CAPITOLO 8 - FUGGE IL TEMPO IRREPARABILMENTE

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Sei mesi.

Sei cupi e interminabili mesi trascorsi in una casa che stentavo a riconoscere. Stavo perdendo tantissime lezioni, i pomeriggi insieme a Cornelio, le amicizie appena nate e il sogno sfiorato di una storia d'Amore. E per cosa? Per sentirmi impotente di fronte alla salute cagionevole di Silone e ai continui peggioramenti di mio padre? Oppure per guardare gli occhi della mamma farsi ogni istante più spenti?

Nessuno era felice dentro quelle mura, era innegabile; come il fatto che centinaia di preghiere non fossero in grado di mutare la situazione. Però, nonostante tutto, il desiderio di andarmene non vinceva il senso del Dovere. Rimarrò un'altra settimana, mi dicevo, hanno bisogno di me, specialmente Flacco.

Una settimana divennero due, tre, quattro; l'inverno lasciò spazio alla primavera e le giornate si allungarono fino a sembrare infinite. «Sole, tramonta» supplicavo di fronte ai passi malfermi di Silone. Poi, una notte, trovai mia madre intenta a scrivere sotto la luce fioca di una candela.

«Non hai freddo?» domandai, porgendole una coperta.

Lei non rispose e io notai che aveva corretto così tante volte le parole da rendere difficile leggere. Un'unica cosa era certa: il destinatario. «Perché scrivi al nonno?»

Fu allora che si accorse di me. «È tardi, Publio» annaspò, nascondendo la tavoletta «Va' a dormire». Aveva gli occhi velati da uno strato di lacrime sottile ma impenetrabile.

«Mamma...»

«Va' a dormire» ripeté lei in un rantolo.

Le posai la coperta sulle spalle. «Buonanotte» sospirai, mentre mi sforzavo di mantenere un'espressione distesa. Soltanto quando fui fuori dalla stanza il mio viso tornò corrucciato e, prima di andare in camera, chiesi alla nostra serva di consegnarmi la lettera il mattino seguente. Così fece, e io lessi e rilessi quelle poche frasi fino a impararle a memoria:

"Lui non lascerà mai la casa, se non per un ordine.

Crede di dover restare, ma, intanto, il Tempo fugge irreparabilmente.

Neppure l'uomo più ricco può vivere due volte lo stesso giorno e lui ha svenduto troppi attimi di una vita già breve. Portalo lontano da qui".

Ne fui sollevato – avrei avuto un motivo per tornare a Roma – e capii molti anni dopo che, nella versione precedente, il testo era un po' diverso: le parole erano le stesse, però, laddove ora c'era un "lui" la mamma aveva scritto "io". Anche lei si sentiva in trappola e sperava che qualcuno... che suo padre, venisse a salvarla.

Non me ne accorsi.

Non lo fece neppure il nonno e, presto, ricevetti una sua lettera dove m'intimava di lasciare Andes, ricordando gli sforzi impiegati per consentirmi di studiare col miglior rhetor della Repubblica. Avevo la scusa per partire.

Al mio arrivo nell'Urbe, il primo che riabbracciai fu Cornelio.

«Per Giove! Iniziavo a temere che saresti rimasto al Nord» esclamò, stringendomi a sé con tanta forza da togliermi il fiato «Magio non sopportava più di sentirmi chiedere tue notizie.»

«Sei passato da casa mia? Non ne hai fatto accenno nelle lettere...»

«Almeno una decina di volte» interruppe il nonno, sollevando il capo dalla pergamena «Un'abitudine che mi auguro svanisca.»

«Dice così perché non ha ancora accettato le sconfitte al gioco dei legionari» bisbigliò Cornelio «Ogni settimana voleva la rivincita e ogni settimana rimanevo imbattuto.».

Io soffocai una risata. Non mi sorprendeva affatto che il mio amico fosse un abile giocatore, quanto, piuttosto, l'immagine di lui che sfidava il nonno. In quel momento, dopo sei mesi, tornai uno studente senza troppi pesi sulle spalle. Era una bella sensazione e durò qualche giorno, finché Palaimon non mi rimproverò per l'assenza prolungata.

Acheronta MoveboDove le storie prendono vita. Scoprilo ora