3

84 10 0
                                    

Scegli piuttosto
di essere forte nell'animo
che nel corpo.

Pitagora


Quei tre giorni di malattia furono un'ottima scusa per passare del tempo con Camilla, tanto che sabato, nel tardo pomeriggio, aveva fatto capolino nel mio appartamento con una borsa di vivande e una bottiglia di vino in mano.
Indossava dei leggings che morbidi le aderivano alle forme femminili, ed una bianca camicia maschile aperta a vestire le spalle scoperte dal top nero.
«Ti sei scordata di togliere il camice?» Beffeggiai deducendo che quella camicia fosse di uno degli ultimi ragazzi con il quale si era intrattenuta in una delle sere precedenti.
Con un'ironica smorfia ed un versetto canzonatorio mi rispose a tono. «Per uscire mi cambio, non ti faccio sfigurare, tranquilla.»
Sfilò le braccia dalla camicia che sgraziatamente lanciò sul divano, i bicipiti sottili guizzarono liberi dal tessuto bianco, il suo seno prosperoso quasi sembrava limitato dal top attillato che lo schiacciava al petto mentre i due bottoncini spuntavano spavaldi da sotto la stoffa.
«Dato che per colpa tua e dei tuoi giorni di malattia, fino alle sette non potrai uscire di casa, ho deciso di portare un ristorante cinque stelle a casa tua, così che poi ci si possa preparare con calma per uscire.» Aveva detto un attimo prima di svuotare la borsa sul bancone.
Il mio stomaco si rivoltò alla sola vista di tutto quel disordine.
Aveva preso tra le mani il biglietto da visita dell'avvocato Rivera con fare scocciato come se di tutte le cose sparse sul bancone fosse proprio quello a scaturire tutto quel disordine. «Questo ti serve o lo posso buttare?»
Ed io mi ero alzata di fretta dal divano. «Sul serio Cami? Di tutto il disastro che c'è sul bancone è davvero un biglietto da visita grande quanto una carta di credito a disturbarti?» Le andai incontro e le strappai via dalle mani il biglietto, posandolo al sicuro su una mensola del salotto.
Lei rise di gusto; il petto le si alzava e riabbassava in fretta, le clavicole spuntavano spigolose ad ogni suo movimento a testimoniare la sua magrezza. «C'è parecchia differenza tra un cartoncino inutile e una carta di credito, sai?» Lei mosse le labbra sottili ma piene che di tanto in tanto accoglievano un dito che succhiava per assaggiare ciò che stava preparando.
Se fossi stata anch'io maschio, come tutti quelli che restavano incantati da quella figura d'angelo spudorata quanto il Diavolo, probabilmente sarei stata ammaliata quanto tutti gli altri.
«Ma dato che nessuna delle due vede piovere dal cielo black card pullulanti di soldi, dobbiamo accontentarci del biglietto da visita di un avvocato.» Stetti al gioco, ancora infastidita e addirittura gelosa che Camilla avesse toccato quel cartoncino.
Cosa ti sta succedendo, ingenua Anastasia?
«E poi cosa te ne fai tu, di un avvocato?»
Feci spallucce. «Nel caso tu decida di denunciare per stalking uno dei tuoi mille amanti, saprò a chi rivolgermi.» Nascosi con l'ironia la gelosia per l'avvocato. Pensai a sua moglie, che gli dormiva accanto tutte le notti e alla quale non serviva una ferita sul ginocchio che lui le avrebbe medicato per ricevere da questo qualche carezza. Pensai a tutti i clienti che, durante un incontro nel suo ufficio, stavano soli con lui per dei minuti, parlavano con lui bevendo dalle sue labbra la sapienza di un uomo colto, per poi uscire da quella stanza ebbri. Ebbri di lui, del suo sapere e del suo profumo.
Mi sentii in colpa per quei pensieri da ragazzina: benché ancora non mi considerassi pienamente donna, vivevo da sola, avevo un lavoro e mi mantenevo con i miei guadagni, pertanto mi sentivo in dovere di essere donna a tutti gli effetti.
Mi sentii in colpa perché le persone che entravano nel suo studio avevano ben altro a cui pensare, e perché la donna che tanto invidiavo l'aveva meritato quell'anello all'anulare.
La soluzione era una soltanto: dovevo togliermi dalla testa quell'uomo. A tutti i costi.
Io e Camilla avevamo riso e stappato una bottiglia di vino bianco, avevamo cenato presto, poi mi aveva trascinata fuori casa, ormai libera dall'orario in cui sarebbe passato il controllo, e mi aveva portata in un locale di Milano: il suo preferito.
Camilla entrò disinvolta, si mosse tra la gente sinuosa come una vipera mentre mi teneva la mano per non perdermi; adocchiò un tavolo e sedette su una sedia dopo aver appoggiato il blazer nero allo schienale.
Accese il cellulare, rispose ad un messaggio e poi scoccò un occhiolino dalle vene erotiche al cameriere, intimandolo a raggiungere il nostro tavolo per prendere le ordinazioni convincendolo a sbrigarsi in quel modo subdolo e seducente che solo una donna può e sa utilizzare.
«Dovresti essere meno tesa.» Mi squadrò appoggiando mollemente le spalle allo schienale della sedia.
E se qualcuno mi avesse toccata non appena mi fossi alzata dal tavolo? Da quando Marco aveva iniziato a toccarmi di tanto in tanto, ero terrorizzata da ogni uomo che mi girasse intorno.
Pensavo che tutti si sarebbero potuti approfittare di me da un momento all'altro, e che se fossi stata brilla sarebbe stato ancora più facile per loro, infilarsi nelle mie mutande.
Camilla era ormai al terzo Cosmopolitan, e nella testa mi balenò l'idea che se fosse stata ubriaca, nessuno mi avrebbe difesa da una violenza. E lei? Lei come si sarebbe difesa? Io di certo non ne sarei stata capace.
Presi a farle delle domande per chiarire la sua lucidità.
«E quindi a lavoro come va? Sei di turno domani?»
Rise sguaiatamente, buttò all'indietro il capo e con un gesto repentino portò i capelli dietro la schiena scostandoseli dal volto e dalle spalle. Il suo collo magro si allungò, il suo seno mi restò sfacciatamente esposto sotto agli occhi per svariati minuti, le clavicole si mossero leggiadre sotto la sua morbida pelle lattea ai lati del ciondolo luccicante e dai capelli biondi scintillarono gli orecchini pendenti.
«Non mi dire che hai paura io beva troppo», mi irrise, poi si calmò, con i gomiti si appoggiò al tavolo per avvicinarsi a me, mentre i seni che si intravedevano dalla scollatura profonda si stringevano tra le braccia che lei avvicinava per intrecciare una mano con l'altra.
L'avrei voluta avere io, la sua taglia di seno.
«Non finirò a gattonare sul pavimento del locale, se è questo che ti stai chiedendo. Non reggo poco quanto tu pensi e conosco benissimo i miei limiti.» Sorrise, il suo petto si alzò e poi abbassò seguendo il suo respiro lento e sereno. «Ho imparato a bere, ormai.»
Deglutì un altro sorso dell'alcolico, una gocciolina le scivolò sulle labbra e lei prontamente la raccolse con il polpastrello del pollice. Lo smalto bianco divenne blu sotto le luci del locale.
Un sorriso sornione le si allargò sul volto. La guardai meglio.
Camilla Romeni, ventotto anni di pura sensualità ed eleganza in un viso d'angelo dai lineamenti delicati. Un naso francese appena sotto ai grandi occhi ambrati, l'incarnato pallido che contrastava il rossore delle labbra raffinate mentre una chioma bionda le ricadeva dolcemente sulle spalle e sulle guance di porcellana.
Femminile, sensuale ed elegante, ma anche dannatamente lussuriosa e viziosa.
L'avete mai visto un corpo d'angelo abitato dalla lussuria?
La mia amica incantava decine di uomini senza mai sceglierne uno. Li attirava a sé, li provocava fino a portarli al limite, e poi li lasciava lì, insoddisfatta.
Era esigente, ambiva ad un uomo impeccabile e poteva permettersi di farlo.
Non si vietava il piacere carnale con uomini che l'attraevano, ma prima di infilarsi nel suo letto, prima di vederle il fiore di loto tatuato all'inguine, che con umorismo aveva voluto permanente sulla sua pelle, e proprio in quella zona, dopo aver saputo fosse il fiore simbolo della purezza; prima di carezzarle il monte di Venere, serviva essere sufficientemente attraenti, virili, ma anche educatamente sfacciati.
Camilla, solare e dalla presenza terapeutica, era una psichiatra specializzata nelle dipendenze e disturbi del comportamento alimentare e lavorava in una clinica privata di Milano alla quale dedicava la gran parte del suo tempo; entrava nella testa delle persone, le capiva, lasciava si fidassero e leggeva alla perfezione ogni loro comportamento.
Altro problema che le rendeva difficile l'innamoramento: notava da subito, anche se proveniente dalle bocche degli sconosciuti, una menzogna.
Era una donna difficile da conquistare, che facilmente si annoiava e dalla natura complicata. L'avevo conosciuta al mio primo anno di università. Ero arrivata a Milano a diciotto anni, sola e con una chitarra sulle spalle; lei mi aveva salvata da un piccione, e io le avevo promesso un caffè speranzosa di intraprendere un rapporto umano in quella città al tempo a me sconosciuta nella quale ero capitata per studio, e nella quale ero completamente sola.
«Sono in ritardo per il lavoro.» Mi aveva detto. «Ma se per le cinque non hai niente da fare...» Mi rivolse un sorriso quasi materno, ci scambiammo il numero e la stessa sera avevamo chiacchierato fino a tardi sedute su un tavolino di un locale in zona Navigli.
Una dea della seduzione racchiusa in un metro e settanta -la stessa conosciuta tre anni prima di fronte al Castello Sforzesco- mi stava seduta di fronte e appoggiava alla bocca il bicchiere del cocktail con il quale si bagnava le labbra che poi leccava provocante.
«E se ti sbronzi e poi un uomo ti violenta?» Ripresi con le mie fisime.
Lei mi sorrise, ora dolce e quasi preoccupata. «Perché sei così terrorizzata da questa ipotesi? Cosa ti porta ad avere tutta questa diffidenza nei confronti degli uomini?»
Alzai gli occhi al cielo sbuffando, e con un gesto teatrale mi adagiai allo schienale della sedia. Aveva centrato in pieno l'argomento, come sempre.
Frequentare Camilla significava non avere segreti con lei. La psicanalisi era sempre alle porte, riconosceva ogni minimo atteggiamento, tono della voce, gesto delle mani o posizione.
Lei sapeva ogni cosa ancor prima che le venisse detta. Lei sapeva tutto di me senza che io avessi mai dovuto parlargliene.
«Cosa mi stai nascondendo, Ana?» Camilla assottigliò gli occhi e bevve ancora, riflessiva.
«Niente.» Cantilenai
«Un uomo ti sta facendo del male? Chi ti ha creato insicurezze?»
Rimasi immobile, pensai alla risposta da darle sbagliando forse nel lasciarla attendere più del dovuto.
Avrei dovuto prepararmi prima di vederla tutte le risposte alle sue possibili domande.
«Nessuno mi sta facendo del male.»
Un verso di disapprovazione le uscì dalla bocca, quasi a rimproverarmi. «Non mentirmi, lo sai che non ne sei capace.»
Alzai gli occhi al cielo. «Sei mia amica, non la mia psicologa. Smettila di analizzare tutto ciò che dico o faccio.»
Alzò le mani in segno di resa e accavallò le gambe. «Fa parte della mia natura capire cosa ti fruga per la mente. Non puoi avere segreti con me perché io so quando menti e so cosa provi. Capirlo mi è naturale, non è una mia scelta. Io scelgo solo se cercare di aiutarti o lasciarti affrontare da sola i tuoi problemi. La mia professione è soltanto una conseguenza di ciò che sono.»
«Voglio andare a casa.» Sbuffai.
Lentamente appoggiò il bicchiere al tavolo. «No, non vuoi andare a casa, vuoi starmi lontana perché hai paura che io capisca, ma così mi rendi curiosa. Cos'è che non vuoi capisca?»
Mi guardai attorno per evitare i suoi occhi d'ambra magnetica.
«Niente.»
«Cos'è successo negli ultimi giorni che ti ha resa così strana?»
«Niente.»
Lei sorrise con tenerezza, inclinò il capo e si perse a guardarmi riflessiva sospirando un «niente».

Princeps LuxuriaeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora