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Chiamo intelletto ciò con cui
l'anima riflette e concepisce.

Aristotele


Come eravamo finiti a mezzanotte in un locale di Milano, a bere e a parlare della mia vita, non lo sapevo, ma ormai Mitch era mezzo addormentato sulla poltroncina del locale e Adele, con i gomiti poggiati al tavolino e protesa verso di me, era intenta ad interrogarmi sul mio incontro con l'avvocato.
«Gli hai fatto intendere di volerlo conoscere meglio chiedendogli di parlare.» Dedusse.
Adele e Mitch passavano così tanto tempo insieme che avevano lo stesso modo di parlare, ripetevano le stesse frasi ed erano simili nel lessico, ma lei gesticolava con maggiore sensualità e intravedeva i significati nascosti dietro anche alle piccole cose; mentre lui era meno profondo nell'analisi dei dettagli e giungeva direttamente al dunque, dando al discorso una sottile e pungente vena di ironia.
Sapendo che già le fosse chiaro non le risposi, e misi in bocca un'oliva verde che fino a prima aveva sguazzato nel Martini.
«E lui cosa ti ha detto?»
«Ha detto che stavamo già parlando. Ma lo sapeva bene cosa intendessi: lui è bravo nella lingua, e analizza bene le parole.» Mi sciolsi un po' e cercai di spiegarle il contenuto del nostro discorso. «Mi ha dato dell'incoerente.»
Lei mi interruppe e ammise con delicatezza. «Un po' lo sei.»
Sorrisi. «Sì.» Mi stirai i muscoli stanchi e sbadigliai. «L'avvocato mi ha detto che crede si tratti di un momento soltanto in cui vedo in lui una forma di protezione, e quindi nonostante mi innervosisca il suo carattere corro al riparo da lui quando sono spaventata, perché quella volta che mi sono trovata in una brutta situazione c'era lui ad aiutarmi.» Sospirai. «Deduco lui giustifichi la mia attenzione come se si trattasse del bisogno da ragazzina di sentirsi protetta e rassicurata durante un momento difficile.»
Mitch si svegliò per un momento dalla dormiveglia: «forse crede che a te piacciano le sue attenzioni anziché la sua persona.»
«Tu glie l'hai detto che si sbaglia?» Chiese Adele, senza controbattere al marito.
Annuii. «Sì, certo.»
Mitch si incuriosì. «Ti ha detto altro?»
«Mi ha detto che lui non sbaglia mai.»
Adele storse il naso. «Presuntuoso il ragazzo.»
Il moro si sistemò sulla poltrona, ora sveglio e concentrato sul mio racconto. «Spero tu gli abbia risposto a tono.»
Silenzio.
Socchiusi gli occhi e rividi la lingua dell'avvocato muoversi e battere sui denti, le labbra unirsi che subito si staccano nel labiale della M, poi di nuovo battono sui denti, si uniscono ancora, e la lingua tocca il palato.
Dimostramelo.
Era tutto lucido e nitido, quasi inquietante.
Deglutii e abbassai lo sguardo intimorita soltanto dall'immaginarlo di fronte a me. «Mi ha chiesto di dimostrarglielo.»
Mitch borbottò distrutto. «Mi auguro tu l'abbia mandato a fanculo.»
Ma Adele restò calma, inclinò il capò e si corrucciò, ignorando il marito. «Cosa gli hai risposto? E poi, cosa significa dimostrarglielo?»
Il tono di Adele era mille volte più dolce di quello di Mitch. Lei era ancora sveglia, lui probabilmente si sarebbe addormentato di lì a poco; lei cercava di non offendermi in nessun modo, mentre lui mi dimostrava affetto con le offese. Due persone completamente diverse che rappresentavano alla perfezione gli stereotipi dei sessi maschile e femminile nel momento di un dibattitto.
Andiamo al sodo, diceva lui tra le righe, ma no, voglio sapere i particolari, rispondeva lei in silenzio.
Adele era una ragazza un paio d'anni più giovane di Mitch ed era figlia di una fisica tedesca e di un pastore protestante norvegese. Aveva i capelli bianchi che le arrivavano alle spalle e gli occhi caratterizzati dall'eterocromia dell'azzurro e del castano. Le labbra sottili e il naso piccolo tra i lineamenti nordici e la pelle pallida.
