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È buio perché ti stai sforzando troppo.
Con leggerezza, bimba, con leggerezza.[...]
Impara a fare ogni cosa con leggerezza.[...]
Sì, usa la leggerezza nel sentire,
anche quando il sentire è profondo.
Con leggerezza lascia che le cose accadano,
e con leggerezza affrontale.[...]
Con leggerezza, tesoro mio.

Aldous Huxley

    
  
I nostri caratteri erano così opposti che solo due masochisti avrebbero trovato piacevole la continua tensione che noi due riuscivamo a creare, eppure entrambi stavamo continuando ad alimentarla, come se fosse talmente viva da piacerci.
Era quasi mezzanotte quando uscimmo dal ristorante; avevamo parlato, discusso come al solito nostro e giocato a chi dei due sapesse essere più irritante: vinceva lui ovviamente, poiché non appena sfioravo la sottile linea dell'impertinenza, aspetto che lui nominava spesso e di cui mi accusava, riusciva sempre a farmi scusare e zittire, godendo nel piegare il mio orgoglio.
Aveva una strana predilezione per le scuse. Narcisista, egocentrico ed arrogante, non c'erano aggettivi migliori per descriverlo.
Dopo che lui ebbe salutato qualche conoscente, da bravo galantuomo mi aprì la pesante porta del ristorante e la tenne per farmi passare. La brezza del lago tornò sulla mia pelle e riuscì a darmi respiro dopo che la vicinanza con Rivera me l'aveva momentaneamente tolto.
«Vuoi tornare a casa, suppongo tu sia stanca.» Mi disse intanto.
«Lei vuole tornare a casa.» Lo diedi per scontato, altrimenti non me l'avrebbe chiesto.
L'avvocato rise. «Se te l'ho chiesto significa che per me non cambia, altrimenti ti avrei direttamente riportata alla macchina.» Richiuse la porta alle sue spalle. «Non so se tu hai un coprifuoco da rispettare.» Ironizzò sulla mia età.
Anche per questo non avevo speranze: ci scherzava così spesso, che dubitavo riuscisse a dimenticare facilmente la nostra differenza all'anagrafe. Tra noi passavano di mezzo più di quindici anni, e mentre anni prima lui guardava Holly e Benji, Lady Oscar o Pollon, io ero nei più vaghi programmi futuri dei miei genitori, o forse nemmeno in quelli.
Mi chiesi quale fosse il vero obbiettivo di quella sera, dato che gli argomenti per i quali ero stata invitata a cena erano stati appena accennati nella nostra conversazione, e non sembrava lui volesse parlarne nuovamente. Qual era il suo vero fine?
Mi domandai se mi avesse portata fuori solo per passatempo, se non avesse avuto nessuno a casa ad aspettarlo e allora si fosse deciso a darmi un contentino con la scusa di passare una serata diversa dalle altre.
Avrei voluto chiedergli dove fosse stata sua moglie. Pensai ad un ragionamento opposto: forse quella sera lei aveva avuto un impegno, e solo perché non era a casa lui si era intrattenuto con me per non annoiarsi.
«Io non ho un coprifuoco, e se nemmeno lei ce l'ha forse non sarà un problema per nessuno se restassimo ancora un po' fuori.» Proposi.
L'avvocato annuì. «Mhmh.» Mi sistemò i capelli che nella fretta avevo coperto con il blazer, ed intanto riprese a camminare. Gli camminai affianco sovrappensiero, presa dall'insolito silenzio di Rivera, che invece ero abituata a sentire blaterare senza sosta, tra un rimprovero e un'osservazione pungente. Ero talmente distratta dai miei pensieri che non mi accorsi di star camminando sul bordo di una strada sulla quale le poche auto correvano sfrenate. L'avvocato mi strinse un braccio e mi strattonò verso di sé togliendomi dalla strada. «Fai attenzione, te ne prego.»
Mi tenne sulla parte interna della strada, alla sua sinistra, intanto io mi massaggiai il braccio lagnandomi. «Mi ha fatto male.»
