CAPITOLO 12 - PATER FAMILIAS

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[trigger warning: riferimenti alla violenza domestica e su animali]


Passai il resto della serata a sentirmi in colpa per lo spettacolo e a rimpiangere di aver bevuto. "Eppure, erano solo tre calici" pensavo, in preda agli spasmi "Mai più! Non lo farò mai più".

Probabilmente, gli altri invitati non avevano notato la mia assenza e credevano che mi stessi divertendo, però, rimanere in quell'angolo dei giardini senza il supporto di nessuno mi lasciò in bocca il sapore amaro della solitudine. "Cornelio sarebbe venuto" conclusi, sdraiandomi sull'erba a osservare il firmamento. «Stelle, voi guidate in porto i marinai: è davvero Sabino la meta del mio viaggio?»

Nessuna risposta. Il cielo era muto e i dubbi crescevano. Ulisse e Manto avevano toccato tante coste per giungere a casa, ma io non potevo procedere a tentativi. Se mi fossi concesso a lui, gli avrei dato il mio onore. "No, di più... molto di più" mi avrebbe avuto in corpo e anima, per sempre, perché nessun'altro sarebbe stato il primo. Dovevo essere cauto.

E se lo perdessi? Ci hai riflettuto?

«E se lo perdessi» mormorai sottovoce, con la gola ancora impastata dalla bile. Lo respingevo di continuo e non mi ero mai chiesto se lui ne soffrisse. Per quanto avrebbe aspettato?

Era un azzardo, una prova, un sacrificio... e l'avrei fatto. "Sì, è il momento". Andai alla fontana, mi rinfrescai la faccia e bevvi un sorso. Fu allora che mi accorsi di star piangendo.

«È il vino» singhiozzai tra me, mentre tentavo di recuperare il controllo «È il mal di testa.»

E, proprio in quell'attimo, giunse al mio orecchio un rumore di catene.

«Chi è là?»

Nulla. Ma lo stridio proseguiva, accompagnato da un gemito sommesso.

«Fanciullo?» balbettai, rialzandomi in piedi.

Le luci della villa erano spente e, nei giardini, non scorsi né mortali, né fantasmi, e neppure visioni; finché, come un fulmine improvviso, un bagliore rischiarò le stalle. Durò un istante – appena il tempo per darmi una strada da seguire – e l'imponente edificio tornò nella penombra. I singhiozzi, però, divennero via via più concreti.

«È una premonizione: sfumerà nell'aria» bisbigliavo, cercando di placare i brividi che mi scuotevano le membra «Non c'è nessuno nella stalla». Lo speravo, soprattutto perché non riuscivo a dirigere il mio corpo altrove e, arrivato davanti alla porta, l'aprii senza indugi. Dopo serrai le palpebre, troppo spaventato per guardare all'interno.

I secondi passavano, gli unici suoni erano quelli della notte e io aspettavo immobile, pregando che non accadesse niente. Poi, udii un gemito subito soffocato, seguito dal fruscio della paglia. A differenza dei precedenti, questi erano rumori reali: il mio dono mi aveva condotto laggiù per un motivo, da qualcosa che aveva bisogno di me.

"Un animale ferito?" ipotizzai, addentrandomi adagio. «Non voglio farti del male» mormorai in tono calmo, per quanto mi fosse possibile «Ora ci penso io e tutto andrà... Quinto?» rannicchiato in un angolo, il mio ex-compagno stringeva il corpo esanime di un cane. «Cos'è accaduto?»

«Vattene!»

«Aspetta, magari...»

«Ho detto vattene, provinciale» ringhiò, mentre le lacrime ricominciavano a rigargli le guance.

Ignorai l'ordine e mi chinai verso di lui. «Forse posso aiutarti.»

«Che c'è? Sai resuscitare i morti adesso?» nella sua rabbia c'era un'immensa sofferenza «E smettila di toccarmi! Non ho bisogno di consolazioni: è uno stupido animale e non m'importa niente di lui!»

Acheronta MoveboDove le storie prendono vita. Scoprilo ora