CAPITOLO 5 - UNA SERATA COME TANTE

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Il nonno mi fece entrare in casa e richiuse la porta dietro di sé.

Rimasi a studiarlo immobile. Tremavo ed ero paonazzo, ma lui non se ne accorse: evitava accuratamente di guardarmi, quasi provasse vergogna di avere un nipote come me.

Accennai un passo verso di lui, poi mi ritrassi. «Mi dispiace. Ti giuro, non volevo deluderti, però...»

«Non importa» mi fermò. Era seccato, eppure non aveva intenzione né di punirmi né di biasimarmi.

«Non sono pronto. Non potevo...»

«Potevi non metterti a piangere» sibilò, imboccando il corridoio «O non andartene dal lupanare, quasi fosse una sala delle torture. Tuttavia, quantomeno, hai capito la teoria.»

Mi sforzai di annuire. "Uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita" avevo le guance in fiamme e lo stomaco in subbuglio.

«Argomento chiuso. Non parliamone più, per adesso.»

Quelle poche parole mi apparvero le più dolci da quando ero arrivato a Cremona. «Sì, certo» io e il nonno, per una volta, non potevamo essere più d'accordo.

«Bada solo di "essere pronto" in tempo per quando ti trasferirai nell'Urbe*» concluse, entrando nella sala da pranzo, dove i domestici avevano appena terminato i preparativi per il banchetto «Smetti di seguirmi, Virgilio. Ti ho già detto che sei perdonato.»

«Ehm... grazie... io...»

«Stasera potrai partecipare» il nonno indicò alcuni sgabelli nell'angolo ovest della stanza «Ho chiesto di allestire un posto per te e gli altri minorenni.»

«Ci saranno anche degli schiavi di piacere?»

«Probabile, ma non riguarderà voi. Cerca d'ignorarli, se la cosa ti mette tanto a disagio.»

«Sarà fatto.»

«Ora vai a rinfrescarti e riposa: non intendo vederti in giro prima del tramonto.»

Annuii di nuovo, raggiunsi in punta di piedi la mia stanza e mi gettai sul letto a pancia in giù. Ero esausto, agitato, confuso. Mi sentivo sporco e volevo soltanto non uscire dalla camera per qualche giorno.

Allungai una mano verso un papiro. "Racconterò a mio padre ciò che ho imparato oggi" quelle donne dai capelli azzurri, le parole del nonno, i bambini venduti al mercato e tutti i dettagli del lupanare erano scolpiti nella mia mente e, forse, riversarli su una lettera mi avrebbe liberato almeno un po'.

"O forse no".

Volevo realmente spiegare ogni cosa ai miei genitori? Con loro, potevo fingere che non fosse accaduto nulla, nemmeno l'aggressione in riva al fiume: tornando ad Andes, sarei stato ancora un ragazzino che giocava con le noci e inseguiva insieme al fratellino le ombre di ninfe e satiri. Ad Andes c'erano la mia infanzia e la mia ingenuità e, se avessi scritto quella lettera, avrei accettato di star crescendo.

Lasciai cadere il papiro e rimasi con la testa affondata tra le coperte. "A Roma sarà diverso" mi ripetevo "Lì mi troverò bene, sarò un grande oratore e tutto questo è necessario". Intanto, il mio cuore bramava la campagna, l'abbraccio dei miei genitori e una vita semplice, lontana da fama e politica. Chiusi gli occhi, abbandonandomi a quel desiderio e ritrovandomi presto dentro un sogno.

Ero ad Andes, ma nella casa dei nonni, e stavo scendendo le scale in vista del banchetto. C'era buona parte dei miei compagni di scuola e, proprio come nella realtà, avevamo ben poco in comune.

«L'anno prossimo non sarò più qui» esclamò il primo della classe «Mio padre intende portarci a Rodi.»

Subito, un secondo dichiarò quanto l'Urbe fosse meglio della Grecia, aggiungendo che lui, a breve, si sarebbe trasferito laggiù, nei pressi del colle Esquilino.

«Roma è sovraffollata» sentii dire un terzo, mentre io allungavo lo sguardo verso gli adulti. Le voci dei miei coetanei parvero subito distanti; invece, udii chiaramente il nonno ringraziare il suo collaboratore per le sette fave nere che gli aveva appena donato.

Mi alzai di scatto. «Non prenderle!» gridai «Sono le fave dei morti. Diventerai muto e...»

Continuai a girarmi nel letto anche dopo essermi svegliato. Nel sonno, avevo scaraventato a terra le coperte, rovesciato i libri di scuola e macchiato il pavimento con l'inchiostro.

Lanciai un'occhiata fuori dalla finestra.

"Maledizione" il Sole era tramontato e avevo a malapena il tempo per cambiarmi "Speriamo che nessuno entri in camera". Avrei sistemato una volta concluso il banchetto.

Infilai un'elegante tunica in lana verde, diedi una sistemata ai capelli e mi stropicciai gli occhi, ancora annebbiati dal sonno. Poi, corsi nella sala da pranzo.

I nonni stavano salutando amici e conoscenti e non mi notarono. Nemmeno i miei compagni fecero subito caso a me, e io rimasi alcuni istanti sulla soglia a osservarli. Ridevano, sembravano divertirsi e, di certo, non sentivano la mia mancanza. Probabilmente, quando mi sarei avvicinato, avrebbero cambiato discorso. Sarebbe stato molto più semplice sgattaiolare altrove e non partecipare affatto.

"Più semplice, ma scortese" sospirai, deciso a non apparire maleducato, ed entrai nella sala.

«Salve, Virgilio» il primo della classe ingoiò un acino d'uva e tese le labbra in un sorriso sornione «Stavo giusto dicendo ai nostri compagni che questo sarà l'ultimo anno insieme.»

«C... cosa?» balbettai.

«Suvvia, tu sei uno dei pochi che non desidera copiare i miei compiti.»

«Ehm... sì, ma...»

«Andrò a Rodi, in Grecia.»

«La Grecia non è più il centro del mondo» s'intromise un secondo «Chi ambisce a una carriera di prestigio dovrebbe spostarsi a Roma.»

«Roma?! Che sciocchezza! È affollata e sporca...»

Sgranai gli occhi. Era come nel mio sogno, e non era la prima volta che Mercurio mi mostrava squarci di Futuro mentre dormivo. D'istinto, cercai il nonno e lo vidi seduto accanto al suo collaboratore.

«Non prendere niente da lui!» urlai, correndogli incontro «Non accettare le fave, non...»

«Sarebbe questo tuo nipote, Magio?»

Il nonno mi rivolse uno sguardo attonito.

«Ebbene?» domandò ancora il suo collaboratore.

Spostai l'attenzione dal volto dell'uomo alle mani. Non c'era traccia di doni e non stava offrendo niente al nonno. Tipico delle mie visioni: il Vero e il Falso si mischiavano e il loro senso profondo risultava spesso oscuro, da interpretare. Mi morsi il labbro, cercando di fermare il rossore che mi avvampava sulle guance. Sentivo tutti gli occhi puntati su di me, a partire da quelli dei miei compagni.

«È il solito strano» bofonchiavano «Chissà cosa gli è saltato in mente!»

"Volevo solo proteggerti" avrei desiderato confidare al nonno "Il tuo collaboratore nasconde qualcosa di losco". Tuttavia, la sua espressione accigliata e la folla che mi stava osservando mi spinse a chinare il capo. Era l'ennesimo segnale che io fossi sbagliato e che Cremona non sarebbe mai stata una casa per me.


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*Spoiler Alert! Stando a carteggi, resoconti dei suoi amici e biografi, Virgy non lo sarà mica tanto, LOL!!

Acheronta MoveboDove le storie prendono vita. Scoprilo ora