Era una bella ragazza dal carattere forte e combattivo, dall'estetica particolare e difficile da ritrovare nei lineamenti delle donne italiane. Mitch l'aveva detto da subito che nessuna le sarebbe mai somigliata, e aveva ragione.
«Sì.» Risposi una volta ripresa dalla trance.
Mitch paciò e parlò interrompendo uno sbadiglio: «Sì cosa?»
«Sì. Gli ho detto di sì.»
Adele si batté il palmo sulla fronte e lui sorrise tra l'estasiato e l'incredulo. Ciò che per lei era una catastrofe, per lui significava sì, un vero e proprio disastro, ma che era anche dannatamente intrigante, divertente e interessante.
Tre erano le mie priorità: parlare con Camilla, trovare modo di rivedere l'avvocato, e risolvere la faccenda di Marco.
Con Camilla non sarebbe stato difficile parlare, bastava accennarle l'argomento e lei si rispondeva da sola alla maggior parte delle domande. Era una donna intelligente, non le veniva difficile entrare nella testa delle persone e comprenderne i pensieri e i ragionamenti.
Mi avrebbe capita, e alla fine mi avrebbe fatta ridere per smorzare la serietà dell'argomento.
Rivedere l'avvocato però, sarebbe stata impresa ben più ardua. Avrei dovuto studiare una buona scusa per chiedergli di incontrarci, sì, ma quale?
Usare Marco come scusante sarebbe stata una buona idea? Forse avrei risolto due problemi in uno, ma valeva la pena raccontargli un particolare così delicato della mia vita solo per passare con lui qualche minuto?
Avrei dovuto trovare una scusa migliore: lui era troppo bravo a manipolare, ed io troppo indifesa di fronte a lui per potermi permettete di mettergli in mano una cosa così grande.
E poi Marco. Quella settimana era in ferie, e forse sarebbe stato il momento adatto per parlarne con l'avvocato senza che lui facesse qualcosa di troppo rischioso per me.
Ma volevo davvero parlarne con qualcuno e risolvere il problema?
Combattuta tra uno stupido imbarazzo per l'essermi lasciata toccare e per la consapevolezza di quanto bene mi pagassero per quel lavoro, e al contrario la voglia di voler fuggire dalle viscide mani di Marco e metterlo alla luce per ciò che realmente era, decisi di aspettare.
Non ero forte come mostravo di essere. O meglio, credevo che forza significasse stringere i denti e resistere, tenere privato ciò che privato sarebbe dovuto essere e sopportare fino a quando tutto sarebbe finito; credevo che forza fosse dimostrare agli altri di non avere problemi, ma mai ero stata debole quanto in quel momento.
Forza, sarebbe stata il coraggio di parlare di me, di parlare delle mie difficoltà e affrontarle una ad una.
Io i problemi li lasciavo lì a macerare come un vino, li ignoravo e li sotterravo sotto tutti gli altri pensieri ridotti in macerie fino a dimenticarli, senza sapere che al primo momento difficile sarebbero tornati tutti a galla, perché l'unico modo per liberarsene era l'affrontarli e annullarli.
Ma non c'era debolezza più grande del silenzio che io credevo mi rendesse forte.
Decisi di aspettare per paura. Aspettare che accadesse di nuovo, e che la situazione peggiorasse.
Ne sei sicura? Sì, ne sono sicura. E pensi di poter sopportare qualsiasi cosa Marco possa farti la prossima volta? Sì, posso farcela. Non temi sia pericoloso? Paura? Sì, ne ho tantissima, ma spero che le sue toccate siano graduali, e che se fino ad ora ancora non si è spinto oltre, nemmeno la prossima volta lo farà.
Adele schioccò le dita a pochi centimetri dal mio volto. «Ana, mi segui?»
Annuii. «Sì, certo.»
Lei si mise le mani ai fianchi e si protese verso di me assottigliando lo sguardo da maestrina. «E allora mi ripeti cosa ti ho detto?»
Sorrisi. «Non lo so.»
Per quanto lei tentasse di trattenersi, le venne spontaneo riflettere il mio sorriso e un risolino le uscì dalle labbra bagnate dal Martini Dry che aveva bevuto dal bicchiere del marito.
«Non fa niente, non era importante.» Buttò all'indietro il capo per liberarsi le spalle dai capelli bianchi ossigenati. «È meglio andare, domani dobbiamo lavorare tutti e tre, tu sei abbondantemente stanca e confusa, io sono distrutta e devo guidare, and Mitch is tipsy enough» disse alzando il tono nel momento in cui si rivolse al marito.
Mitch è brillo abbastanza aveva detto, e sperava di essere ascoltata dal diretto interessato con maggiore attenzione, se avesse parlato la sua lingua madre.
Il ragazzo si sollevò con fatica, le passò gli occhiali da sole che aveva appoggiato al tavolo e lei li infilò nella borsa come una mamma con i giochi del figlio.
«Dude!» Mitch imprecò e si stropicciò gli occhi.
Entrambe lo conoscevamo abbastanza da sapere che quando beveva troppo o era stanco, tendeva a parlare in inglese, ed io il suo slang americano l'amavo: mi sapeva d'estate, di mare, di sole e spensieratezza.
Il suo dude, ad esempio: ancora dovevo capire cosa significasse, ma lui lo usava per descrivere una persona, per chiamare un amico o per una qualsiasi esclamazione.
Mitch Reed non era Mitch Reed senza il dude.
Sospirai mentre si dilagava nel mio petto una strana mancanza. Era quasi estate, eppure sentivo freddo ovunque, ed ero stanca, più del solito.
L'alcol. Diedi tutta la colpa a lui.
E intanto nemmeno quella notte dormii.
Contai poche auto: meno di cinquanta. D'altronde eravamo in giorni lavorativi.
Merlino mi dormiva vicino ma non riempiva abbastanza il vuoto nel mio letto matrimoniale, e quasi mi venne spontaneo andare a dormire sul divano, dove sarei stata più stretta, e forse avrei potuto credere di non essere sola.
Abbracciai il batuffolo di pelo nonostante il caldo, gli baciai la testa e aspettai.
Arrivò l'alba, ed io smisi di contare. Merlino mi mordicchiò le mani, come ogni mattina, ed io mi alzai dal letto di scatto, quasi fossi stata impaziente che quella nottata finisse.
Mi sentivo vuota, come se a metà, e nel mio petto un peso mi rendeva il respiro una fatica.
Ingoiai l'ansiolitico e preparai un caffè accompagnata da un tenero sgranocchiare, mi preparai per il lavoro e uscii di casa.
Quando arrivai Mitch era già circondato dalle gallinelle, teneva un caffè in mano e aveva delle occhiaie degne di nota sì, ma non migliori delle mie. Beveva il caffè e in volto aveva fisso un sorriso tirato, poi annuiva e con una mano si grattava il collo, segno fosse impaziente di andarsene.
Sul display del cellulare lessi l'anteprima di un messaggio e imprecai sotto voce.
Era stato risolto un importante affare e il nostro signor viscidone Rubini aveva deciso come al solito suo di offrirci una cena.
Un altro messaggio, ma questa volta di Mitch.
«Un'altra cena con queste donne mi fa venire voglia di tagliarmi le palle.»
Sorrisi. Sorrisi e pensai, dimenticandomi delle lamentele del mio amico.
Sarebbe venuto anche l'avvocato Rivera? Valentini, il legale che aveva lasciato ad Alexander la delega, partecipava ad ogni nostra cena quando era in buona salute.
Per un attimo l'idea dell'avvocato sotto gli sguardi voraci delle mie colleghe mi innervosì, ma non potevo essere gelosa di lui, non potevo proprio permettermelo.
Un nuovo controsenso mi balenò per la testa: avrei portato dei tacchi, i più alti che avevo, ed indossato un vestito nella giusta via di mezzo tra il sensuale e l'elegante. E poi sarei stata spavalda e sicura di me, dimostrandogli di essere abbastanza forte da resistere alla sua presenza.
Pensai ancora. Il mio primo incontro con l'avvocato era stato proprio per una delle cene di lavoro, era stata una giornata a dir poco orribile, una cena squallida terminata nel peggiore dei modi, ed io ero tornata a casa a piedi in un orario pericoloso passeggiando per strade pericolose. Avevo il cellulare scarico, pochi soldi nella pochette e il trucco rovinato quando lui si era accorto di me, si era preso cura di me e mi aveva riportata a casa.

Princeps LuxuriaeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora