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Non muovere mai l'anima
senza il corpo,
né il corpo senza l'anima,
affinché difendendosi l'uno con l'altra
mantengano il loro equilibrio e la loro salute.

Platone


Mi svegliai con le gambe più stanche di come le ricordavo alla sera. Ogni muscolo mi sembrava sfibrato, le palpebre erano pesanti e la testa sconnessa.
Aprii gli occhi, vestita ancora come la sera prima portavo un vestitino nero attillato che nella notte si era alzato scoprendomi la parte bassa delle natica, le mie gambe erano piene di lividi ed un cerotto lilla padroneggiava a lato del ginocchio. I miei palmi erano graffiati e i miei piedi doloranti, con le dita rosse e le vesciche dietro ai talloni.
Una fitta alle tempie mi costrinse a richiudere le palpebre che tenni serrate per altri secondi, o forse minuti.
Lesti riaffiorarono i ricordi della sera precedente.
Ricordai la cena di lavoro alla quale ero stata invitata e forzata ad andare, il mio capo e il suo squallido brindisi all'azienda, la moglie ubriaca che zitta accettava i tradimenti e li annegava nell'alcol e i miei colleghi allegri, mentre io, immobile e con una mano del figlio del direttore su una coscia a violarmi.
Ricordai come tornai a casa: a piedi, su dei tacchi a spillo scomodissimi che avevo indossato per affievolire l'insicurezza delle gambe ai miei occhi troppo grosse; ad occhi chiusi riuscii ancora a sentire la voce grave dell'uomo che mi riportò a casa, dopo che, con una caviglia slogata ed un tacco rotto, gli ero caduta di fronte.
Mossi il piede per capire lo stato della caviglia dolente, faceva male, ma era niente in confronto alla sera prima.
Mi alzai, avevo un estremo bisogno di ripulire il corpo dalle mani del ragazzo che non avevo trovato il coraggio di allontanare e dallo sporco del marciapiede sul quale ero caduta.
Avevo ventitré anni ed una fresca laurea in economia che mi aveva permesso di lavorare per una grande azienda. Avevo il futuro che molti giovani sognano e non ne ero soddisfatta. Odiavo il mio nuovo lavoro e ancora di più le persone che mi circondavano in quel luogo, sopra o pari a me che fossero.
Odiavo la falsità del direttore, l'ipocrisia dei miei colleghi e più di tutti il figlio del capo, che lavorava in quel posto impaziente che il vecchio mollasse l'azienda lasciandola a lui; che si era invaghito di me sin dal primo giorno, che mi toccava senza pudore, e che per paura di perdere il posto io non sapevo allontanare.
Mi ero trascinata in cucina, dove mi sforzai a preparare la colazione per tornare ad una forma di normalità. Mangiavo tutte le mattine con il gatto sul bancone, io con la mia ciotola di yogurt e cereali e lui con una manciata di croccantini al salmone.
Guardai sul ripiano un biglietto da visita su cartoncino nero e una scritta argentata.
Avvocato A. A. Rivera
Cercai nella mia memoria sfocata la sua immagine, la sua risata, i suoi accenti, il suo odore, i suoi occhi che parevano dipinti da Van Gogh. Non era un donnaiolo, era un avvocato di tutto rispetto, mi aveva fatto una carezza sulla guancia e sistemato i capelli dietro l'orecchio, mi aveva presa in braccio lasciando che io mi aggrappassi al suo collo e lo circondassi con le gambe, mi aveva tenuta dalle cosce, era stato attento a non stringerle troppo, a non farmi pensare le stesse palpando, a non toccarmi il sedere nonostante il vestito corto che mi si era alzato e a non farmi temere si sarebbe approfittato di me, nonostante il mio squallido stato.
Guardai il mio gatto, che incrociava i suoi occhi verdi con i miei e li socchiudeva lentamente mentre con una mano giocherellavo con il biglietto da visita.
Digitai il numero e tentennai prima di pigiare sull'icona verde del telefono.
Primo squillo, secondo, terzo… Rispose. Silenzio.
«Anastasia.» Lo sentii sorridere, forse ripensando alla sera prima. Forse rimembrando il mio stato vergognoso, l'imbarazzante caduta alla quale l'avevo costretto ad assistere, alla mia paura di una violenza e al mio orgoglio al limite del ridicolo; o forse semplicemente rammentando la mia innocenza, il modo in cui mi ero abbandonata a lui una volta assaggiato il suo calore, la maniera nella quale mi ero offesa nel sentirmi dare della ragazzina nonostante i miei ventitré anni, i cerottini colorati che tenevo nascosti sotto al lavabo, la tenerezza con la quale avevo strofinato il naso sul suo collo e gli avevo toccato il petto… O forse sorridendo perché gli avevo dato una scusa per sospendere chissà quale noioso impegno che non vedeva l'ora di interrompere.
L'autorità che mi venne imposta dalla sua voce e dal suo impiego mi portò d'istinto a riservargli maggiore rispetto. Spazzati via la stanchezza e l'effetto dell'alcol, tutto divenne più formale.
«Volevo ringraziarla per il passaggio», feci una pausa per riflettere sulle parole adatte per descrivere tutto ciò che tra noi era successo. «E per tutto il resto.» Avvampai di vergogna. Quanti anni avrà avuto l'uomo a cui stavo dando del lei? Si avvicinava più ai trenta o ai quaranta?
Lo sentii sorridere ancora, e il velo di soddisfazione del rispetto che dandogli del lei avevo iniziato a portargli trasparì da una roca e superba risatina, tuttavia non mi invitò ad essere meno formale. «E scusarti per quanto tu mi abbia reso difficile il lavoro?»
Non gli risposi, mi concentrai sul ticchettio di una penna con la quale stava probabilmente giocando.
Mi schiarii la voce. Avevo sperato mi chiedesse di dargli del tu così da smorzare il mio imbarazzo. «Sta-sta lavorando? È impegnato?»
«No, sto solo sistemando degli appunti. Ti senti meglio? La caviglia? Il taglio? I palmi?»
Mossi la caviglia che penzolava dall'alto dello sgabello del bancone come ad accertarmi stesse bene, poi mi osservai i palmi e il ginocchio e annuii come se fosse stato lì a guardarmi, mi schiarii la voce e mi sforzai a dire qualcosa. «Sì, va meglio.»
«Bene.» Era freddo, era stanco probabilmente, o forse semplicemente indaffarato. Lo sentivo sfogliare della carta.
«I-io» cominciai, deglutii rumorosamente e trovai il coraggio per continuare. «Io penso di dover andare.»
Facevo trotterellare nervosamente la gamba destra in attesa di una sua risposta, sentivo la gola chiusa in una morsa e il respiro in affanno.
«Grazie per la chiamata, Anastasia.»
La morsa si strinse ancora di più. Una mano dell'angoscia mi si chiuse alla gola, l'altra invece bucò lo stomaco, prese l'intestino e lo stritolò bramosa.
Riattaccai io prima di lui, per non dargli la soddisfazione dell'avermi chiuso il telefono, mentre il mio nome detto dalla sua voce sbatteva da una parete all'altra della mia mente come una palla da biliardo dopo esser stata colpita con troppa violenza dalla stecca.
Anastasia. Anastasia. Anastasia. Anastasia. A-na-sta-sia.
Era ipnotico.
Per l'ennesima volta provai a ricostruire l'intera serata del giorno prima, ma ancora qualcosa mancava.
Ero ossessionata dall'aver dimenticato il suo odore. Amavo gli odori, ed io avevo bevuto talmente tanto per cercare di dimenticare le mani del viscido figlio del mio capo, che mi ero dimenticata l'odore dell'uomo che aveva avuto cura di me senza nemmeno sapere il mio nome e senza chiedermi nulla in cambio.
Il mio nome. Come aveva fatto a sapere il mio nome? L'aveva letto sul campanello?
Cercai su internet qualche informazione sull'avvocato A. A. Rivera. Ora sapevo dove aveva lo studio, avevo letto le recensioni, sapevo dov'era nato e dove aveva studiato, avevo letto il suo curriculum e sapevo il suo nome completo, ma ancora non avevo trovato l'anno di nascita: Alexander Aaron Rivera, nato nel Delaware e laureato in giurisprudenza alla Bocconi.
Guardai Merlino che faceva le fusa disteso a pancia in su sul mio bancone. «Anastasia» dissi, cercando la stessa pronuncia dell'avvocato nella mia voce, ma il mio nome mi suonava così vuoto nel petto, ora che l'avevo detto con la mia.
Lui lo riempiva, lo rendeva bello, colorato.
Anastasia significa resurrezione, e lui nominandomi chiamava davvero da morte; quando invece ero io, a pronunciarlo, il mio nome mi si sciupava in gola. Vuoto, secco. La vita si spegneva e non aspettava altro che qualcuno sapesse riaccenderla chiamandola per nome.

Mi vestii di fretta, uscii di casa e mi infilai in un tram già strapieno di gente che si fermò giusto ad un passo dall'azienda.
Il mio ufficio era uno dei più belli. «È l'ufficio che merita chiunque ricopra il tuo ruolo», aveva detto il mio capo in tutto il suo viscidume, quando mi aveva accompagnata nel tour dell'intera struttura da bravo padrone di casa.
Il mio era anche l'ufficio più isolato, in fondo al corridoio dell'ultimo piano, lontano, nel bene o nel male, da tutti gli altri miei colleghi.
Era l'ufficio con la vista più bella, e quello più spazioso. Avevo una scrivania nera sulla quale odiavo vedere la polvere, e alla mia destra, una via della città era come un quadro che osservavo oltre l'intera parete vetrata.
Passai a prendere un caffè, e poi salii con l'ascensore fino al terzo
piano, dove le mie colleghe erano riunite per spettegolare dei colleghi del primo.
Lasciate che vi faccia chiarezza: il terzo ed il secondo piano erano di sole donne, ed il primo, di poveri uomini costretti a lavorare con delle gallinelle che si invaghivano di loro, e per questo, votati al martirio.
Arrivai, e calò il silenzio. Io frequentavo troppo spesso il primo piano per poter sapere qualcosa dei loro pettegolezzi: temevano l'avessi raccontato a qualche interessato.
Si trattenevano fino a quando una di loro, con palese e spiccata intelligenza, se lo lasciava sfuggire, forse per fare un torto alla collega, o forse per il troppo poco controllo dei filtri tra cervello-bocca. Un momento, ho detto cervello? Quale?
Ogni mattina alle dieci bussava qualcuno alla porta. Marco, il figlio del direttore, di solo un paio d'anni in più di me, e come già enunciato: assunto perché figlio del capo e impaziente di prendere il posto del padre.
Con lui avevo iniziato una conoscenza che con il tempo sfociò in una combinazione sfacciata di palpate non consentite e allusioni sessuali che sopportavo, sbagliando, per non perdere il lavoro, e che la sera dopo il lavoro, riversavo nel water in conati di vomito.
Ormai non ne sarei potuta uscire: se avessi parlato sarei stata apostrofata come la poco di buono di turno, perché per mesi mi ero lasciata toccare in silenzio, e avrei perso il lavoro per aver fatto cadere in cattiva luce il figlio del mio capo; ma se fossi stata zitta ancora a lungo, Marco non solo avrebbe continuato, ma avrebbe anche fatto passi avanti trasformando una toccata ogni tanto in qualcosa di ben più grave, e le sue di certo non sarebbero dovute essere le prime mani a toccarmi.
Pensai alla soddisfazione del dirlo a tutti, a suo padre per primo, e poi pensai al mio licenziamento. Pensai alla soddisfazione di lui che non avrebbe avuto il posto lavorativo che sognava, ma io nemmeno avrei avuto più il lavoro.
Bussò. Era lui, lo riconoscevo ormai.
Era talmente pieno di sé che bussava una sola volta: sia mai si fosse consumato le nocche sulla porta del mio ufficio.
Entrò senza aspettare alcun consenso, mi venne vicino, odiavo il suo odore. Mi toccò la punta del naso con l'indice e poi scese fino al primo bottoncino della mia camicetta.
«Non mi va.» Gli tolsi la mano dal corpo che proteggevo avida.
Quel corpo era la casa della mia anima, e non volevo venisse violato per nulla al mondo.
Lui si mise seduto di fronte a me e si sporse in avanti per guardarmi negli occhi.
«Non starò a guardarti ancora a lungo, lo sai, vero?»
Deglutii a vuoto. Non volevo mi toccasse.

Quel pomeriggio andai dal medico e finsi una brutta emicrania.
Ne soffrivo da ragazzina, dunque credermi non gli sarebbe stato difficile, e il foglio e il toner della stampante per il mio certificato di malattia non gli sarebbero costati nulla in confronto alla sua ricca paga mensile.
Avevo tre giorni lontana da Marco.
Tornai a casa ormai a sera inoltrata, Merlino dormiva sul bancone e un post-it rosa era nuovo sul microonde.

«C'è una sorpresa nel frigo.»

La scrittura della mia migliore amica mi era familiare come se fosse stata la mia.
Camilla aveva studiato medicina, era psichiatra in una clinica e aveva i turni perfettamente opposti ai miei. Lei si prendeva cura di Merlino quando io ero fuori casa.
Cenai con il suo tiramisù, stesa sul divano con solo l'intimo addosso per il caldo asfissiante della città, e con Merlino in grembo a leccarmi le dita e a fare le fusa, sempre con gli occhietti chiusi ed una zampina ad impastare la coperta.
Mi accarezzai il cerotto lilla sul ginocchio mentre sul bancone ancora era posato il biglietto da visita dell'avvocato.
«Anastasia» dissi. Poi ripetei il mio nome altre volte. Con disperazione cercai la sazietà che provocava l'avvocato nel chiamarmi; continuai fino a quando le palpebre non si fecero pesanti e mi addormentai con l'insoddisfazione di un nome spento che io non sapevo valorizzare.

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