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Le nostre paure sono molto più
numerose dei pericoli che corriamo.
Soffriamo molto di più per la nostra
immaginazione che per la realtà.

Lucio Anneo Seneca


Il controllo per me è sempre stato un grosso ostacolo.
Lo è stato nel momento in cui cercavo di limitare le mie ansie, che dopo esser state zittite per un certo arco di tempo, recuperavano il silenzio ferendomi più del solito costante al quale mi ero abituata, e lo era quando tentavo di controllare i miei rapporti sociali.
Avevo bisogno di avere tutto sotto il mio controllo, specialmente quando dovevo svolgere attività con altre persone.
Ricordo in particolare una giornata, e permettetemi quindi di fare una digressione con la promessa che sarà breve: ero a scuola in un pomeriggio di primavera del mio secondo anno di liceo musicale, nel mese in cui ognuno di noi era immerso in pieno nelle preparazioni del concerto finale.
La mia scuola era quel tipo di istituto che qualsiasi adolescente avrebbe desiderato frequentare. Tutti andavamo d'accordo dalla prima alla quinta. Ci comportavamo come se fossimo stati a casa, d'altronde chi meglio di noi, che passavamo anche i pomeriggi a scuola per lo studio musicale, si sarebbe sentito a proprio agio in un istituto?
Ricordo che eravamo tutti dannatamente stanchi e pieni di lavoro, poiché il mese di maggio è da sempre il peggiore per uno studente, e oltre allo studio che un liceo richiede, in quel periodo eravamo tutti sottopressione per i saggi e il concerto di fine anno.
Eppure eravamo felici, perché per quanto fosse impegnativo e stancante passare tutte quelle ore a scuola, era bello fare musica insieme.
Quel giorno faceva caldo, e all'una e mezza tutti gli alunni si sarebbero ritirati all'interno delle proprie aule di laboratorio, in cui non saremmo più stati studenti di una determinata classe, ma bensì dei musicisti ancora a metà, di età differenti, che avrebbero riso e suonato insieme per un intero pomeriggio, che si sarebbero conosciuti sempre di più, che si sarebbero voluti bene e detestati.
Io però, tutto questo lo vivevo soltanto una volta preso il controllo della situazione.
Dovevo sapere dove mi sarei dovuta sedere, chi avrei avuto di fronte, dietro, e ai lati; con chi avrei dovuto condividere il leggio e quanto alto avrei dovuto tenere il poggiapiedi.
Per questo ero entrata in aula con largo anticipo, chiesto al professore la scaletta delle prove, domandato la cartina in cui erano scritti i nostri posti, e sistemato con religiosa cura ogni mia cosa.
Ora sono seduta, ho la mia chitarra in braccio, il leggio riesce a tenere la tovaglia di fogli A4 che avevo scrupolosamente incollato l'uno accanto all'altro, la chitarra non mi scivola via dalle gambe e non ho troppo caldo, perché mi sono ricordata di raccogliere i capelli. Di fronte a me viene a sedersi un ex studente, alla mia sinistra una compagna di classe e a destra un chitarrista di quinta; dietro di me è il posto di uno dei docenti, ed io sono felice, perché ho saputo quali sarebbero stati i loro posti ancor prima che loro si sedessero.
Ero felice di avere tutto sotto controllo.
Mi passò accanto uno dei ragazzi più popolari dell'istituto che con fare spocchioso ci aveva comunicato che da bravo temerario avrebbe indossato dei boxer viola durante la giornata del concerto finale.
Sacrilegio! Il professore superstizioso perse un quarto d'ora a pregarlo di non indossare il viola, che era il colore sfortunato degli artisti, ma che per una bizzarra coincidenza era anche il mio colore preferito.
Quel ragazzo si era mosso sinuoso tra i manici delle chitarre e mentre si andava a sedere al suo posto mi aveva toccato la paletta del mio strumento con la paletta del suo per salutarmi.
Ecco, in quel momento provai tanta invidia: se io fossi entrata cinque minuti in ritardo come lui aveva fatto, e mi fossi ritrovata in una stanza con altri venti chitarristi che inevitabilmente mi avrebbero guardata, senza sapere quale sarebbe stato il mio posto, se ci fosse stato un poggiapiedi anche per me, o quale brano avrei dovuto suonare per primo, sarei entrata nel panico.
Io avevo paura della paura. Io, avevo paura di ogni emozione forte, e questo il mio corpo l'aveva tradotto in ansia, che per evitare pretendevo di avere il controllo su ogni cosa, anche la più piccola ed insignificante.
Io avevo bisogno di tenere tutto sotto il mio controllo, mentre quel ragazzo di quarta superiore no.
Solo una volta arrivata a Milano, ogni mia ansia sembrò sparita.
Milano mi faceva questo effetto: mi guariva.
La paura veniva travolta dai tram, schiacciata sotto ai tasti della tastiera del computer del mio ufficio e sbattuta da un lato all'altro della metropolitana mentre io rimanevo ferma con una mano stretta ai sostegni della metro. Il vuoto che l'ansia scavava sul petto veniva riempito dalle musiche degli artisti di strada, e il chiasso dell'angoscia veniva coperto dai rumori della città.
Ma ora che mi trovavo nuovamente di fronte al controllo, non riuscendo a gestire il mio nuovo incontro con l'avvocato proprio perché non sapevo quando l'avrei rivisto, e perché insieme alla sua presenza ero a stretto contatto anche con la parte passiva del controllo, e cioè la posizione di chi sottostava al dominio di un uomo maturo e manipolatore che con il controllo era abituato a giocare, mi sentivo persa.
Era più abile di me, mi faceva sentire impotente, ed io l'odiavo.

Princeps LuxuriaeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora