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La speranza è
quella cosa piumata che
si viene a posare sull'anima,
canta melodie senza parole
e non smette mai.

Emily Dickinson


Verso l'una avevamo fatto una riunione d'emergenza per prepararmi al meglio per il mio appuntamento con Rivera.
Adele era appena tornata dal lavoro e Camilla aveva terminato con largo anticipo il turno in clinica: nella vita c'erano delle priorità, e la priorità in questione era un'amica disperata che senza il loro aiuto avrebbe scelto il peggior vestito possibile e immaginabile.
Camilla passò a prendere qualcosa di veloce da cucinare, e dopo il pranzo che per l'agitazione avevo pressoché saltato, mentre le ragazze erano segregate in camera mia ad esaminare i vestiti chiusi nell'armadio e Mitch era steso sul letto, a dare il suo parere maschile verso quello che le altre gli mostravano, io ero chiusa in bagno per una doccia rigenerante, due maschere viso e ceretta, perché «non succede, ma se succede...»
Per la medesima regola scelsi un elegante intimo nero. Ero attratta da lui al punto tale che per un momento scordai si trattasse di una cena dal suo punto di vista lavorativa, e che io confusi per un appuntamento; mi scordai della sua età relazionata alla mia, ma soprattutto mi dimenticai dell'esistenza della fede che indossava all'anulare e quindi della relativa presenza di una donna con la quale la notte condivideva il letto.
Dietro alla fede nuziale c'era un matrimonio, e dietro al matrimonio giaceva nascosto un enorme limite.
Ripercorsi all'indietro gli avvenimenti di quella mattinata, e curiosa di conoscere il nome della strana condizione in cui si trovava la mia mente uscii dalla doccia, asciugai il volto e le mani, e con il cellulare andai su internet, alla ricerca di informazioni utili.
Forse la cosa peggiore che avessi mai potuto fare.
Schizofrenia, depressione, patologie neurologiche...
No, non era niente di tutto questo, ne fui certa perché oltre alle allucinazioni io non avevo altro.
Qualcosa nella mia testa stava succedendo, ma come potevo, da sola, riuscire a capire cosa?
Quando arrivai in camera, con solo l'intimo addosso e l'accappatoio a coprirmi, tre vestitini erano pronti sul letto.
«Alla buon'ora!» Mitch agitò le braccia in aria ostentando teatralità.
Iniziai a provare i vestiti.
Il primo era decisamente troppo corto; il secondo, blu e attillato, non mi piaceva come mi stava addosso.
Ne provai uno viola che non avevo pressoché mai messo, poiché prima di arrivare a Milano le uniche occasioni utili erano impegni musicali, e il viola ancora oggi è un tabù.
Il vestito definitivo fu un semplicissimo abitino nero con un profondo scollo a V, delle bretelline sottili, il busto stretto e la gonna appena più larga lunga fino sopra al ginocchio.
Camilla, tra un mio «ahi» e un suo «sta' zitta», si occupò di pettinare i miei capelli e di fare una piega che durasse per lo meno fino a fine giornata, ondulati ma non troppo e con le ciocche davanti raccolte da un fermaglio a farfalla.
Passai poi sotto le grinfie di Adele che mi truccò di poco, il giusto da coprire un le occhiaie e dare valore agli occhi che stanchi si erano un po' gonfiati, e intanto mandammo Mitch a scegliere il profumo adatto, poiché essendo lui uomo, si sarebbe più facilmente messo nei panni dell'avvocato.
Tornò trionfante con il profumo che la nonna mi aveva regalato per i sedici anni, me lo spruzzò al collo e scelse una lunga collana in argento con un punto luce che finiva tra i piccoli seni.

Quando suonò il campanello chiusi la porta della camera nella quale erano nascosti i miei amici e spensi la luce, infilai le braccia in una giacca leggera e i piedi in sandaletti neri scamosciati con un timido tacco che mi avrebbero fatta sentire un po' di più al mio agio. Presi svogliatamente la borsa color cipria, e non prima di aver preso un profondo respiro aprii la porta.
Colsi l'avvocato a giocherellare con le chiavi della macchina, vestito con i soliti pantaloni neri e questa volta con una camicia del medesimo colore. Sollevò lo sguardo, gli occhi azzurri si incastonarono nei miei come in una miniera un minerale grezzo di acquamarina.
Mi porse la mano che a malapena riuscii a stringere, la sua pelle ruvida avvolse la giovane morbidezza della mia. Con la mano sinistra si sistemò poi i capelli, e nella penombra luccicò tra le ciocche corvine la fede d'oro bianco.
«Stai meglio?» Mi chiese mentre alle mie spalle richiuse la porta d'ingresso che scattò dopo un lieve cigolio.
«Sì.»
Scesi le scale con lui al mio fianco, e quando aprì il portone e mi fece cenno di passare, vedendo la macchina che la sera del nostro primo incontro mi aveva accompagnata a casa quasi il cuore mancò un battito.
Mi aprì la portella, sedetti accanto al posto del guidatore che presto lui occupò mentre nella mente mi apparve il flashback di come era riuscito a conquistare la mia fiducia in così poco tempo, rispettandomi e prendendosi cura di me.
Ricordai l'adrenalina della paura, la sua camicia sporca di macchioline del mio sangue, il tacco rotto, le calze smagliate, la caviglia dolorante e quella stanchezza devastante che quasi attutiva il disgusto per quella serata passata ad una cena orribile.
«Quanto tempo mi dai?» L'avvocato interruppe il mio flashback, confusa mi voltai verso di lui e gli rifilai uno sguardo interrogatorio. «Uhm?»
Comprensivo sorrise. «Per che ora vuoi essere a casa?»
Sollevai le spalle. «Non ho un coprifuoco.» Dissi ironica.
L'avvocato si guardò l'orologio al polso. «Facciamo una corsa fino a Como?»
Sgranai gli occhi. Como distava ad una buona quarantina di minuti da Milano.
«Como?»
Rivera annuì. «Ti fidi?»
Feci di sì con la testa, ancora attonita dai ricordi.
Guardai dal finestrino i cartelli che superavamo. Avevamo appena oltrepassato Rho ed ancora eravamo in silenzio.
«Vuoi mettere un po' di musica?» Mi chiese.
Con la coda dell'occhio lo guardai guidare. Gli avambracci scoperti dalla camicia che aveva alzato fino al gomito, guizzavano virili mentre lui teneva svogliatamente il volante.
Lo guardai. Il volto rilassato, forse stanco, la presa morbida e la camicia quasi del tutto abbottonata.
Il naso greco che ricadeva nell'arco di Cupido sotto il quale erano custodite le labbra rosee. Era tutto incredibile.
«Per quale motivo uno sconosciuto dovrebbe guidare così tanto per me?» Gli chiesi guardandolo, ma non appena lui si voltò verso di me io distolsi lo sguardo e lui sorrise.
«Perché penso che tu te lo meriti.» Per un attimo smise di parlare per dare un'occhiata più attenta alla strada. «Hai passato una brutta mattinata, voglio rimediare per quanto mi è possibile.»
«Mi sembra comunque di non meritarlo, passo spesso brutte mattinate.» Accesi il Bluetooth dell'auto, e lui subito porto lo sguardo sulle mie mani che si intrattenevano con i pulsanti della macchina.
«Che musica vuole ascoltare?»
«Metti quella che ascolti tu. Vediamo quanto sono fuori moda.» Accennò un sorriso.
Per la prima volta l'avevo sentito ironizzare su sé stesso.
Feci scorrere la lunga lista di brani: dovevo trovarne in poco tempo, uno che facesse colpo sull'avvocato.
«In italiano, Anastasia. Vorrei sentire qualcosa in italiano.»
Scorsi ancora più veloce con il polpastrello del pollice e poi, abbandonata alla rassegnazione, ne scelsi una a caso.
I Pinguini Tattici Nucleari gli fecero spuntare un sorrisino.
«Li conosce già?» Ma lui scosse la testa.
«No?» Mi finsi stupita. «Strano.»
«A quanto pare sono vecchio.» Sterzò noncurante il volante picchiettando le dita a tempo. «Non è male però.»
A braccia conserte e con ostentata arroganza presi a fissarlo. «È della mia playlist da auto, ma ho anche brani più tristi e datati, e addirittura musica classica.» Cercai di fare colpo, ma lui dopo avermi rifilato un'occhiata distratta scoppiò a ridere.
«Lascia questa intanto. Mi piace.»
«Non è vero, non le piace.» Mi finsi offesa.
L'avvocato rise ancora e finse dell'esasperazione. «Lasciami ascoltare, te ne prego.»
A braccia conserte, sbuffai e feci roteare gli occhi sicura non riuscisse a vedermi, ma lui, che sembrava avere occhi ovunque, fece schioccare tre volte la lingua sul palato. «Non essere impertinente.» Si fermò di fronte ad un semaforo rosso. «Non te lo ripeterò una terza volta.»
Sollevai un sopracciglio. «Ah no?»
Il sorriso spontaneo che aveva in volto diventò un'espressione di pura arroganza. «No.»
«E se continuassi?» Lo sfidai.
Dal finestrino vidi scorrere il cartello di Origgio, segno che avevamo percorso poco più di mezz'ora di strada, l'avvocato premette sull'acceleratore. Ormai il cielo aveva cominciato a scurirsi, ma ancora non era buio.
Avevamo passato più di mezz'ora a ridere e scherzare senza mai litigare, e non era per niente da noi tutta questa leggerezza.
Ricordai quanto in realtà desiderassi portarlo oltre il suo limite, oltre il suo controllo, e ricordai quanta adrenalina mi desse la paura di scoprirlo realmente arrabbiato.
«Tu non lo fare.»
«Perché mi rimprovera così spesso?» Riflettei. «Voglio dire, non sono una ragazzina ed è vero che è molto più grande di me, ma ora ho un'età tale che dovrebbe quasi credermi adulta quanto lei.» Tentai di parlargli da grande, malgrado conversare con lui significasse per me avere la voce tremante e una differente cognizione della lingua.
Ma nonostante la serietà del mio discorso, una risata roca e sforzata fu così improvvisa da farmi sobbalzare per lo spavento.
Ormai ero convinta di essere chiusa in un auto con un folle.
«Tu ti comporti da grande senza esserlo.» Sospirò. «E non sto mettendo in dubbio la tua maturità. Hai detto di avere ventitré anni, giusto?»
Annuii, ferita del fatto che si fosse dimenticato anche la mia età.
«Sei giovane, eppure credi di poter fare tutto da sola.» Sorrise. «E vuoi far vedere a tutti che ce la fai benissimo, che stai bene così e che non hai bisogno d'altro.»
Riflettei.
«Ma oggi è stata la prova lampante dell'opposto.» La canzone finì e mi lasciò nell'imbarazzo del silenzio. «Pertanto, per risponderti, non sei adulta quanto me. Sei molto matura, è vero, ma non un mio pari, e la mia posizione mi permette di poterti rimproverare laddove ne vedo il bisogno.»
Con le guance rosse sbuffai per mantenere un minimo di orgoglio. Non lo trovavo giusto, non era giusto che ogni occasione fosse buona per umiliarmi e non trovavo giusto che lui, per una pura questione di età anagrafica, mi ritenesse inferiore.
«Ѐ da bigotti credere che l'età definisca una posizione più o meno alta nella sua piramide immaginaria.» Sbuffai. «Mi sembra mio padre, e mio padre ha almeno venticinque anni in più di lei.» Usai un tono odioso. «Quindi la smetta.»
Nel giro di qualche secondo l'avvocato sterzò e fermò l'auto in uno spazzo lungo la strada per Grandate.
Confusa sollevai lo sguardo. «Cos'è successo?»
«Cosa ti era stato detto?»
«Ma non ho fatto niente!» Mi difesi alzando la voce.
«Scusami?»
Sospirai. «Mi scusi.»
Sorrise. Forse mettere da parte l'orgoglio aveva senso se come ricompensa avrei avuto un suo sorriso.
Mi carezzò una guancia. «Devi farci l'abitudine.»
Ripartimmo e per gli ultimi dieci minuti restammo in silenzio. Lui guidava e di tanto in tanto picchiettava le dita sul volante ed io guardai fuori dal finestrino i colori del tramonto e le luci lungo la strada.
Pensai a tutto quello che l'avvocato stava facendo per me. A partire da come si era preso cura di me in quella mattinata, come era stato attento a non rivelare nulla a Mitch, alla strada che aveva fatto per portarmi fino al lago di Como, e al tempo che quindi mi stava dedicando.
Riflettei poi sulle sue ultime parole: devi farci l'abitudine.
A cosa mi sarei dovuta abituare? Ai suoi rimproveri? Al modo in cui dominava su di me schiacciandomi l'orgoglio, o alle sue carezze? Forse non parlava nemmeno di sé, ma intendeva ad una abitudine che avrei dovuto prendere con chiunque, perché forse per la sua mente era naturale comportarsi così con una ragazza come me.
Arrivammo a Como quando ormai era buio. Rivera parcheggiò lungo una via, spense l'auto e si sporse per slacciarmi la cintura.
Solo in quel momento riflettei su quanto piccola gli sembrassi. Mi trattava come un uomo della sua età avrebbe trattato una nipotina, o la figlia di un amico, e forse questo un po' mi ferì.
Prese dal sedile posteriore la giacca, poi venne verso il mio lato, mi aprì la portella e aspettò a braccia conserte che io fossi pronta per scendere.
«Prenditi la giacca, se si dovesse alzare il vento sentiresti freddo altrimenti.»
Annuì e gli obbedii.
In un paio di metri vidi il lago; camminammo ancora per poco e poi mi fece cenno di entrare in uno dei locali lungo il lago.
Un uomo in tiro gli domandò il nome.
«Rivera.» Disse, ma il pover'uomo non ebbe nemmeno il tempo di rispondere che dal bancone all'interno della sala ne sbucò un altro sulla quarantina con in mano una bottiglia di vino. «Alexander!» Urlò sorridente un attimo prima di rivolgersi al signore che prima ci aveva accolti. «Dai Pietro! Non fare il fiscale! So io a che tavolo portarli.»
E poi si avvicinò a noi, l'avvocato gli andò incontro mentre io cercavo di stargli dietro, per quanto i tacchi me lo concedessero.
Si strinsero la mano ed io rimasi nascosta dalle spalle di Rivera. L'avvocato domandò all'uomo come stessero le figlie e la compagna, ma questo non gli rifilò la stessa domanda come invece pensai accadesse.
Rivera portava la fede al dito, eppure non l'avevo sentito nominare nemmeno una volta il nome della moglie.
«Chi mi hai portato?»
L'avvocato si spostò scoprendomi. «Una cliente.»
L'uomo mi porse la mano. «Una giovanissima cliente, eh?» Lo guardò indagatorio e poi ripuntò lo sguardo su di me. «Sono Edoardo, è un piacere.»
Gli strinsi la mano. «Anastasia.»
«Un nome affascinante.» Disse, ma nel parlare si rivolse ancora una volta al mio accompagnatore, che gli sorrise. «Un nome regale, Edoardo.»
Mi stava forse vendendo al suo amico?
Ad ogni modo Edoardo ci fece cenno con la mano di seguirlo, liquidando bruscamente quell'imbarazzante conversazione.
«Il nostro miglior tavolo sulla terrazza, con la miglior vista sul lago.» Ci disse avviandosi verso l'enorme porta vetrata.
L'avvocato mi pose una mano sulla schiena intimandomi a camminargli davanti mentre Edoardo fece scorrere la porta aprendo alla brezza l'ingresso in sala.
«Signorina» mi invitò allontanando la sedia dal tavolo, allora io mi sedetti e lui si impegnò a riavvicinare la sedia.
I due si allontanarono per un secondo, abbastanza vicini da non farmi sentire sola, ma sufficientemente lontani da impedirmi che le loro parole, portate via dal vento, giungessero a me.
Ancor prima che l'avvocato potesse sedersi di fronte a me il suo amico gli chiese cosa volessimo da bere.
«Mi porti del Pinot Grigio?»
Il ristoratore annuì. «La ragazza è d'accordo con la scelta?» Ma non ebbi tempo di aprire bocca che l'avvocato parlò per me con tono saccente.
«Lei non beve.»
«Sì che bevo.» Alzai la voce, ma lui scosse la testa.
«Portale dell'acqua, per cortesia.» Ordinò all'amico che parve quasi provare pena per me. «Suvvia Alex, non le farà male bere due dita di vino. È grande abbastanza.»
«Può bere quello che vuole e quanto vuole con i suoi amici. Non con me.» Sentenziò Rivera, e l'altro se ne andò acconsentendo al suo volere.
L'avvocato vinceva ogni discussione; comandava lui e non c'era alternativa.
A braccia conserte ed imbronciata lo scrutai: se la sua intenzione era quella di infastidirmi e mettermi in imbarazzo per l'intera serata, sarei stata felice di tornare a casa il prima possibile.
Rivera rise di gusto. «Ora intendi non parlarmi più?»
«Lei non può comandare su di me.»
Sorrise ancora, strafottente. «Tiens toi bien, mon enfant.» Francese? Questo trucco mi era nuovo.
Intanto un cameriere ci portò da bere, e Rivera lo ringraziò.
«In italiano avvocato, o si capisce solo lei.»
Si schiarì la voce forse per ricordare a sé stesso di mantenere la calma, ed io mi trattenni dal sorridere.
«Comportati bene.»
«Non ho cinque anni. So come comportarmi.» Sbuffai. «È lei che non mi sa trattare.»
«A quanto pare no, non sai come comportarti.» Sospirò. «Stai facendo tutte queste scenate per del vino, Anastasia? È quello che vuoi?»
«No.» Ci riflettei, perché ormai nemmeno io ricordavo più il motivo di quella mia scenata. Volevo solo discutere con lui, perché per quanto in quei momenti mi irritasse, era ancora più attraente di quanto già non fosse.
Fece slittare il suo bicchiere sul tavolo accompagnandolo con la mano. «Bevi.» Acconsentì esausto.
Cercai nel minor tempo possibile, e ancora me ne vergogno, l'alone lasciato dalle sue labbra sul quale poi poggiai le mie, e tale fu la mia esaltazione di posarle dove prima erano state posate le sue, che nemmeno sentii il gusto di quel vino.
«Così possiamo parlare senza broncio.» Lo lasciai sfottere, ma quando non ritrovò alcuna reazione da parte mia, si occupò del discorso ben più serio per il quale mi aveva chiesto di incontrarci.
«Conosco il caso di Erasmo.»

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