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Eppure resta
che qualcosa è accaduto,
forse un niente
che è tutto.

Eugenio Montale


«Ho delle all star nere.» Mentii.
«Non sopporto le bugie.» Il suo tono divenne un po' più brusco, forse per controllare il nervosismo che io avevo innescato con quell'ostentato coraggio.
«Non è una bugia.» Lo sfidai.
Lui si adagiò alla sedia, poggiò una caviglia sul ginocchio della gamba opposta ed il tessuto dei pantaloni si stirò sulle cosce.
«Alzati e vieni qui.» Comandò austero. Amava dare ordini.
A braccia conserte attese che io mi alzassi e gli andassi vicino.
Ma si è mai sentito di un cerbiatto che corre incontro al cacciatore? Ebbene io non volevo muovermi, non volevo ancora dargliela vinta. Volevo giocare con lui per un altro po'.
«Perché non viene lei?» Chiesi fingendomi pigra.
«Perché è da quando sei arrivata che faccio avanti e indietro per te. Non vorrai mica farmi stancare?» Sorrise arrogante. «Quindi ora alzati e vieni a farmi vedere le tue Converse.»
«Non credo basti farla alzare un paio di volte dalla poltrona per farla stancare.» Ignorai l'ordine.
Lui si accigliò. «Da cosa lo deduci?»
«Dal suo modo di fare. Lei mi sembra instancabile.»
Rise. L'aveva intesa nel modo corretto. «Non è importante questo. Io voglio tu venga qui così che possa vedere che hai rispettato l'unica cosa che ti ho detto di fare.»
Lo ignorai ancora. «Perché le interessano le scarpe che porto?»
«Perché mi piace che le persone eseguano le mie richieste.»
Richieste fu soltanto un modo carino per intendere ordini.
Coraggiosa mi alzai e gli andai incontro. Il ticchettio dei tacchi riecheggiò nella stanza della quale le pareti mi parvero amplificare un qualsiasi suono.
Potevo sentire i miei respiri irregolari, il battito agitato e la stoffa del vestito strofinare sulla pelle.
Mi fermai ad un metro da lui, bloccata dai suoi occhi che rivolti verso terra osservavano le décolleté che, dopo quelle che si erano rotte la sera del nostro incontro, erano diventate le mie preferite.
«Le piacciono?» Mi permisi di prenderlo in giro.
Irremovibile batté una mano sulla scrivania. «Siedi qui.»
«No.» Scossi la testa.
Si alzò. Mi superava di una buona trentina di centimetri.
Con un passo soltanto mi fu sufficientemente vicino da lasciare che il suo respiro cadesse sul mio volto. Con le mani mi accarezzò i fianchi, li strinse e in un attimo mi ritrovai con i piedi sollevati da terra e il sedere premuto contro la superficie della scrivania.
«Avevo detto di no.» Incrociai le braccia al petto e guardai in basso scappando dai suoi occhi severi.
«Non credi di aver disobbedito abbastanza per ora?» Tra l'indice ed il pollice mi prese il mento costringendomi a tenere la testa alta, e con l'altra mano mi scoprì il viso scostando le ciocche di capelli mori che lo coprivano.
Il suo profumo mi avvolse. Riuscii a sentire il calore del suo corpo, l'odore della sua pelle e del suo fiato; ancora sentivo il segno della presa delle sue mani sui miei fianchi che con forza mi avevano stretta per sollevarmi e mettermi seduta alla scrivania.
«No.» Incrociai le braccia al petto chinando il capo per impedire che notasse le mie gote rosse per l'imbarazzo. Non gli avevo disobbedito a sufficienza, ma l'adrenalina della mia piccola ribellione venne contrastata dalla vergogna per ogni sua ramanzina.
«Ma perché ti ostini a fare l'arrogante se poi arrossisci ad ogni rimprovero?»
Avvampai. Era possibile avesse una frase per ogni situazione, capace di farmi sentire piccola come un granello di sabbia?
Appoggiò una mano al mio ginocchio ed io lo lasciai fare; lasciai che scivolasse fino alla caviglia che poi strinse per sollevarmi il piede.
Appoggiò la suola alla sua coscia e cominciò a slacciare il laccetto.
Tolse la scarpa e lo stesso fece con l'altra.
La mia mente vagò fino al ricordo della sera in cui lo conobbi. Mi aveva tolto i tacchi dopo che uno si era rotto facendomi cadere proprio sotto ai suoi occhi, si era preso cura di me come nessun uomo aveva mai fatto.
Lui mi parlò, e tornai con la mente al presente in cui mi trovavo seduta alla sua scrivania e mi stavo lasciando sfilare le décolleté da lui.
«Quando imparerai ad obbedirmi inizieremo ad andare d'accordo, Anastasia. Te lo prometto.»
Il mio nome detto da lui l'avrei ascoltato per ore.
D'istinto allungai una gamba verso di lui e spinsi la pianta del piede scalzo sulla sua coscia cercando disperatamente un contatto tra noi. Mossi il piede sulla sua gamba mentre incuriosito tentava di capire cosa stessi facendo, ma soprattutto a quale scopo.
Stavo solo giocherellando con lui, stavo giocando con il contatto che era tra noi e che tanto avevo desiderato, e intanto stavo pensando a come farlo innervosire.
Mi andava soltanto di toccarlo, e lo stavo facendo senza aspettare il suo consenso.
Riflettei sul da farsi: necessitavo di un metodo veloce per farlo arrabbiare, asservita dalla curiosità di sapere come sarebbe stato l'avvocato Alexander Aaron Rivera senza il suo forte autocontrollo.
Chi era quell'uomo che avevo davanti, una volta spogliato di tutti quei freni?
«Posso scendere?» Finsi un tono seccato.
In realtà mi piaceva perdere tempo con lui: voleva dire che io meritavo il suo tempo anche negli attimi inutili, come quello.
«No.» Disse. Misi in dubbio sapesse altre parole oltre il no, ma questo poco mi importava.
Scesi comunque, mi sistemai il vestito che era salito scoprendomi le cosce e cercai di infilare un piede nella décolleté.
«Stai attenta Anastasia, rifletti.»
«Sto riflettendo, avvocato.» Il mio piede scivolò nella scarpa, e appoggiandomi con la mano alla sua spalla cercai di infilare la seconda.
Sorrise, impassibile. «Cosa stai cercando di fare?»
«Conoscerla.»
«Allora fermati e togliti quelle scarpe. Solo chi mi dimostra di meritarlo può conoscermi.»
«Lei non si pone la domanda se merita di conoscermi?» Mi piegai per allacciare i laccetti delle scarpe e lasciai senza pudore che il vestito si sollevasse fino ai glutei.
D'un tratto lui mi venne vicino, si piazzò di fronte a me e avanzò mentre io tentavo di arretrare e allontanarlo con una mano che innocua gli premeva sul petto.
Avanzò ancora, sentii ogni nota del suo profumo, il mio corpo era contro al suo, lui venne avanti mentre io finii con le natiche appoggiate allo spigolo della scrivania sulla quale lui poggiò una mano impedendomi di fare un passo avanti.
Venne ancora verso di me, mi girò con uno strattone rude, la mia intimità si strofinò sullo spigolo del mobile, mi sollevò appena e le mie scarpe non ancora allacciate si staccarono dai miei piedi e caddero a terra.
Mi sistemò sull'angolo della scrivania mentre con un braccio mi stringeva il collo.
«Impara a cedere, agnellino.» Mi sussurrò all'orecchio.
Ansimai, cercai di spostarmi da quella posizione scomoda, ma lui mi teneva salda tra sé e l'angolo. Muovendomi per la vana ribellione peggiorai soltanto il mio stato; un calore improvviso invase la parte bassa del mio ventre e i seni si gonfiarono sotto al respiro affannato.
Morsi il labbro.
Ogni movimento aumentava quel calore all'inguine.
Per quanto ancora potrò resistere? Mi chiesi.
Avevo freddo, ma anche caldo, e volevo spostarmi da lì per scappare via, ma anche restare stretta a lui e lasciarlo giocare.
Ora la mia intimità premeva con forza sull'angolo, il suo braccio era attorno al mio collo mentre io mi trattenevo con ogni mia forza dal gemere. Dolcemente mi mosse e un ansimo mi scappò di bocca.
Di scatto si staccò da me.
Solo quando mi fu lontano mi accorsi di quanto piacevole fosse stato il nostro contatto.
«Datti una sistemata ora.» Divenne freddo.
Arrossii. In quel momento ricordai le nostre differenti posizioni. Ricordai quello che ero io e quello che invece era lui, e provai solamente vergogna per il modo in cui mi ero fatta trattare e per come l'avevo sfidato.
Una ragazza timida che per compiacerlo si finge sfacciata, e che si lascia fare una qualsiasi cosa da un uomo che nulla di più del proprio aiuto le aveva offerto.
Aveva capito cosa volessi fare, e allora penso a usare il mio stesso gioco contro di me: fu lui a portarmi al limite fino a farmi perdere il controllo, e l'aveva fatto per punirmi, perché io non potevo permettermi di giocare con lui, non potevo permettermi di non rispettare i suoi ordini e tanto meno di prendermi gioco di lui.
Quel gemito fu la prova del mio controllo che lui mi fece perdere ben presto, e la freddezza successiva fu il segnale che quello non era stato nulla per lui, ma solo un modo per dimostrarmi che tra i due ad avere il controllo fosse lui, e che io dovevo starmene al mio posto.
La vergogna dell'aver ceduto così presto, e l'insoddisfazione lasciatemi nel momento del distacco, furono la mia punizione per avergli disobbedito. Nulla di più.
Sconfitta, ancora accaldata, imbarazzata e confusa, mi piegai, presi da terra le scarpe e le appoggiai alla scrivania sulla quale poi mi rimisi seduta. In silenzio gli porsi la scarpa del piede destro che alzai, e lui la prese in mano scrutandomi.
«Vuoi che te la metta io?» Domandò.
Annuii.
Non sarei potuta tornare scalza a casa, ma volevo dimostrargli di aver accettato le sue richieste pur di conoscerlo.
Era il mio modo di scusarmi per tutta quella insolenza.
Mi prese la caviglia, in religioso silenzio infilò il mio piede nella scarpa, poi l'allacciò ed io gli passai la seconda.
«Cosa volevi dirmi con questo gesto?»
Alzai le spalle. «Non lo so.» E scesi dalla scrivania.
L'avvocato, spontaneo e naturale prese in una mano l'estremità della gonna del vestito e l'abbassò coprendomi le cosce, poi mi sistemò una spallina che era caduta.
«Dici di non saperlo perché non sai spiegarlo.» Disse, e intanto mi sistemò i capelli spettinati.
Si avviò verso l'uscita ed io lo seguii.
«Ora vai.» Mi diede un'ultima carezza e aprì la porta.
Uscii e mi voltai verso di lui che a braccia conserte era appoggiato allo stipite della porta.
«Una denuncia per il tuo tipo di offesa viene esposta al massimo dopo dodici mesi da quando si viene a conoscenza del reato.» Giocherellò con la fede. «Quindi io mi studio un po' la situazione, la imposto e poi parliamo di come si svolgerà il prossimo periodo, va bene?»
Annuii pensierosa. «Sono in pericolo?» Cominciai a pentirmene.
Rivera sorrise, quasi con tenerezza. «No, Anastasia.»
Allungò la mano destra verso di me, io lo guardai perplessa e lui rise.
«Ci salutiamo, che dici?»
Allora gli porsi la mia, tremante, e glie la strinsi.
«Arrivederci.»

Camilla prese dal forno il pollo e con un dito lo toccò appena.
«Non è bollente, ma almeno è un po' caldo.»
Sorrisi. In quel periodo aveva problemi con il forno ma non aveva il tempo per chiamare qualcuno che l'aggiustasse.
Lo portò a tavola, dal frigo prese una bottiglia di vino rosso già aperta e portò le patate al forno miracolosamente cotte.
«Dicevi?» Si mise seduta di fronte a me e mi versò da bere.
«Lui dice che si studierà il caso e che poi sporgeremo denuncia.» Le passai il piatto. «E che abbiamo dodici mesi per farlo.»
Lei annuì. «Tu stai bene?»
«Si, sono solo stanca.»
Cercai di capire cosa volesse sapere con quella domanda. Camilla non diceva niente per caso.
Le stavo forse dando modo di percepire qualcosa? Aveva capito avessi ripreso con gli incubi? Mitch le aveva detto qualcosa? Si accorgeva delle allucinazioni?
No, mi dissi, forse è solo gentile, lei non può sapere ogni cosa se io non le ho raccontato nulla.
«Altro?»
Mi ha tenuta stretta tra le sue braccia, mi ha carezzato il viso e ha giocato con il mio poco controllo.
«No, abbiamo solo parlato, ma ho fatto fatica a parlargli del trascorso, e quindi abbiamo perso tempo.» Sospirai. «Glie ne parlerò un'altra volta.»
Camilla sorrise. «Ma stai sorridendo, Ana.»
Mi resi conto solo dopo, che spontanei i muscoli del mio volto si erano contratti in un sorriso.
«È un bell'uomo.» Mi giustificai.
La mia amica si versò un po' di vino. «Non è un po' grandicello?»
Non risposi. Inutile rispondere. Aveva quasi trentotto anni, e io non ne avevo nemmeno venticinque.
«È successo altro, vero?»
Camilla sapeva capire.
Annuii, e lei sospirò.
«Devi stare attenta. Non lasciarti cedere in questo modo ogni volta. Lui è bravo e...»
Ma io la interruppi prima che potesse finire. «Lui non è bravo. Cedo quando voglio e perché lo voglio.»
Sorrise quasi compassionevole. «So bene che ciò che fai lo fai perché lo vuoi, ma non farti convincere sia ciò che vuoi senza prima interrogarti sul tuo reale desiderio.»
Mi allarmai. Camilla stava andando fuori strada.
«Non perché lui sia un bravo manipolatore ciò che faccio perde valore.» Mi finsi offesa.
Ma sapevo lei avesse paura per altro, forse che io mi invaghissi di chi non avrebbe mai ceduto, forse che io stravedessi in un rapporto con un uomo che in realtà ne stava solo approfittando e che per giunta era vincolato da un matrimonio, o forse che io mi illudessi credendo in un qualcosa di impossibile.
Ma come avrei potuto gestire quell'ondata di emozioni che lui mi dava?

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