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Non trasformare i tuoi pensieri
nelle tue prigioni.

William Shakespeare


Via Giacomo Leopardi 27

Lessi ancora una volta il messaggio che l'avvocato mi aveva mandato il giorno precedente e poi rivolsi uno sguardo quasi timido al palazzo che mi stava di fronte, inspirando a fondo e ripetendomi che tutto stava andando per il verso giusto.
Erano le nove e mezza di uno degli ultimi lunedì prima dell'arrivo dell'estate. Ancora l'aria era fresca ed occorreva coprirsi non appena il sole calava, ma questo era caldo, i suoi raggi scottavano la pelle e picchiavano in testa.
Era una bella giornata, il cielo era azzurro e le strade movimentate. Qualche cinguettio veniva coperto dai volgari ronzi dei motori e dal chiasso del centro poco lontano, mentre qualche taxi si fermava lungo la strada e dei lavoratori correvano frettolosi da una direzione all'altra. Chi veniva per una vacanza o chi arrivava da fuori città per lavoro aveva con sé un trolley, le ruote dei quali venivano trascinate tra i sanpietrini e i buchi lungo i marciapiedi, provocando quel rumore che alla mente per sempre mi riporterà i ricordi delle vacanze, e intanto gli studenti camminavano svogliati verso la scuola e qualche anziana si sporgeva dal balcone.
Rivolsi uno sguardo alla targhetta dell'indirizzo per avere l'ennesima conferma di trovarmi nel posto giusto, poi diedi un occhio a quella sottostante, ben più grande e in ottone, sulla quale erano incisi i caratteri Studio legale avv. Rivera, che a leggerli mi venne spontaneo trattenere il respiro.
Sospirai. Alzare i miei piedi dal suolo divenne improvvisamente difficile: il cervello comandava di fare qualche passo avanti e allo stesso tempo rifiutava di concedere alle gambe di muoversi.
Non vedevo l'ora di rivederlo e di stringergli la mano, eppure non avrei voluto altro che essere lontana da lui.
Raggiunsi il campanello trascinando al suolo i piedi come se fossi stata legata ad un'enorme e pesante palla di cemento che mi trascinavo dietro.
Raggiunsi con la mano tremante e l'indice teso il campanello, e con il polpastrello premetti dolcemente. La porta scattò e sobbalzando mi risvegliai dallo stato di trance.
Con la mano spinsi sulla maniglia in ferro battuto che mi rinfrescò il palmo caldo e sudaticcio per l'emozione.
La porta pesava, era vecchia e scricchiolante. Stridette nell'aprirsi e si richiuse violenta alle mie spalle creando un frastuono che rimbombò per l'intera scalinata.
Quasi faticai a vedere i gradini per quanto buio fosse lungo le scale se solo messo a confronto con la luce che era al di fuori del portone.
Salii le scale di pietra del palazzo lasciando che l'umidità delle mura vecchie più di cent'anni mi penetrasse fino alle ossa.
La porta dell'ufficio era aperta, e l'ufficio era talmente luminoso da dare luce anche alle scale.
I raggi del sole entravano dalle vetrate che avevano vista sul centro, e le pareti bianche della segreteria li riflettevano come specchi.
In netto contrasto con quello che fino a quel momento avevo visto dell'interno del palazzetto, tutto era luminoso, e tutto sembrava studiato per dare più luce possibile allo studio.
Quasi mi venne da socchiudere gli occhi per la troppa luminosità.
Il rumore dei miei tacchi sul suolo cambiò nel momento in cui misi piede sul linoleum chiaro.
Dall'ingresso intravidi una stanza con mobili imponenti, con ante e cassettoni, ed una donna sui quaranta, con il telefono incastrato tra la spalla e la guancia in una posizione poco naturale mentre con le dita veloci digitava qualcosa sulla tastiera del computer, era seduta dietro ad una scrivania bianca con qualche pratica appoggiata al di sopra.
Si sporse leggermente in direzione della porta e mi sorrise.
Con l'indice alzato mi fece segno di attendere.
«Resti in linea.» Disse al telefono con tono cortese, e poi fece scorrere lontano dalla scrivania le rotelline della sedia d'ufficio dalla quale si levò in piedi venendomi in contro.
«Anastasia Colombo?»
Annuii, mi schiarii la voce, e risposi: «sì».
Sorrise dolcemente, forse per pietà, conoscendo meglio l'uomo con il quale mi sarei dovuta intrattenere per qualche minuto, e poi camminò sparendo in un corridoio, ma non prima di avvertirmi stesse andando ad informarlo del mio arrivo.
Intanto aspettai, attonita e stordita dalla luce.
Metabolizzai la consapevolezza del non essere nel mio territorio: non mi trovavo all'interno dell'azienda, non lo stavo per incontrare nell'ufficio della Rubini, fuori dal quale nemmeno era inciso il suo nome sulla targa.
Non stavo per entrare nell'ufficio di Valentini nel quale l'avvocato Rivera era solo ospite, ma anzi, di lì a poco mi sarei trovata nel suo ufficio, senza nulla di a me familiare vicino.
Giacevo nel territorio di un branco di lupi rivale al mio e stavo per entrare nella tana del capobranco... e avevo paura.
Sul mio petto una collana d'argento luccicava riflettendo la luce del sole, la pelle si scaldò ed il calore cancellò l'ultima traccia d'umidità lasciatami dalle scale, ma ora l'aria divenne troppo secca. La collana si alzava e si riabbassava seguendo il movimento del mio petto, sempre più veloce e sempre meno costante.
L'ansia la odiavo, mi stringeva la gola e mi premeva sul petto.
Iniziai a vedere sfocato, dalla porta aperta mio fratello entrò nella stanza e mi venne vicino, una voce quasi stridula passò in secondo piano, tanto che non riuscii a percepirne le parole, poi venne quella dell'avvocato, profonda e calda, capace di zittire mio fratello che di lì a poco avrebbe parlato.
Qualcosa mi toccò il braccio, la figura dell'avvocato divenne nitida, si posizionò al posto di mio fratello che svanì nell'aria come una nube di fumo.
L'avvocato era di fronte a me, piegato sulle ginocchia per potermi guardare negli occhi probabilmente lucidi, e intanto con una mano mi stringeva il polso.
«Stai bene?» Chiese, mentre le sue iridi oscillavano da un mio occhio all'altro, velando uno sguardo preoccupato con quel suo solito fare austero.
Annuii, cercai fiato e voce, e anche un «sì» sussurrato mi sembrò richiedere più energie del dovuto.
Ma non stavo bene. Io non stavo bene e lui lo sapeva tanto quanto me, ma non insisté per non mettermi a disagio.
L'avvocato si alzò. «Vieni con me», disse.
Obbedii sebbene distrutta. Mi alzai e lo seguii fino al suo ufficio.
La porta rivelò l'ambiente del lupo, nel quale una scrivania nera in vetro temperato dominava tra le pareti altrettanto scure.
L'ufficio deve esser stato molto più grande di quanto sembrasse, altrimenti le pareti nere l'avrebbero fatto risultare piccolo e schiacciato.
I colori erano freddi, lo erano gli arredi, il pavimento, il lampadario e persino i quadri.
«Prego, siedi.» Indicò una poltroncina.
Lui si sistemò sulla poltrona di fronte alla mia, intrecciò le dita di una mano con quelle dell'altra e si appoggiò alla scrivania sporgendosi verso di me.
Alle sue spalle intravidi delle copie di codici civili e penali, dei libri sulla filosofia, altri sulla psicologia, ed altri ancora di letteratura.
Era un uomo colto, ma questo già lo sapevo.
«Cosa è successo di là, Anastasia?» Quasi mi parve di vederlo sporgersi ancor di più verso di me, la camicia si tese sul suo petto e sulle sue braccia, il tessuto salì e scoprì i polsi.
Si massaggiò il mento rado.
«È solo stanchezza.» Gli rifilai la scusa per eccellenza.
L'avvocato annuì: sapeva gli stessi mentendo, ma non avevo intenzione di parlargliene, e lui non pretendeva risposte credibili. Voleva fare la galanteria del domandare, probabilmente per lavarsene le mani nel caso un giorno mi fosse successo qualcosa. Poco gli importava di me.
«Dunque, c'è qualcosa che tu vuoi che io sappia?»
