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Non c'è giorno
in cui il cuore non consumi
battiti d'insensato smarrimento.

Teo Caraiman


Camilla prese una manciata di arachidi dalla ciotolina poggiata sul bancone del locale.
«Nient'altro di interessante?» Domandò ancora sgranocchiando.
Mitch scosse la testa divertito. «Lei mi ha dato del traditore e mi ha detto che alla prossima parola che spiccico a Rivera mi stacca l'amichetto.» Sorrise. «Poi l'avvocato è uscito e mi ha chiesto di lasciarli soli.»
La stessa notte della cena, quella tra il sabato sera e la domenica mattina, ci trovavamo in uno dei locali più popolari di tutta Milano, nonché il preferito di Camilla, in mezzo ad una marea di gente, accecati dai led viola e blu, seduti al bancone a parlare della cena spendendo un rene per dei cocktail più che meritati.
«E una volta soli cos'è successo?» Mi viene chiesto.
Ora tocca a me raccontare, prendo fiato e butto giù un sorso di Cosmopolitan.

Mitch ed io stavamo discutendo -come chiunque faceva con lui non appena apriva bocca- quando l'avvocato Rivera uscì dal ristorante a cercarci.
«Qual è il problema?» Domandò.
Questa volta Mitch rifletté prima di dare risposte avventate che mi avrebbero messa ancor più a nudo di fronte a Rivera, e rimase zitto, aspettando fossi io a parlare. Io, che quando l'avvocato mi era vicino, perdevo ogni facoltà: le gambe dimenticavano come fosse reggere il corpo e come muoversi per camminare, mentre la bocca tutto voleva fare tranne che proferire parola.
«Va tutto bene» balbettai io, ricordando per un attimo soltanto come muovere le labbra.
L'avvocato guardò Mitch. «Vai dentro, sto con lei.»
Rivolsi un ultimo sguardo complice a quello sporco traditore del mio amico che, conoscendo la mia strana attrazione verso quell'uomo, annuì e se ne andò quasi ridendo.
Ti senti intelligente Mitch? Ti credi forse simpatico?
Contrariata dal comportamento di Mitchell Reed -nome completo in segno di disprezzo- feci roteare gli occhi che per un momento si impigliarono nella lucentezza della luna, giusto il tempo prima che io mi accorgessi invece della bellezza dell'uomo che mi stava di fronte e che con compassione mi osservava.
«Qualcosa non va, e io voglio sapere cosa.» Concesse del contatto tra noi carezzandomi la guancia con velato languore.
Odiavo essergli di così facile lettura. Odiavo sentirmi trasparente di fronte a lui e odiavo la sua pietà nei miei confronti.
Certo che qualcosa non va, mi hai fatto ricordare delle mani di Marco sul mio corpo, e Marco ti stava seduto accanto. Avrebbe potuto capire ogni cosa, e giurerei di aver visto della malizia nei suoi occhi nel momento in cui ha notato la mia reazione alle tue attenzioni.
E tu. La tua presenza mi turba più di qualsiasi altra cosa.
«Le ho detto che non ho niente.» Brusca nei toni, feci per allontanarmi da lui e rientrare nel locale.
Ancora la sua mano mi prese il polso, e con uno strattone mi fece tornare di fronte a lui.
«Mi fa male», tentai di piagnucolare, ma dalle mie labbra uscì quello che sembrava essere quasi un ansimo.
«Temo che il tuo orgoglio sia per te autodistruttivo.»
Gli rivolsi una smorfia arrogante. «Lei che teme qualcosa? Mi delude, avvocato.»
Ed eccolo il mio bipolarismo. Lui mi portava agli estremi del mio carattere: prima il lato docile ed anzi impaurito, e poi quello ribelle, quasi tendente all'aggressivo.
Sorrise, quasi avesse previsto un mio repentino cambio di carattere.
«Non credo di aver mai negato, piccola Anastasia, di avere un innato istinto nel proteggere una ragazzina in difficoltà.» Così lui mi rimise al mio posto, dimostrando superiorità.
Non mi aveva chiamata «piccola» come gesto di dolcezza, l'aveva anzi usato per farmi sentire tale di fronte a lui. Piccola, piccola e indifesa.
Abbassai lo sguardo borbottando un «non sono una ragazzina in difficoltà.»
La sua manipolazione funzionava su di me perché io glie lo permettevo, ma non mi sentivo in pericolo, e nulla mi portava a desiderare di staccarlo dalla mia mente.
Quel legame che c'era tra la mia mente e la sua, il modo in cui lui riusciva ad intrufolarsi nella mia testa con una tale facilità, non erano umani.
«Sei una ragazzina in difficoltà che inconsciamente mi chiede aiuto.» Mi corresse.
Si sbottonò con una mano i primi due bottoni della camicia scoprendo la V che nasceva all'unione dei pettorali. «E io che so cosa ti sta succedendo, mi sento in dovere di aiutarti.»
Ingoiai a vuoto. Era ovvio che lui avesse capito io stessi parlando di me. Il mio comportamento mi smentiva secondo dopo secondo ed io non avevo più voglia di negare, forse per salvare la mia dignità ai suoi occhi, o forse per confermare avessi bisogno d'aiuto.
Mi spostò i capelli dietro all'orecchio.
«Perché meriti come tutti di essere trattata bene.»
Un nuovo impeto di rabbia, per difendermi da tutta quella fragilità che mi sentivo addosso. «Lei vuole solo i miei soldi», lo accusai puntandogli un dito contro.
Ma lui mi prese l'indice nel palmo che poi racchiuse una mia mano, la bloccò nella sua presa che scivolò fino al polso e con una sola mano tenne ferme le mie che portò sopra alla mia testa, a contatto con il muro.
Adesso non sono più le mie gambe a reggermi in piedi, ma è la parete a sostenermi. La mia schiena parzialmente scoperta dal tessuto del vestito tocca il muro, ogni mia forza mi abbandona il corpo mentre il suo è quasi addosso al mio, ed io non posso proteggermi da lui, poiché entrambi i miei polsi sono bloccati in una sua mano, alti sopra alla mia testa, a contatto con il ruvido della parete.
La sua camicia si tende lungo l'avambraccio e il fianco del braccio si allunga su di me impedendomi di muovere le braccia, il suo corpo mi è vicino, a tal punto che sento il suo fiato piovermi sul volto, e con la mano libera mi prende il mento tra il pollice e l'indice costringendomi ad alzare il volto, così che i miei occhi si trovano impigliati nei suoi come se finiti in un rovo di more: pungente ma dai frutti dolci.
«Non provarci nemmeno» fece una pausa facendo appello a tutta la sua calma, «ad attaccarmi con la tua finta arroganza.» Si avvicinò ancora, tra le mie gambe sentivo la sua coscia premere. Era talmente vicino che se avessi avuto qualche forza in più, meno pudore, e un attaccamento alla dignità nullo, gli sarei piombata sulle labbra sporgendo semplicemente il collo, senza fatica.
Notò le mie gote diventare rosse e mollò le mie braccia. Portai le mani sul suo petto che con regolare lentezza si alzava e si abbassava.
Non avevo le forze di spingerlo via da me e infondo non era nemmeno ciò che volevo. Con lui mi sentivo protetta, e per continuare a sentire quella serenità che la sua vicinanza mi dava gli sarei stata vicina anche tutta la vita.
Il suo profumo piegò l'ultima parte di me che gli voleva ancora porre resistenza.
«Non voglio i soldi di una ragazza che da nemmeno un anno ha trovato un buon lavoro. Voglio aiutarti ad uscire da una situazione che da sola non riesci a controllare e che può nuocere alla tua salute fisica e mentale. Il mio guadagno è il vederti al sicuro.»
Stordita borbottai qualcosa che nemmeno io sapevo di star dicendo, che lui non capì, e che nemmeno ricordo.
«La cena.» Riuscii poi a dirgli, come una supplica del ritornare al tavolo, in mezzo alle persone, l'uno di fronte l'altro e senza tutta quella vicinanza che sempre più mi confondeva.
«Non ho finito.» Poggiò una mano al muro, a pochi centimetri dalla mia testa. «Se succede ancora qualcosa devo saperlo. Chiaro?»
Annuii.
Avevo le labbra schiuse e umide, attonita facevo passare lo sguardo da un suo occhio all'altro. Era bello in tutta quella sua autorità virile, ed era impeccabile, proprio come lui si imponeva di essere.
«Rispondi.» Austero pretese risposta.
Tentai di controllare il respiro, cercai la voce, ricordai i movimenti che la mia bocca avrebbe dovuto fare e lasciai che l'aria passasse tra le mie corde. «Sì.»
A quel punto l'avvocato Rivera si allontanò da me liberandomi. La sua gamba smise di premere sulla mia intimità che quasi ne sentì la mancanza. Solo allora mi accorsi di quanto beneficio traevo da quella timida unione e di quanto palpitassi di eccitazione. Lui se n'era accorto? Poteva sentire quanto gli stessi pulsando addosso?
Il suo fiato smise di scaldarmi il volto e le gote mi si raffreddarono di poco mentre le mie mani scivolarono via dal suo petto fino a ricadermi inermi lungo ai fianchi.
Mi mise una mano dietro alla schiena con fare protettivo e mi diede una leggera spinta verso l'ingresso.
«Ne parleremo nei prossimi giorni.»

Camilla si protese verso di me con le braccia conserte al petto che intanto avvicinavano tra loro i seni, i quali con eleganza si intravedevano dalla scollatura della maglia, alti e stretti.
«E la cena? Come è andata avanti?»
Mitch sorrise. «Secondo me c'è intesa.»
Ma io, che di certo non potevo dar ragione a Mitch, «a me non sembra», dissentii.
Adele invece era stanca, probabilmente di lì a poco sarebbero arrivati quei cinque giorni del mese in cui sarebbe stata inavvicinabile.
«Cos'avete mangiato?» Chiese quest'ultima, confermando la mia teoria del pre-ciclo: quando oltre ad essere nervosa, pensava solamente al cibo, era prossima alle mestruazioni.
Mitch presentò con fierezza il menù a base di pesce direttamente pescato dal Naviglio Grande a sua moglie che si ingozzava di arachidi e patatine.
Camilla mi toccò lievemente il braccio. «Raccontami» sussurrò.
Sorseggiai il cocktail. Non c'era più molto da raccontare.
Solo di qualche occhiata, di quanto bello fosse l'avvocato, di come si fosse premurato che io mangiassi, di quanto Marco fosse infastidito dalla sua presenza e di quanto disumano sembrasse l'aspetto di Rivera.
Disumano sì, perché nulla sembrava appartenere ad un uomo: non il suo controllo, non il suo essere impeccabile, la bellezza oggettiva tale da meritare la stessa Venere accanto, non il suo profumo e tanto meno la sua voce.
La calma che mi invadeva dalla testa ai piedi quando l'avevo accanto nemmeno, era cosa normale.
Solo un dettaglio meritava qualche attenzione in più: la fede d'oro bianco.
Con quella lui giocherellava ogni qual volta parlasse con me, involontariamente. Mi fissava dritto negli occhi con sguardo pieno d'interessa mentre con una mano giocava con quell'anello.
«L'avrà fatto per farmi capire di essere off limits.»
Mitch si intromise. «Troppe attenzioni e troppo contatto per essere un uomo sposato e devoto alla moglie.»
Camilla però non sembrava chissà quanto convinta dalle sue parole.
«Se è un uomo che di manipolazione, menti e psicologia se ne intende, saprà che portare Anastasia al limite e provocarla fino a farla cedere, sarà più facile per lasciare che lei si apra con lui e gli faciliti il lavoro.»
Mi offesi. Odiavo quando parlavano di me come se fossi una piccola sprovveduta, e ancor di più quando fingevano non fossi con loro ad ascoltare i discorsi fin troppo sinceri.
«Guardate che sono qui.» Sbuffai. Ma nessuno dei due parve sentirmi.
Mitch si voltò verso Camilla dando per qualche secondo le spalle alla moglie.
«E dunque non sarebbe stupido piazzarle di fronte la prova del matrimonio? Così lei si allontanerebbe e basta», disse lui.
«No Mitch, non capisci. Vuole che lei sia attratta da lui a tal punto da non resistergli più, ma allo stesso tempo farle intendere che da parte sua non ci sarà niente. Così lei, fidandosi, si confiderà e si lascerà aiutare.»
«Certo, Miss psicologia, ma non vedo da parte dell'avvocato quel comportamento da uomo sposato.»
Adele si intromise per sfottere il marito: «è addirittura peggio di te?»
«Decisamente peggio di me.»
Lei agitò una mano in aria in un gesto di noncuranza. «Allora no, non può essere sposato.»
Tirai un sospiro di sollievo mollando il fiato che avevo trattenuto per una strana agitazione.
Ma Camilla odiava darla vinta a Mitch. «Non tutti gli uomini sposati sono fedeli alle mogli.»
Adele le piazzò il palmo di fronte a zittirla. «Sono affari di Anastasia. Più voi le starete addosso, meno lei vi parlerà della sua vita.»
Che tu sia benedetta, Adele Håland Wagner.

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