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Se guarderai
a lungo nell'abisso,
Anche l'abisso vorrà
guardare in te.

Edgar Allan Poe


Nel buio più totale riecheggia il suono di una chitarra scordata.
Suona una barcarola. Il ritmo uniforme del basso, quasi ostinato, richiama il moto lento delle onde e la vogata di una gondola veneziana che oscilla nei canali della laguna.
Si aggiunge un violino, scordato anch'esso, ma non suona con la chitarra, ed anzi prende tempo e ritmo differenti, un andamento più veloce e isterico con suddivisione in tempo semplice opposta alla logorante lentezza della barcarola in suddivisione ternaria.
La barcarola altro non può ricordare che Venezia.
Venezia, la città in cui andavo a dare esami al conservatorio Benedetto Marcello e dove mio fratello viveva e studiava.
Venezia, tanto bella e viva quanto macabra e malinconica.
Venezia, la culla della musica classica.
Qui Wagner amava riposare, qui suonò alle undici di sera di un giorno del febbraio del 1883 il Lamento delle figlie del Reno; quella fu l'ultima volta in cui suonò qualcosa.
Wagner morì tra le braccia della moglie Cosima il giorno seguente, all'interno del Palazzo Vendramin sul Canal Grande, a Venezia.
Sempre a Venezia, soltanto un anno prima e quasi per premonizione, Liszt compose La lugubre gondola, pezzo del quale ne esistono tre versioni: due per pianoforte ed una per pianoforte e violoncello, nato da un sogno fatto dal compositore.
Immaginate ora una gondola funebre che scivola lentamente sulle acque di Venezia, trasportando un feretro verso il luogo del riposo finale, e poi ponetelo in musica con l'estremamente moderno linguaggio di Liszt.
Venezia, che sa essere tanto allegra quanto triste.
Questa sera, in questa città, sul secondo gradino di un ponticello vuoto di gente, io siedo a terra con le gambe vicine al petto, e guardo dalla ringhiera il piccolo canale che mi è di fronte.
È buio, le fioche luci di quella via poco famosa brillano riflesse nell'acqua piatta lievemente accarezzata dalla brezza marina. Da lontano scorgo la piazza più luminosa della città, dalla quale giunge il rumore della gente.
Solo certe vie di Venezia, riposano nelle notti del finesettimana.
Vedo la vita da lontano, mentre io respiro quell'aria macabra che mi ghiacciava le ossa con la sua fredda umidità.
Ancora violino e chitarra suonano in totale dissonanza due brani che sono l'uno l'opposto dell'altro, in tempi differenti, dissonanti. Vorrei tapparmi le orecchie, ma non riesco a farlo, e le mie mani restano aggrappate alla ringhiera del piccolo ponte mentre la mia espressione si fa sempre più dolente, con l'avvicinarsi dell'inquietante musica che si è creata tra i due strumenti che avanzano su una gondola del canale sottostante al ponte in cui sedevo.
Il gondoliere canta. Il lamento rauco di un vecchio si avvicina. Ora tutto si zittisce all'improvviso dopo aver raggiunto l'apice del chiasso. Solo le vogate lente che tagliano l'acqua riempiono l'aria; la gondola intanto attraversa il ponte, il gondoliere sospira stanco e si allontana.
Adesso è il troppo silenzio ad affliggere dolore alle mie orecchie.
Nell'acqua si allunga un'ombra nera, s'ingrandisce sempre di più fino a materializzarsi al di fuori dell'acqua. Ne arrivano altri. Sono lunghi e magri, ne posso vedere gli scheletri, ed i volti sono allungati, scavati, con dei buchi al posto degli occhi.
La bocca larga, e dei denti appuntiti escono dalla cavità.
Si avvicinano verso di me, io mi stendo sulla scalinata del pontile vicino al ponte, le sue dita sottili come grissini si aggrappano alle mie caviglie e le sue unghie affilate affondano nella mia pelle.
«Va tutto bene Ana.» Ѐ la voce di mio fratello. La stessa voce della quale tanto avevo sentito la mancanza, che ovunque avevo cercato e che ancora continuavo a cercare.
Mi fido di lui, e allora mi calmo.
Un'ombra mi si piazza di fronte, appoggia le mani sulle mie spalle e mi sbraita addosso qualcosa di incomprensibile ricoprendomi della sua saliva verde e salmastra.
In un attimo mi ritrovo sul fondo del canale, i miei polmoni si riempiono dell'acqua sporca e salata della laguna mentre ancora una volta, da lontano, giunge la barcarola suonata a chitarra.

Il trillo del campanello mi costrinse ad aprire gli occhi.
Sudata, con la gola secca ed il respiro in affanno, mi guardai attorno rasserenata dal trovarmi nella mia camera, con Merlino accanto che, probabilmente preoccupato per me, aveva iniziato a leccarmi il volto.
Ancora suonò il campanello, controvoglia mi alzai, raccolsi i capelli con un mollettone e mi infilai i primi pantaloni della tuta che trovai in mezzo al mucchio di vestiti stropicciati e buttati sulla sedia della camera.
«Se non apri ti butto giù la porta.»
Sorrisi mentre giravo la chiave per aprire la porta dietro la quale il mio migliore amico, con un musino stanco e la mano appoggiata allo stipite della porta, la camicia fuori dai pantaloni e i capelli scompigliati, aspettava assonnato di entrare.
«Cazzo! Che condizioni.» Storse il naso con fare teatrale e ridacchiò.
«Grazie Mitch.» Risposi ironica facendogli strada nel piccolo appartamentino che ormai conosceva.
«Deduco di averti tirata giù dal letto.»
Si stravaccò sul divano con quegli occhioni di chi era in astinenza da caffè.
«Mi hai salvata.»
Preparai due caffè.
Mitch si sfilò dai piedi le scarpe per potersi stendere e si accigliò. «Cos'era questa volta? Venezia o le ombre che escono dal quadro di tuo fratello?»
Sospirai. «Entrambi, ma con leggere variazioni.»
Porsi a Mitch il caffè.
«Da quando hai ripreso a fare questi incubi?»
«Non ricordo.» Gli rifilai una bugia per risparmiarmi l'interrogatorio.
Avevo ripreso a fare quegli incubi dalla stessa notte di quando avevo incontrato l'avvocato Rivera in ufficio, ed ogni mio incontro con lui, aveva una forte incidenza nei miei sogni. Più lui mi manipolava, più lui entrava nella mia mente, più questi si facevano violenti, dettagliati e forti. Più lui giocava con me, più quei sogni sembravano reali e mi spaventavano.
Da quel giorno non ci fu notte nella quale dormii bene, e soprattutto nelle ultime, quando sveglia aspettavo l'alba interrogandomi sulla situazione, mi domandavo se fosse possibile fosse stato proprio l'avvocato a condizionare i miei sogni.
Può un uomo con una grande maestria nella manipolazione, scavare così bene in una persona, fino al punto di riportare a galla i traumi e i problemi mai risolti parte del passato dell'individuo?
No Anastasia, stai dando a Rivera troppa importanza. Smetti di credere che lui abbia in mano la tua vita e taglia i legame mentale che ti illudi di avere con lui.
L'unica cosa che ti fa del male è il tuo stesso subconscio.
«In che stagione è successo?»
Accanto a Mitch si materializzò la figura di mio fratello.
Ignora, mi ordinai.
«Primavera.»
Accadde lo stesso giorno della morte di Da Vinci.
«Avete più saputo niente?»
Mio fratello si mise seduto accanto a Mitch e con una mano gli strinse la mascella.
Scossi la testa. Cominciai a diventare nervosa.
«Non voglio parlarne.»
Mitch annuì con lo sguardo fisso verso la mensola nella quale al centro era posta una fotografia di me, Mitch e Camilla; me l'avevano regalata loro due quando mi decisi a comprare l'appartamento.
Aveva le pupille piccole e gli occhi persi: stava sicuramente pensando a qualcosa. Alla mia sanità mentale, forse, o al mio passato che tanto gli tenevo nascosto.
Stava pensando a quanto fossi cambiata nel giro di pochi giorni, a quanto il mio sguardo si fosse adombrato.
Ma il mio vuoto sul petto era ogni giorno più grande e si ingrandiva ancor di più nelle giornate in cui incontravo l'avvocato.
Poteva la sua presenza farmi talmente bene nell'immediato e poi nuocere al mio umore dalla stessa notte? Che controsenso.
Ero io. Io ero il problema, perché ero abituata ad ignorare il dolore fino a dimenticarlo, ma non appena giungeva anche la più piccola delle cose a sbilanciare il mio equilibrio, ogni cosa che era stata trascurata in passato tornava.
Ero stata stupida, perché non mi ero mai presa cura delle mie ferite e le avevo coperte con dei cerotti color carne per confondere con la pelle.
«Come procede la questione di Marco?» Mitchell Reed non dimenticava.
Merlino gli venne vicino e gli si strusciò addosso quasi a ringraziarlo per insistere a farmi risolvere, e quindi affrontare, la situazione.
«Procede bene.» Bugiarda? Io? Sì, la migliore. Ma per quanto io sapessi di dover affrontare i problemi anziché fingere di non vederli, non ero ancora arrivata nella fase del combatterli.
Sì, perché quando si nota che qualcosa in sé stessi non va, si migliora a step: prima si capisce cosa non va, poi lo si accetta e lo si interiorizza, poi si riconosce uno sbaglio quando lo si compie arrabbiandosi con sé stessi per averlo commesso, malgrado si sapesse sarebbe stato meglio evitarlo, si capisce come evitarlo ed infine lo si cambia.
In quale fase ero io? Forse lo stavo accettando solo in quegli ultimi giorni, poiché essendo il mio problema l'ignorare i problemi, tendevo ad ignorare anche questo.
«Quindi cosa ti resta da fare?» Mitch chiese, probabilmente non convinto.
«Devo aspettare che l'avvocato Rivera mi dica come procedere.» Nemmeno in adolescenza avevo mentito così tanto per occultare una situazione scomoda.
Non avevo mai mentito. Stavo forse avendo un'adolescenza tardiva?
Mitch storse il naso. «Digli di darsi una mossa.» Mi disse seccato.
La sua gamba trotterellava nervosa, era impaziente e avrebbe aspettato ancora poco tempo prima di fare una delle solite sue scenate e risolvere tutto a modo suo.
Ma a parlare del diavolo... sul telefono ancora in silenzioso comparve il numero dell'avvocato.
«Che fai? Non rispondi? Magari ha qualche novità.» Il ghigno beffardo sul volto del mio amico mi fece intendere non avesse creduto nemmeno ad una mia parola.
Avvicinai il telefono all'orecchio.
«Buongiorno.» Balbettai
Intanto Mitch incrociò le braccia con aria soddisfatta.
«A te, Anastasia.»
Dei brividi mi accarezzarono la pelle; se non fossi stata in casa avrei creduto quasi fosse stato il vento a sfiorarmi.
Rividi nel più lucido dei modi il volto dell'avvocato a pochi centimetri dal mio, ed al ricordo di quella sera, della sua coscia premuta sulla mia intimità e delle sue mani che salde mi bloccavano i polsi, un calore mi invase la parte bassa del ventre, le mie gote si scaldarono e presero colore mentre un velo di vergogna mi ricoprì.
Avrebbe potuto farmi di tutto, e nelle condizioni in cui ero mi sarei lasciata fare una qualsiasi cosa.
«Necessito di un incontro. Domattina ho un buco di un'abbondante mezz'ora, posso avvisare la mia segretaria dell'impegno?» Una voce dannatamente roca e matura vagò per il mio stomaco.
Non mi stava domandando se fossi stata libera o se mi andasse di vederlo. Mi stava imponendo quell'appuntamento, mi stava ordinando di incontrarlo. La mia opinione contava gran poco.
Mitch intanto fremeva impaziente di una mia risposta. Attendeva quasi con ansiosa isteria che dimostrassi di avergli mentito, ancora a braccia conserte, ancora con sguardo beffardo.
«Mi permetta, avvocato.» Cercai tono di lusinga, «ma forse si è dimenticato che io, ho un lavoro onesto» dissi infine più ironica.
Stavo dubitando dell'onestà della professione dell'avvocato Rivera? Sì. Volevo sfidarlo? Forse.
Una risata roca risata di scherno gli graffiò la gola. «E sentiamo, Anastasia, cos'ha di più onesto il tuo lavoro rispetto a quello di altri?»
La figura di Mitch si sfocò fino a scomparire. In quella stanza c'ero solo io, con dall'altro lato del telefono, l'avvocato.
Riflettei bene su cosa dirgli, pensai ad una risposta che lo irritasse, che gli facesse intendere volessi parlare del suo lavoro, che era famoso per derubare in modo fintamente giusto povere persone in situazioni difficili.
«Dunque? Lanci il sasso e nascondi la manina?» Fece scoccare la lingua tra denti e palato in tre lievi schiocchi ravvicinati l'uno all'altro in segno di negazione. «Male signorina, molto male.» Quasi mi parve rese più profonda la voce. Mi venne da ansimare il suo nome per telefono.
Alexander. La mia lingua avrebbe battuto due volte sul palato e poi si sarebbe piegata con la punta verso l'alto nella pronuncia della erre mentre la mia voce sarebbe uscita flebile, ed il suono si sarebbe perso e sfumato nel fiato che lui si stava prendendo avido. Il mio fiato avrebbe avuto il suo nome e le mie labbra insieme alla lingua l'avrebbero sagomato.
Mi schiarii la voce e aprii la bocca nel tentativo di dire qualcosa, ma la richiusi pentendomi. Ero in un vicolo cieco e non potevo uscirne.
«Dove vuoi arrivare alludendo all'opinione di disonesto che affibbi al mio lavoro? Che tu non guadagni sui problemi altrui? Che non sfrutti le situazioni difficili dei tuoi clienti per guadagnare? Questo vuoi dirmi?» Rivera colpì ed io incassai in silenzio.
«Rispondimi, Anastasia.» Una calma inquietante. Gli stavo dando del disonesto eppure non sembrava essersi innervosito nemmeno per un attimo. La sua voce bassa, i suoi respiri lenti e silenziosi, il modo in cui scandiva ogni parola alla perfezione.
Ciò che avevo sottinteso non l'aveva toccato, mentre la sua calma mi metteva paura.
Il difetto della pazienza lo si nota al punto in cui questa si rompe, lo avevo letto su un libro.
Temevo a come avrebbe preso il controllo di me una volta portato all'esasperazione e fatto spazientire, eppure non vedevo l'ora di portarlo al limite solo per il gusto di conoscerlo.
Deglutii a vuoto. «Forse, volevo dire qualcosa di simile.»
Lo sentii sospirare e lo immaginai accasciarsi sulla poltrona dell'ufficio quasi la conversazione l'avesse stancato.
«Io lavoro per me, proprio come tu fai. La buona riuscita del mio lavoro equivale alla soddisfazione mia e del cliente. Pensassi prima al bene di uno anziché dell'altro, la riuscita sarebbe la medesima, ma per questo lavoro, c'è bisogno di un notevole distacco dalle situazioni difficili.» Sospirò. «Se io mi lasciassi condizionare dalla tenerezza e dalla compassione, probabilmente sarei molto più debole sia sul lavoro che come persona.»
Arretrai e mi appoggiai al bancone della cucina come a cercare sostegno. Di cosa l'avevo accusato?
«E allora perché mi chiama?»
Ora l'avvocato sorrise, ne fui certa. «Per aiutarti, Anastasia. Non voglio i tuo soldi, voglio solo che tu sia al sicuro.»
Mi sentii in colpa, ora più di prima, e allora mi abbandonai dolcemente al suo volere. «Quando vuole che venga da lei?»
«Ho contattato io il tuo capo. Domattina sei libera. Ti manderò una messaggio con l'indirizzo e l'ora, vieni in ufficio da me, mi è più comodo.»
«Ha bisogno di qualcosa?»
«Bada solo alle scarpe.»
Qual era il senso di quel giochino? Cosa avevano di male le mie decolleté che rimediavano al problema dell'altezza e delle gambe tozze?

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