Scossi la testa. «Questo incontro non ha senso.» Non sarei mai riuscita a parlarne con lui.
Sollevò una gamba e poggiò la caviglia sul ginocchio della gamba opposta, si sporse avanti sulla sedia poggiando i gomiti alla scrivania e prese a fissarmi le mani che giocherellavano nervose. Intanto mi arrivò una ventata del suo profumo. Sentii ogni parte di questo: le note di testa, di cuore e di fondo.
Per un attimo pensai al fatto che ogni profumo è su ciascuno di noi differente, e che quindi quell'odore non l'avrei mai più risentito se non dalla sua pelle, e probabilmente di quel stesso profumo, se sentito da qualcun altro, mi sarebbe mancato proprio ciò che era il suo odore ad aggiungere.
«Forse vuoi raccontarmi del tuo rapporto con il figlio di Rubini, cosa ne pensi?»
Arrossii. Era per tutti così evidente?
«Ci siamo frequentati per qualche mese quando ho iniziato a lavorare per la Rubini.» Gli dissi, forse con il malato intento di alleggerire la colpa che sarebbe andata a pesare su Marco.
Una cosa del tipo è vero, lui ora sta andando oltre, ma è colpa mia che ho voluto frequentarlo. Avrei dovuto capirlo prima e non approfondire una conoscenza che in qualche modo avrebbe potuto dargli il consenso di prendersi il mio corpo anche dopo l'aver chiuso con lui.
L'avvocato annuì ed un suono grottesco gli graffiò la gola.
«Poi cos'è successo?»
Si buttò all'indietro sullo schienale della poltrona, ancora portò una sua caviglia sul ginocchio opposto mentre a braccia conserte attendeva una mia risposta.
Aprii la bocca per parlare, ma qualsiasi cosa stessi per dire mi morì in gola.
Rivera sorrise. «Io so già come comportarmi, ho visto a sufficienza il giorno della riunione. So già cosa devo fare, e tutto ciò che ti chiedo è dunque di approfondire la situazione per permettermi di muovermi nel migliore dei modi.» Sospirò. «Si tratta di aiutare me nel svolgere un buon lavoro, e quindi anche di aiutare te stessa, perché questo non ricapiti.»
Deglutii. «Ho scelto io di frequentare il figlio di Rubini, ma le cose sono andate male e...»
«E ora lui è fin troppo assillante, allunga le mani e tu non sai più come liberartene.» L'avvocato mi interruppe.
Annuii ancora, lui sorrise soddisfatto.
Amava aver ragione.
«È violento?»
Arrossii. «Solo nell'ultimo periodo.»
«Vuoi dirmi cosa ti fa?»
Scossi la testa. «Non lo fa a posta, è sempre ubriaco, non vuole davvero farmi del male.» Lo giustificai ancora.
L'avvocato appuntò qualcosa. «Ho bisogno solo che tu mi racconti un episodio successo, me lo faccio bastare.»
«No.» Dissi. «Non voglio.»
Annuì. «Preferisci che prima io ti spieghi cosa accadrà? Così ti prendi il tuo tempo, ti tranquillizzi un po', e poi piano piano mi racconti meglio?» Non gli risposi, e allora lui prese a parlare. «Ovviamente verrà sporta denuncia.» Cominciò.
Sobbalzai, spaventata anche solo dall'idea.
«Voglio aspettare.» Dissi irremovibile interrompendolo.
L'avvocato mi puntò contro una penna stilografica.
«Sai, Anastasia, qual è l'errore più comune delle donne» si prese una pausa e poi si corresse «o delle ragazzine» sghignazzò «nella tua stessa situazione?»
Rimasi zitta, ancora palpitante.
«È l'eccessiva fiducia nel tempo.»
Sciolse le gambe, si sporse verso di me e avvolse attorno ad un suo dito la ciocca di capelli che mi copriva appena il volto.
«Il tempo non ti è amico. Niente si risolverà aspettando, niente passerà con un po' di pazienza, e tu hai bisogno di tranquillità.»
Scossi la testa. «Ho chiesto di aspettare.» Dissi quasi con prepotenza.
Ero talmente spaventata da dimenticare chi avessi davanti.
«E io ti ho detto che aspettare non è sano.» Rivera inclinò il capo quasi stesse cercando di entrare nella mia testa. Incrociai le braccia in segno di chiusura: non l'avrei lasciato entrare nella mia testa ancora una volta. Lui se ne accorse e sorrise.
«Va bene Anastasia», il suo sorriso divenne arrogante, «sentiamo cosa vorresti fare.»
«Aspettare che la situazione si aggravi.» Solo dopo averlo detto ad alta voce mi resi conto di quanto stupido fosse.
L'avvocato si tirò in piedi, con le mani si poggiò alla scrivania, ricurvo e con il volto ad un soffio dal mio mi alzò il mento con due dita.
«Non aspetteremo.» Disse ligio.
D'un tratto sentii la voglia di obbedirgli ed il bisogno del compiacerlo, ma era una conversazione troppo seria per cedere.
«Non è lei a decidere.» Balbettai io, sussurrando, mentre ancora i miei occhi erano fissi nei suoi e i suoi nei miei.
«Non lascerò vincere la tua incoscienza.» Rivera batté la mano sulla scrivania. Nel silenzio della stanza quel colpo venne percepito dalle mie orecchie quasi come un boato. Sobbalzai e avvicinai le ginocchia al petto per lo spavento, intanto l'avvocato raggirò la scrivania, a braccia conserte e con sguardo fisso su di me.
L'occhio gli cadde sulle mie decolleté appoggiate alla seduta della sedia, rabbrividii all'idea dell'avvocato arrabbiato, ma parve ignorare la situazione.
Tentai di controllare il ritmo del respiro, di calmare l'attacco di panico che stava per dilagarsi per l'intero mio petto. Dovevo rimanere lucida, dovevo imparare a controllare l'improvvisa paura che spesso si impadroniva di me senza un vero motivo.
«Il giorno in cui verrai da me piangendo perché lui avrà frugato sul tuo corpo, preferirò mille volte essermi sbagliato anziché sentirmi dire un avevi ragione tu
Sospirò non vedendo alcuna reazione da parte mia. Mi venne ad un passo, alto il doppio di me, con la mano mi accarezzò un ginocchio che quasi con possessione stringevo avvicinandolo al petto e mi sfiorò il viso che subito nascosi tra le ginocchia.
«Non volevo farti spaventare.»
Accettò la mia debolezza e l'assecondò. Con delicatezza prese le mie gambe, fece scendere i piedi dalla sedia e li riappoggiò a terra. «Ti faccio così tanta paura?»
Mi carezzò il viso. Avevo iniziato a tremare.
«Ti sto aiutando, che tu mi creda o meno.» E poi si piegò sulle ginocchia per mettersi alla mia altezza.
«Ora non mi parli più?» Sforzò un sorriso. «Guarda che lo so che per te non è situazione semplice.» Parlò ancora.
Sentii dei passi, alzai lo sguardo per rivolgerlo alla porta dalla quale vidi entrare mio fratello che si fece sempre più nitido.
«Cresci, Ana.» Mi rimproverò.
Qualcosa non andava, ed io lo sapevo.
La mano di Rivera si appoggiò sulla mia gamba, mi concentrai su quel contatto e mi sforzai di guardarlo negli occhi per non vedere più mio fratello che, a braccia conserte, mi fissava ad un passo dalla porta della stanza.
«Mi sento come Cappuccetto rosso nella pancia del lupo.» Riuscii a sussurrare.
L'avvocato rise. Una risata sincera, calda e roca uscì dalla sua bocca graffiandogli la gola, mentre un sorriso sornione si aprì nel suo volto, lasciando apparire due timide ma sfrontate fossette.
«Ti ho fatta sorridere.» Pavoneggiò.
Mi bloccai, confusa, poi mi resi conto che i muscoli del mio volto si erano contratti in un sorriso senza che io me ne accorgessi.
Mi carezzò una guancia e cambiò espressione. «Vuoi dirmi cosa non va?»
Mi adombrai anch'io. Rivolsi uno sguardo veloce a mio fratello: sembrava arrabbiato.
«Coraggio, di' cosa ti prende.» Mi disse con scherno.
Rivera si voltò verso la porta per capire dove io stessi guardando e storse il naso. «Guardami Anastasia.» Emanò l'ordine.
Anastasia, il mio nome detto da lui, scandito dalla sua bocca, dalla sua lingua, dalle sue labbra, ed espresso con la sua voce che con dolcezza mi giunse fino alle viscere, talmente bassa da portare le frequenze al mio stomaco che si contorceva per lui.
Anastasia, fu come la parola d'ordine a fine ipnosi.
Mio fratello sparì.
«Voglio che mi dici cosa non va.»
«Io non vado.»
«Tu non vai?» Rivera si alzò e rise. «Se fossi tu a non andare non saresti qui.»
«Ho sbagliato io. L'ha detto lei stesso quando ci siamo visti per la prima volta: sono un'incosciente e mi caccio in pessime situazioni.» Sospirai.
«Mai, Anastasia» disse, «mai dare la colpa alla vittima.»
Mi infastidii nel sentirmi chiamare vittima, tuttavia lo conoscevo a sufficienza da sapere che ribattere sarebbe stato controproducente, così mi arresi a lui e lo accontentai, perché tanto prima o poi avrei fatto ciò che lui avrebbe voluto, ed era meglio sbrigarsela il prima possibile.
«Va bene, ho capito. Continuiamo e faccia come ritiene.» Pronunciai con stanchezza mentre lui confuso mi rifilò un'ultima carezza prima di tornare dal lato opposto della scrivania.
Si mise seduto e riprese a parlare per svariati minuti senza che io l'ascoltassi: ero troppo impegnata a guardare le sue mani mentre sfilava dall'anulare la fede e ci giocherellava distrattamente.
Maledissi mille volte quell'anello simbolo del limite che era tra noi.
Si accorse del mio sguardo perso. «Mi stai ascoltando?» Chiese.
Alzai lo sguardo sul suo volto e lui sorrise quasi con tenerezza.
«Perché non sorride più spesso?» Domandai. I sorrisi gli stavano bene addosso, ma era raro vederglieli in volto.
«Perché quando sono preoccupato per qualcosa opto per la serietà.»
Mi toccai il petto con l'indice indicandomi. «Per me?»
Lui annuì. Annuii anch'io.
«E proprio perché è qualcosa di importante ho bisogno che tu mi ascolti.»
Mi gettai sullo schienale della sedia con fare esausto e teatrale.
«Ma io non ne ho voglia.» Lagnai.
L'avvocato alzò un sopracciglio, indagatorio. «Come? Non hai voglia di ascoltarmi?»
Ed io sapevo non si stesse riferendo a nessun ascoltare impegnativo, ma al semplice atto del godermi la sua voce.
«No.»
«Sarà bene che tu ascolti cosa ti dico, fai uno sforzo.»
«Antipatico.» Sbuffai.
Sogghignò. «Ah sì?» Sembrò riflettere sul da farsi. «Vuoi dirmi che scarpe porti?»
«Perché dovrebbe importarle?»
«Sto solo facendo l'antipatico come dici che io sia.»
«Cos'hanno di importante delle scarpe? Chiesi.
«Ѐ importante l'obbedienza. La calzatura che porti è solo un modo per testarla.» Disse con chiarezza, probabilmente dando per scontato che io accettassi la sott'intesa supposizione che fosse un gioco da me gradito.
Voleva dominare su di me, ma a che scopo?
«Sa essere uno stronzo quando vuole, lo sa?» Lo sfidai.
Si rimise la fede al dito. «Partendo dal presupposto che io sappia già tutto, non credo sia la parola adatta al contesto.» Si guardò per un attimo la mano con l'anello. «È inutile darmi del lei per una questione di rispetto ed educazione e poi considerarmi uno stronzo.»
Protesi il mio corpo in avanti e mi appoggiai con i gomiti alla scrivania sfidandolo.
«Quindi se smetterò di darle dello stronzo e le porterò rispetto potrò darle del tu?»
Lui alzò un angolo della bocca in un ghigno mentre con la mano si massaggiava il mento. «Di certo non qui.»
«E dove?»
«Non nel mio ufficio e non in queste circostanze.»
«Quindi mai?»
Sorrise. «Esattamente.»
«Ripropongo: stronzo.»
Nei suoi occhi vacillò del divertimento.
«Ripropongo: che scarpe porti?» Imitò il mio gioco.
Arrossii.

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