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Ora mi sento come se
stessi aspettando qualcosa
che so non arriverà mai,
perché adoro illudermi e sperare.
Ti senti più vivo quando lo fai.

Charles Bukowski


Barcollavo da un lato all'altro del marciapiede su due tacchi che detestavo, con la testa tra le nuvole e il respiro ancora in affanno.
La sua voce, il suo odore, le sue mani su di me, i suoi occhi, il sorriso che era raro vedergli in volto, ed il mio nome che avido teneva fra le labbra, masticava, torturava e sferzava con la lingua.
A-na-sta-sia. La lingua che gli batteva una volta sul palato e poi una sui denti e che mi scuoteva da un lato all'altro della bocca.
«Cosa gli devi dire?» Camilla moriva dalla voglia di sapere, e quasi seccata domandava, probabilmente per paura di esser stata lasciata al di fuori di qualche mia faccenda.
Rispose Mitch al posto mio, abile nel mentire e con una prontezza allucinante.
Che tu sia benedetto Mitchell Reed.
«Hanno in sospeso un lavoro per la Rubini, ma prima di procedere legalmente l'avvocato preferisce leggere gli studi fatti da Ana.» Saltellò per schivare un buco nel cemento del marciapiede.
Lui le sapeva mentire così bene, e forse proprio perché non temeva le naturali psicanalisi alle quali lei ci sottoponeva regolarmente ad ogni gesto e parola.
Lui era calmo, non muoveva in modo nervoso le braccia, ed anzi aveva rallentato il passo, si era affiancato a lei, l'aveva guardata dritto negli occhi e aveva parlato accompagnandosi con un fluente gesto della mano, nella più totale tranquillità.
«Come puoi avergli permesso di trattarti così? Sei tu che lo fai entrare nella tua mente, non puoi fare così.»
Due occhi color ambra si puntarono accusatori su di me, impazienti di ricevere una risposta, ed io non avevo ascoltato. Ricordai i suoni che avevo sentito ma ai quali non avevo prestato alcuna attenzione, li collegai l'uno all'altro e capii la sua affermazione, ma ormai era trascorso troppo tempo per risponderle.
Dannazione!
Mitch mi salvò una volta ancora. «È lui, che la costringe a lasciarlo entrare. Lasciala stare adesso, è già abbastanza stanca.»
«Sto bene.» Tentai di smentirlo.
Intanto Adele se ne stava zitta, ci seguiva guardandosi attorno, senza entrare nella conversazione, senza intervenire, e probabilmente senza nemmeno ascoltare.
Ci fu finalmente del silenzio. Nessuno parlò più, né Mitch, né Camilla, ed intanto camminammo verso casa mia.
Non avevamo preso subito la metropolitana, non ne avevamo voglia.
Milano la notte era bella da morire.
Mi curava, mi faceva sentire a casa. I suoi rumori colmavano i miei silenzi, le sue luci illuminavano anche dove sentivo il buio più totale, la sua vita mi contagiava e mi riempiva il vuoto sul petto.
Quando stavo male uscivo. Chiamavo Camilla e prendevo spesso la metro, perché era bella anche lei. Mi piacevano via Montenapoleone e via della Spiga, amavo i Navigli e piazza Duomo, amavo i palazzi moderni, tutte quelle luci e i tram, ma stavo bene anche nelle piccole vie che i turisti non conoscevano, che puzzavano di piscio di gatto e che erano piene di graffiti.
E poi c'erano le stradine tranquille e curate, in cui si sentivano i profumi di sugo e polpette cucinate da qualche donna che viveva in quelle tante case impilate l'una sopra l'altra, e all'apice della bellezza c'erano i parchi in cui andavo a leggere perdendo la cognizione del tempo.
Avevamo preso la metropolitana poco dopo la mezzanotte, stanchi per la camminata e in silenzio, per la tensione nell'aria, densa e asfissiante.
Adele non aveva detto nemmeno una parola, Mitch ci aveva provato invano per smorzare quel clima soffocante, e Camilla stava probabilmente riflettendo per dare ad ogni cosa un senso logico con l'aggiunta di un'accurata psicanalisi. Io pensavo, ancora con la voce dell'avvocato Rivera nella mente, senza spiegarmi come riuscisse a piegarmi in quel modo a lui.
Ripensai a quando Camilla mi aveva spiegato come funzionasse la manipolazione.
La vittima, cioè io, secondo ogni studio riguardante la manipolazione, è un individuo con un forte bisogno di approvazione.
Ammettere a me stessa mi mancassero sicurezza e autostima tanto da portarmi ad avvertire la necessità dell'approvazione di una persona con un carattere dominante fu difficile; non lo accettai e lo ignorai.
L'insicurezza era per me parte del mio passato, ed il passato era come un armadio chiuso a chiava, con tanti scheletri al suo interno, e da non riaprire più.
Ero convinta che Milano mi avesse completamente curata, quando in realtà la ferita era guarita solo in superficie, e dentro ancora era aperta.
Per me, ogni taglio del passato, era stato coperto da un cerotto color carne, e sarebbe dovuto rimanere lì, nascosto, insieme all'insicurezza; ma quando ti avvicini alla pelle lo noti che c'è un cerotto, sebbene ben mimetizzato, e se lo togli il segno c'è ancora.
Ero arrivata alla conclusione che Alexander Rivera, riportasse a galla tutte le cicatrici che tenevo nascoste, riaprendole una ad una e facendomi tornare quella che ero prima di Milano.
Fui terrorizzata da quell'idea, e l'unica mia via di fuga era Camilla, con ogni sua conoscenza sulla mente umana.
«Come posso difendermi dalla sua manipolazione?»
Non chiesi altro, non usai parole diverse sapendo che con quelle Camilla avrebbe inteso le stessi confermando di non saper resistere all'avvocato. Le stavo chiedendo aiuto.
«Vedi, tu ti trovi di fronte ad una persona probabilmente già instabile mentalmente, che cerca di esercitare volontariamente il controllo su di te, godendo e uscendone compiaciuto ogni qual volta tu lo faccia sentire superiore.» Sospirò. «Probabilmente hai a che fare con un gran narciso, che sa essere quello che nel tuo subconscio desideri.»
Mitch, che fino a prima stava sussurrando qualcosa all'orecchio di Adele, si era voltato verso di noi, attirato dalle parole di Camilla, e Adele aveva sbarrato gli occhi.
Diventai rossa. La spietata sincerità di Camilla, benché più di una volta ne avessi avuto a che fare, mi aveva colta di sorpresa, e con parole complicate per velarne il significato, aveva chiaramente detto fossi attratta da chi sapesse dominare su di me nello stesso modo in cui l'avvocato Rivera faceva: spietato, a tratti violento, rude, ma anche con classe.
«Stai dicendo che non riesce a tenergli testa perché ne è attratta?» Mitch fece chiarezza.
«Perché mai dovrebbe essere attratta da un rapporto così poco sano?» Chiese Adele a Camilla, che con fare materno mi circondò con un braccio carezzandomi una spalla.
«Sto solo ipotizzando, e anche fosse non sarebbe niente di strano.» Sorrise. «Ora basta così: quello che volevo sapesse l'ha capito.»
Quella donna era tanto brava a creare situazioni difficili quanto a chiuderle. D'altronde nessuno osava andarle contro quando lei prendeva una decisione.

Camilla dormì da me. Fui io a chiederglielo, e lei mi accontentò senza fare domande.
Nonostante non fossi sola non mi addormentai ugualmente, ma non venni rapita dal panico come solitamente capitava la notte.
Rimasi ore a guardare le poche luci che spuntavano tra le fessure della tapparella e ad ascoltare i rumori della strada mentre tentavo di controllare il mio respiro e di imitarne a fatica uno profondo e sereno, cosicché Camilla credesse stessi dormendo.
Iniziai a contare le macchine che passavano sotto alla finestra di camera mia per distrarmi, e pian piano mi tranquillizzai.
Una macchina, due macchine, tre macchine, quattro macchine, cinque macchine... ottantasette macchine.
Incredibile quante ne passassero in una stradina dei Navigli nella notte tra il venerdì e il sabato. Qualcuno con auto rumorose, altri con la musica dance al massimo volume e di certi si sentivano le risate.
Alexander Rivera era intanto fisso nella mia mente e non intendeva lasciarla.
Non avrebbe lasciato il posto fisso, no.
Pensai a come risultassero piacevoli le sue mani al tatto. Pensai alla sua pelle ruvida, alla mano grande che mi stringeva il polso che ancora mi sembrava far male. Niente di lui, nemmeno il più piccolo dei particolari, voleva esser dimenticato.
Cento macchine.
Ricordavo ogni cosa. Il colore degli occhi, i filamenti di diverse sfumature dell'iride, le labbra, il modo in cui la lingua batteva sul palato e sui denti nel labiale del mio nome, o dei due schiocchi di negazione di quando avevo parlato con lui dopo la riunione.
Ogni sfumatura della sua voce, le note di testa, di cuore e di fondo del suo profumo, e il suo respiro sempre calmo.
Respirai a fondo mentre con gli occhi guardavo i punti di luce tra la tapparella aumentare e diminuire in base al traffico in strada.
Centosei macchine.
Amavo i rumori di Milano.
Pensai ancora, questa volta a come mi aveva tirata verso sé per evitare che io cadessi, facendomi sbattere con la guancia contro il suo petto.
Mi chiesi se il ricordare ogni cosa così nitida fosse frutto di una buona manipolazione.
Di certo perfino il suo ricordo era presuntuoso come lui, e lo era a tal punto da pretendere di non essere dimenticato.
Niente tacchi, ma io ero insicura della mia altezza. Un metro e cinquantacinque mi avrebbero fatta sentire dannatamente piccola e tozza. Non lo ero, ero proporzionata ed ogni cosa era al suo posto, ma ancora non avevo imparato a volermi bene.
Niente tacchi, ma chi era lui per decidere come mi sarei dovuta vestire?
Centocinquanta macchine. Ormai il sole stava iniziando a sorgere e il traffico ad aumentare: i pendolari cominciarono ad uscire di casa e al contrario chi aveva il turno di notte a rincasare.
Camilla dorme accanto a me, con la bocca leggermente schiusa e i capelli raccolti in una treccia; Merlino, che fino a prima mi aveva dormito accanto, si sposta ai piedi del letto per mordicchiarmi i piedi, poi mi viene vicino e mi lecca il volto, con le zampe mi accarezza gli occhi. Aveva fame.
Duecentodieci macchine.
Smisi di controllare il traffico, mi alzai e lasciai sul bancone una manciata di croccantini.
La mia amica mi raggiunse in cucina, ancora con i capelli raccolti, spettinata e con qualche ciocca che le ricade sul viso.
Avrei voluto essere bella come lei. Pensavo le insicurezze fossero passate, ma per un attimo sentii una morsa allo stomaco e mi balenò per la mente il pensiero di essere inferiore a lei e a tutte le altre donne.
«Nottataccia, vero?»
Le annuii e preparai due caffè.
Non avevo dormito nemmeno per un secondo e non vedevo l'ora venisse il lunedì soltanto per potermi togliere quel peso dal petto.
Due giorni.
Mi interrogai. Pensi di potercela fare?
Sì, non avrei avuto alternativa. Avrei dovuto pazientare ancora un po': modo di accelerare il tempo non c'era.
Intanto ancora pensavo all'avvocato e alle parole di Camilla.
Ero davvero attratta da lui? No, era impossibile.
E allora perché mi faceva quell'effetto? Perché non sapevo ribellarmi? Perché facevo ogni cosa che mi veniva detta? Era soltanto un bravo manipolatore, certo.
Riflettei. Dovevo ascoltare il mio corpo, me l'aveva detto Camilla.
Cos'era quella sensazione tra lo stomaco e lo sterno? Non la sapevo riconoscere. E le gambe spossate? Nemmeno. Il tremore delle mani? Le palpitazioni? Il fiato corto?
Non ne leggevo il significato.
Ma perché non riuscivo a dimenticarlo?
Perché? Perché? Perché?

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