«Una macchina avrebbe fatto di peggio.» Disse come una cantilena.
«Vieni.» Mi camminò davanti e scese delle scalette tenendomi per mano per evitare che io inciampassi. «Attenta.» Disse. Mi mollò la mano solo quando fui al sicuro.
Camminammo lungo un piccolo sentiero in un prato illuminato da dei lampioni ben lontani dal parco e mi fermai, come un cane obbediente, quando anche lui accanto a me si fermò.
Il frinire dei grilli rompeva con delicatezza il silenzio. Non era ancora estate, la brezza portata dal lago era fresca e pareva voler litigare con il clima mite dei primi di giugno e con la mia pelle bollente per l'agitazione.
Mi strinsi nelle spalle in un disagio che tentai di rompere con la prima domanda che mi passò per la mente. «Viene spesso al lago?» Domandai.
Inspirò a fondo l'aria pulita. «Non ci venivo da un po'.»
Si mise seduto. Nonostante l'umidità del lago l'erba era secca per la siccità di quell'anno.
Sedetti vicino a lui, ad una debita distanza non sapendo se desiderasse avermi vicina o meno.
«Vorrei che tu mi raccontassi di questa mattina.» Mi disse. «Con chi parlavi, ad esempio.»
Capii che non aveva finito le sue domande fastidiose, e che probabilmente nei suoi piani aveva programmato di pormi questa domanda in un determinato momento di finta intimità.
«Dovevo aspettarmelo.» Borbottai seccata, e allora lui si voltò verso di me.
«Mh?»
«Lei ha aspettato di farmi questa domanda tutto il giorno, e la cena era solo un modo per entrare nelle mie grazie e farmi sciogliere un po', così che poi avrei potuto parlarle con più facilità. Lei è stato con me perché le facevo pena, avvocato?» Alzai la voce. «O forse vuole sfruttare i miei punti deboli per qualche suo affare?» Lo accusai.
Rivera dovette inspirare a fondo per mantenere la calma, guardò il cielo, si stese e si appoggiò con i gomiti sull'erba, il suo pomo restò esposto al cielo mentre lui espirava attendendo che io finissi di dire sproloqui.
Colsi il silenzio che mi aveva lasciato e continuai con le ipotesi, agitata e con il cuore che pulsava sangue frettoloso mentre la sua calma snervante mi punzecchiava il sistema nervoso.. «Voleva salvare il povero agnellino, lasciare che la pecorella smarrita si fidasse di lei e le raccontasse ogni cosa per sfruttare le informazioni e la debolezza a suo favore.» Urlai innervosita dalla sua impassibilità. «Ma a quale scopo? Cosa vuole da me? A cosa diavolo le servo?»
Rivera inspirò nuovamente e ancora mi lasciò sfogare.
«Vuole i miei soldi? Vuole aiutarmi e presentarmi all'ultimo il conto? O ha degli interessi per la Rubini e vuole usarmi per infangare il nome del direttore?»
L'avvocato si irrigidì e si levò a sedere. «Basta così.» Si tirò in piedi. «Non ho bisogno dei tuoi soldi, e dell'azienda di Rubini poco m'importa. Sono lì solo per fare un favore ad un mio amico e collega che non gode di buona salute.» Lo vidi gesticolare. «Ci tenevo che tu passassi una serata tranquilla, volevo sapere cosa ti è preso così da poterti aiutare ad affrontare qualunque cosa tu stia passando.» Mi porse la mano. «E adesso alzati, ti riporto a casa.»
Mi rialzai da sola ignorando la sua mano e a passo svelto mi allontanai da lui avviandomi verso il sentiero.
«Attenta a non cadere.» Disse lui alle mie spalle, ma non fece in tempo a finire la frase che il tallone si sfilò dalla scarpa, io persi l'equilibrio e l'altro piede scivolò nella ghiaia facendomi finire a terra.
Rivera mi raggiunse a passo lento e con le braccia conserte che poi sciolse nel momento in cui si piegò per assicurarsi che stessi bene.
«Je te l'ai dit.» Mi disse stringendomi un braccio e sollevandomi con la forza.
Il suo odore, la sua voce, il suo odioso e perfetto francese, le sue mani, la sua forza, il modo in cui vestiva, gesticolava e parlava. Lui. Tutto di lui mi dava fastidio e attraeva allo stesso tempo.
«Si tenga il francese per lei.» Mi lamentai una volta tornata con i piedi a terra, e senza nemmeno darmi una cortese spolverata all'abitino certamente impolverato dalla ghiaia gli scappai via di nuovo, fino a raggiungere la sua auto che da poco più distante lui aprì, ed una volta sentito il click aprii la portiera e mi misi seduta chiudendomi all'interno della macchina.
L'avvocato mi raggiunse ed aprì di nuovo la portella. «Fammi prima controllare cosa ti sei fatta.»
Con due mani mi prese le gambe appena sopra del ginocchio e mi girò lasciandomi le gambe a penzoloni verso il lato laterale dell'auto.
Solo in quel momento mi accorsi dei tagli ben più profondi rispetto a quelli fatti la sera nella quale lo conobbi. Un rivolo di sangue scendeva dal ginocchio fino alla caviglia, dove a lato e poco più in basso, sul malleolo, un altro taglio perdeva sangue.
«Vedi? Ecco cosa succede a fare l'impertinente.» Mi schernì mentre prese del disinfettate dal portaoggetti sotto al cruscotto, si chinò, bagnò un fazzoletto del liquido verde e tamponò sulle ferite.
Sbuffai fingendo di detestare quelle attenzioni. «Io domani devo lavorare. Voglio andare a casa.»
Ma lui premette più forte sull'abrasione fino a farmi emettere un rantolo di dolore, e poi sorrise soddisfatto.
«Se tu non avessi fatto la ragazzina ribelle, se tu mi avessi parlato subito delle tue paranoie così da ricevere una mia risposta che le smentisse, se tu non fossi sempre così diffidente nei miei confronti, e non fossi scappata da me per il puro gusto di vedermi ancor più arrabbiato di quello che già ero, allora non saresti caduta e non avresti perso tempo con le medicazioni.» Sospirò.
Sbuffai. «Sono cose che penso.» Feci io, con tono altezzoso.
E lui sorrise quasi con tenerezza. «Questo è perché non credi che possa esistere qualcuno che ti stia accanto per il solo gusto di farti del bene.» Si tirò in piedi e mi diede in mano un fazzoletto pulito che bagnò con dell'altro disinfettante. «Tienilo sulla ferita. A casa controlliamo meglio.» Poi mi accompagnò le gambe costringendomi a girarmi, lui fece il giro della macchina, si sedette accanto a me, allacciò la cintura e prima di mettere in moto mi diede un'ultima occhiata veloce.
Ripercorremmo all'indietro la strada dell'andata. Il traffico di Milano ingombrava le strade anche a chilometri di distanza dalla città, e cullata dalle luci dei fanali, dei lampioni, cartelli e semafori, e dalla playlist tranquilla che scelse l'avvocato, mi addormentai.
Mi svegliai ormai sotto casa, dopo una buona ventina di minuti di riposo, indolenzita e ancor più stanca di com'ero nel momento prima di partire. L'avvocato mi stava accarezzando una guancia con il dorso della mano mentre l'aria fresca della notte entrava dallo spazio lasciato dalla portella aperta.
«Siamo arrivati.»
Feci uno sforzo e sfruttai le mie poche energie rimaste per alzarmi.
«Può andare, è tardissimo e immagino che lei domani abbia da fare.» Cercai di allontanarlo prima che la stanchezza mi giocasse brutti scherzi.
«Ti accompagno e poi me ne vado.»
In un barlume di lucidità ricordai di aver lasciato casa con al suo interno Adele, Camilla e Mitch.
«Non serve, mi creda.» Sforzai un tono quasi euforico, mentre con fretta cercai nella borsa le chiavi, esposi il mazzo sotto alla timida e calda luce di un lampione ed identificai quella del portone che infilai nella serratura.
Con una mano tenni il maniglione del portone mentre con l'altra girai la chiave con tutta la forza che la mia mano riuscisse ad avere, ma non scattò.
Ci riprovai, sforzando, ed un risolino di scherno venne da dietro alle mie spalle. L'avvocato si avvicinò, con una mano prese tra pollice ed indice la chiave che girò nella serratura, poi galante mi tenne aperto il portone e mi fece entrare.
Salii le scale fiduciosa del buon senso dei miei amici e aprii la porta di casa, questa volta riuscendoci.
«Diamo una controllata alla tua caduta?
Annuii una volta appurato che in casa non ci fosse nessuno.
Accesi le luci svegliando Merlino che dormiva sul divano, che dal divano passò al bancone della cucina sul quale salì, dove si piazzò di fronte alla ciotola dei croccantini e miagolò.
«Aspetti qui.» Avvisai l'avvocato lasciandolo da solo all'ingresso, corsi in camera e tolsi le scarpe che mi avevano indolenzito i piedi, infilai delle pantofole che mettevo raramente vista la mia abitudine nel camminare scalza, e tornai da lui che colsi ad accarezzare Merlino.
«Lui ha sempre vissuto con te?»
Annuii. «Quando mi sono trasferita qui a Milano tutti gli studentati erano pieni. Mia madre aveva accettato che io vivessi qui da sola solo dopo avermi fatto promettere che mi sarei presa un cane che avrebbe fatto la guardia alla casa.»
L'avvocato ridacchiò. «E tu ti sei presa un gatto.»
Mi avvicinai, da un cassetto presi i croccantini e ne misi una manciata nella ciotolina. «Sì, ma sa fare la guardia meglio di chiunque altro.»
Rivera si spostò e andò verso il divano che indicò con un cenno del capo. «Dai, così poi ti lascio in pace.»
Lo capii, misi seduta, lasciai che mi sollevasse la gonna per assicurarsi mi fossi fatta male solo dove, appena sotto ai segni dell'ultima caduta, era posta una brutta abrasione ancora fresca. Mi sembrò di tornare alla sera in cui lo conobbi, il suo profumo mi ricordò che per un'intera giornata avevo arieggiato la stanza nella speranza di togliere il suo odore da casa mia.
«Non ho mai conosciuto una ragazza con un equilibrio instabile quanto il tuo.»
Arrossii. «Io cado di continuo. Sono ventitré anni che vivo con le ginocchia sbucciate.»
«L'ho notato.» L'avvocato si alzò. «Vado a prendere il disinfettante.»
«Solito posto!» Gli dissi quando lo vidi sparire nel bagno, e lui rise di gusto.
Tornò in meno di un minuto, si piegò di fronte a me e disinfettò la ferita ancora sanguinante. «Questa volta è un po' più profonda.»
Lo guardai chinato e con il capo rivolto verso il mio ginocchio martoriato, intento e concentrato nel prendersi cura di me, come sempre aveva fatto senza che io glie l'avessi mai chiesto e senza che gli avessi mai dato nulla in cambio.
Gli guardai la mano che indossava la fede accarezzare appena sopra al cerotto lilla che mi aveva messo per coprire la ferita ed intanto mi tornò in mente quell'infantile scenata che gli avevo fatto poco prima di ruzzolare di fronte a lui nel risalire il piccolo sentiero.
Si sistemò le maniche della camicia che quella sera non gli avevo macchiato, si tirò in piedi tornando a sovrastare la mia esile immagine. «Le mani?» Mi chiese di mostrargliele.
Glie le posi senza dire nulla, gli feci vedere i graffi che me le avevano arrossate, sufficientemente superficiali da far sì che non ci fossero ferite. Non dissi nulla, ancora imbarazzata per quello che gli avevo detto meno di un'ora prima, che probabilmente era solo il sintomo della paura che avevo di essere usata da lui.
«E ora perché non parli?» Chiese mentre finiva di sistemarsi la camicia.
Avevo due alternative: scusarmi per le accuse che gli avevo fatto, o per orgoglio continuare a sostenere ciò che gli avevo detto.
«Sono ancora convinta che lei non sia qui per me.» Restai, orgogliosa, sulla stessa strada, aggiungendo però una punta di tristezza nel tono; ero troppo stanca per mentire, e allo stesso modo non avevo le forze di continuare a sbraitargli sopra delle accuse per coprire la mia paura con la rabbia.
Era come se gli stessi chiedendo, velatamente, di non farmi del male, perché ne avevo già subito tanto, di non usarmi, di non prendermi in giro e di non darmi delle attenzioni illudendomi della sua presenza se poi avrebbe voluto sparire, ma sono anche certa che con gli occhi, lievemente lucidi per la tensione emotiva che continuavo a vivere, gli stavo chiedendo di rimanere, di non andarsene, di non lasciarmi, e di continuare a prendersi cura di me.
Mitch conosceva la mia debolezza, ma non gli avevo mai permesso di avvicinarsi a tal punto da curarla; Camilla la immaginava, ma non le avevo mai dato modo di viverla con me; Adele la poteva forse solamente intuire dai racconti del marito, ma non avevamo abbastanza confidenza da poter entrare l'una nell'intimo dell'altra. Solo mia madre aveva avuto, fino a quel momento, il permesso di avvicinarsi alla mia debolezza, di accarezzarla e di metterla al sicuro, ma da quando avevo conosciuto l'avvocato, involontariamente mi ero aperta a lui, gli avevo fatto vedere la mia fragilità, gli avevo permesso di conoscerla e avevo lasciato che la proteggesse e aiutasse. Sapevo che lui mi faceva anche male, sapevo che l'idea di non potermi avvicinare troppo perché tra noi c'era un muro insuperabile costruito dallo stesso motivo per il quale portava l'anello all'anulare, ed essere costretta ad un limite mi feriva, eppure non riuscivo e non sapevo smettere di stargli vicino, di farlo entrare nella mia mente, di esporgli il mio cuore delicato, rotto in tanti pezzi che stavano insieme tra loro per inerzia e che con una minima delusione si sarebbero staccati nuovamente. Non riuscivo a chiudermi, con lui soltanto.
Rivera sospirò. «Cosa ti porta a temere che io non sia qui per te?» Passeggiò sul parquet facendo ticchettare le suole delle scarpe laccate. «Cosa posso volere da te? Riflettici.»
«Oh, ecco...» Ci pensai. «Io non so.» Bofonchiai parole confuse ed incomprensibili, una dietro l'altra, così tante e insensate che nemmeno io sapevo cosa gli stavo dicendo.
«Fermati.» Mi interruppe. «Respira»
Inspirai obbediente.
«È stata una giornata pesante.» Disse. «Colpa mia, ti ho fatta stancare.»
L'avvocato si allontanò da me avvicinandosi alla porta d'ingresso.
«Credo che sia bene lasciarti riposare.» Mi accarezzò una guancia, con il polpastrello del pollice sfiorò un angolo delle mie labbra che io schiusi spudorata, facendolo sorridere.
«Cosa fai, Ana?» Continuò a percorrere le mie labbra, con la punta della lingua gli leccai il dito che la mia bocca cercò e poi mordicchiò e succhiò una volta trovato.
Ti voglio, gli stavo dicendo, e scusami se ti ho mancato di rispetto o ti ho offeso, ma ho paura. «Abbiamo fatto pace?» L'avvocato mi schernì lasciandomi fare, ed anzi mosse di poco il dito assecondando i miei movimenti, lo spinse nella mia bocca soddisfatto di vedermelo succhiare e lo mosse contro alla mia lingua che lo accarezzava.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Feb 01 ⏰

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