbassi la voce.» Temetti che qualcuno avesse potuto sentirlo.
«Non sto dicendo niente che attiri l'attenzione. Te ne prego, stai tranquilla.»
Ci vennero portati via i piatti vuoti.
«Questo discorso non mi fa sentire tranquilla, avvocato.» Rischiai di chiamarlo per nome, ma intanto alzai il capo e sostenni il suo sguardo. «Mi sta facendo sentire anomala, e le cose anormali che io mi trascino dietro e che lei mi sta sbattendo in faccia, sono una tortura.» Fu un po' il mio modo di domandargli ora che mi ha aiutata a capirmi, le va di accompagnarmi in questo percorso? E temetti non avesse capito, ma colse così bene il significato dei miei gesti, che ricominciò a giocare con la fede, la sfilò dal dito e la fece roteare delicatamente sulla punta.
Odiavo quell'anello. Avrei voluto sparisse, come avrei voluto sparisse il legame tra lui e la donna che portava la fede con il nome di Alexander inciso all'interno.
Iniziai a capire che usasse l'anello come barriera tra noi: ci giocava ogni qual volta potesse notare del desiderio da parte mia e lo usava come promemoria per me, e forse anche per sé stesso, del suo matrimonio che cominciai ad odiare.
Dov'era sua moglie quella sera? E dov'era la sera in cui lui mi riportò a casa? Perché sua moglie non se lo teneva stretto un uomo così? Perché lui non me ne parlava mai?
Lei forse era talmente fortunata da potersi permettere di non goderselo ogni giorno, mentre io avrei invece passato con lui ogni secondo che ci sarebbe stato concesso.
«Non essere presuntuosa, non conosci tutto quello che ti serve sapere. Esistono moltissime donne come te.» Si allungò per mettere in ordine qualche ciocca ribelle che mi era caduta davanti al volto.
Mi offesi talmente tanto nel sentirmi generalizzata, che nemmeno lo lasciai finire. «Non è quello che volevo sentire.» Lo rimproverai facendolo sogghignare.
Quando passavo da timida a spavalda lo faceva sempre sorridere.
«Con questo voglio dire che non è nulla di inappagabile.» Disse rimettendosi a posto l'anello.
«Però è più difficile da capire.»
«Mh?» Si corrucciò. «I tuoi gusti sono difficili da capire?»
Annuii.
«Per quanto mi riguarda la banalità è molto più difficile da capire.» Sorrise.
Vaghi stavamo reggendo un discorso che solo noi avremmo capito.
Sperai stesse accettando il mio invito, ma quando mi persi a riflettere con maggiore lucidità capii non sarebbe mai successo.
Un uomo sposato non mette a rischio il proprio matrimonio per una ragazzina impertinente, me lo ripetei all'infinito. Un uomo sposato non vuole una ragazzina impertinente. Un uomo sposato non vuole una ragazzina impertinente. Un uomo sposato non vuole una ragazzina impertinente.
Ferita dalle conclusioni che io stessa mi ero data, sospirai con lo sguardo perso nel piatto.
Rivera ridacchiò. «Ora cosa succede?»
Fui certa avesse capito stessi pensando a lui, ma non glie l'avrei mai ammesso.
Indicò il piatto. «Non ti piace?»
«No, no.» Scossi la testa. «È tutto perfetto.»
Guardai il piatto lasciato ancora come mi era stato portato.
L'avvocato allungò una mano, con la sua forchetta prese un boccone e me lo avvicinò alla bocca.
«Forza, allora.» Mi disse. «Mangia.»
Con le labbra avvolsi la posata sulla quale certamente anche lui aveva appoggiato le sue, e con lo sguardo perso masticai. Ne prese un altro e questa volta lo afferrai con i denti, e sotto i suoi occhi attenti masticai e deglutii.
Averlo vicino era difficile. C'erano in ballo troppe emozioni, anche contrastanti; aveva il sopravvento sulla mia lucidità. e poi con lui erano molto più frequenti i déjà-vu, per non parlare della questione ormonale; impazzivo e regredivo nella voglia di una sedicenne alle prime armi.
Per un momento mi accorsi di essere circondata da altre persone, e allora gli impedii di imboccarmi una terza volta, presi la mia posata e cominciai a mangiare da sola.
«Hai deciso di fare la bambina grande?» Mi prese in giro dopo quella mia -sebbene lieve- ribellione alle sue attenzioni.
Offesa ricambiai. «Lei però non ha ancora deciso di essere simpatico.»
Mi sorrise. «Simpatico? Vuoi che io sia simpatico?»
Sforzai il più falso dei miei sorrisi. «Almeno un po', la prego di provarci.»

Princeps LuxuriaeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora