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Date al dolore la parola;
il dolore che non parla,
sussurra al cuore appresso
e gli dice di spezzarsi.

William Shakespeare


A casa, con il gatto sulla pancia e sdraiata sul mio comodo letto, anche lui come il divano: comodo perché preso a metà prezzo; con una pizza e una birra rossa a guardare una commedia italiana, cercavo di tirarmi su il morale, basso dopo il mio incontro con Marco.
Appena tornata a casa dal lavoro, fulminea mi ero infilata nella piccola doccia del mio appartamento, e con cura mi ero ripulita dal tocco di Marco sul viso e sul collo, passando più volte la spugna soprattutto dove aveva posato le sue viscide labbra, sfregando e graffiando quasi fosse stata una macchia di sangue ormai coagulato sul pavimento, difficile da togliere e dalla presenza inquietante.
L'acqua venne risucchiata dallo scarico che con essa si portò via le tracce della molestia.
Mi sentivo finalmente ripulita dallo sporco che avvertivo addosso. Tutto sembrava passato, ma una volta arrivata la sera, nel mio letto grande e vuoto che occupavo da sola, l'idea di avere qualcosa in sospeso che avrei dovuto risolvere al più presto, dal quale non sarei potuta scappare poiché ogni mattina ci sbattevo contro, insieme alla consapevolezza che da sola non ce l'avrei mai potuta fare, mi distruggeva.
Mi convinsi di dover fare qualcosa.
Pensai a chi chiedere aiuto: non avevo chissà quanta gente.
Mitch? No, avrebbe potuto trovarsi in difficoltà con il capo. Camilla? No, quella donna avrebbe reagito troppo d'istinto. Mamma e papà? Probabilmente sarebbero morti d'infarto per la preoccupazione di avermi lontana sotto le grinfie di un uomo dall'invadenza pericolosa.
Per un attimo mi balenò per la mente l'idea di chiedere aiuto all'avvocato Rivera, ma quale sarebbe stato il senso logico di confidarmi a colui che amava avere il pieno controllo della mia mente? Sarebbe stato come servirgli su un piatto d'argento un mio punto debole da sfruttare per poter manipolare con maggiori risultati la mia povera testa.
Ma un consiglio legale, per quanto da incosciente fosse stata l'idea di parlarne con Rivera, forse sarebbe stata la cosa meno stupida e più sicura da fare, viste le limitate alternative.
Sospirai nel bivio tra la voglia del risentire il mio nome scandito dalla sua voce, e quella dell'evitarlo per scappare dalla sua manipolazione.
Camilla mi ucciderà.
Digitai ancora una volta il numero che per orgoglio mi ero rifiutata di memorizzare nella rubrica.
«Lo studio è chiuso dalle 19.»
Mi schiarii la voce prima di dirgli chi fossi, quasi percepissi la sensazione che forse, per me, avrebbe chiuso un occhio e fatto un'eccezione. «Io...»
Lui mi precedette: «Anastasia.»
Lo colsi sorpreso. Avvertii una morsa allo stomaco nell'attimo in cui realizzai che nemmeno lui avesse salvato il mio numero nella rubrica del cellulare e che dunque riconobbe la mia voce da una sola sillaba, nonostante ci fossimo scambiati poche parole e visti solo un paio di volte.
Ruppi un angolo del cartone della pizza e attenta che non fosse macchiato d'olio ci giocherellai per smorzare l'agitazione.
«Volevo chiederle soltanto un parere legale.»
Lo sentii sorridere. «L'orario lavorativo, Anastasia, si è chiuso da un bel po' di tempo.» Sembrava aver affievolito la freddezza del tono quasi sporco di tenerezza.
Intanto io ero arrossita. Mi chiesi come potesse entrarmi nella testa soltanto scandendo il mio nome un paio di volte.
Tentai di non farmi intimorire dalla sua voce e di non lasciarmi soggiogare dal mio nome detto da lui, malgrado ad ogni ripetizione rivedevo ad occhi aperti le sue labbra che avevo guardato scandirlo più di dieci giorni prima, mimandolo sotto lo sguardo di tutti, mentre il direttore mi presentava a lui.
Anastasia, Anastasia, Anastasia, Anastasia.
L'immagine del mio nome tra le sue labbra era ancora dannatamente lucida.
Mi interrogai ancora. Com'è possibile?
Buttai giù un ammasso denso di saliva. La mia gola sembrava attanagliata da una mano, come se qualcuno stesse cercando di stringermi il collo fino a soffocarmi, mentre l'aria stentava a passare.
Sentii il cuore scosso da palpiti irregolari, mentre le mani tremanti insistettero nel tenersi impegnate.
«Lo so, mi scusi se la chiamo a quest'ora. Ho un problema di cui non so occuparmi da sola, e non ho nessun altro a cui domandare.»
Ed ecco, signore e signori, come avevo firmato il mio patto con il diavolo, ponendo in una pergamena di pelle umana il mio nome scritto con il sangue.
Gli avevo chiesto esplicitamente di entrare nella mia vita e di aiutarmi a gestirla.
Stupida incosciente.
Sentii un campanello dall'altro lato del telefono.
«Devi concedermi un minuto, questa sera ho un impegno in programma. Resta in linea.»
Annuii ed aspettai. Lui non si pose problema del non aver ricevuto risposta.
In un primo momento pensai che avesse dedotto stessi annuendo, quasi come per magia lui riuscisse a capire ogni cosa di me senza nemmeno vedermi; poi tornai con i piedi a terra e capii che non stesse aspettando una risposta, poiché non era di una risposta che necessitava.
Per lui, tanto, io avrei dovuto rispondere con un «sì» a qualsiasi cosa mi avesse mai detto. Per lui, ogni mia risposta sarebbe dovuta essere affermativa, che io avessi voluto o meno.
Frattanto riflettei. Come gli avrei detto che il figlio del direttore mi faceva del male ed era un pericolo? Come gli avrei chiesto aiuto? E lui mi avrebbe creduto?
Non lo sapevo. Non sapevo niente.
Mi spaventai e riattaccai.
Ero scappata ancora una volta dal risolvere i miei problemi. Quanto ancora avrei opposto resistenza?
Camilla mi chiamò, ed io, in trance come ogni volta in cui sentivo la voce dell'avvocato, ero riuscita a risponderle dopo qualche squillo, mentre ancora tentavo di dimenticare di aver contattato l'uomo tanto affascinante e misterioso che mi aveva salvata da un quartiere pericoloso.
Mi invitò ad uscire con lei, Mitch e Adele, e dire di no capii sarebbe stato controproducente: avrebbe dedotto che qualcosa non andava, mi avrebbe posto delle domande alle quali avrei dato una risposta falsa che lei avrebbe capito essere una bugia, e nel giro di poco sarebbe arrivata a sapere ogni cosa, compreso il fatto che avevo chiamato l'avvocato con una prima intenzione di domandargli aiuto.
Mi avrebbe detto che chiedere aiuto ad un manipolatore bravo come lui sarebbe stato un suicidio, e sarebbe rimasta offesa nel sapere che prima di chiedere aiuto a lei, mi ero rivolta all'avvocato Rivera che per me era uno sconosciuto, ed anche un pericolo. Ne avrebbe parlato a Mitch, Mitch le avrebbe detto di conoscere già la situazione, o se non l'avesse esplicitamente detto lei l'avrebbe ugualmente capito, e allora sarebbe stata la fine per le mie povere orecchie che l'avrebbero dovuta sopportare.
Camilla arrivò sotto casa mia alle nove e mezza, quando la splendida commedia all'italiana era a malapena avviata.
La trovai appoggiata alla ringhiera delle scale.
«Piano M.A.L?» Le chiesi, e lei annuì con un sorriso sornione.
Il piano M.A.L. era la nostra grande genialata del fine settimana: significava Metropolitana e Alcol Libero, ed era l'impeccabile organizzazione che io, Mitch e Camilla avevamo inventato per la migliore delle comodità: lasciate che ve la spieghi.
Casa mia era tra tutte l'unica con la metropolitana a due minuti a piedi. Loro non avrebbero dovuto fare altro che lasciare l'auto al parcheggio libero a 10 minuti dal mio appartamento, e poi ci saremmo mossi solo ed esclusivamente in metropolitana. La notte, per l'una, saremmo tornati a casa mia, loro avrebbero dormito da me e la mattina sarebbero ripartiti, sobri e splendenti.
Consisteva quindi in un'efficiente programma per poter bere senza pensieri. Nessun turno per chi si sarebbe dovuto improvvisare astemio per una sera solamente per guidare e riportare gli altri a casa senza alcun incidente.

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