Prologo

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A chi si spezza per gli altri, anche quando non ha più nulla di sano. Amatevi.

Mia viva morte, amore delle viscere,
io aspetto invano una parola scritta
e penso, con il fiore che marcisce,
che se non vivo preferisco perderti.
L'aria è immortale. E la pietra nessuna
ombra conosce, né, immobile, la scansa.
Non ha bisogno nel profondo il cuore
del freddo miele che sparge la luna.
Ti sopportai. Mi lacerai le vene,
tigre e colomba, sulla tua cintura
in un duello di gigli e veleno.
Calma la mia follia con le parole,
o nella notte dell'anima oscura
per sempre, lascia ch'io viva sereno.

- F. Garcia Lorca; Mia viva morte, amore delle viscere.

Harry, Peacehaven, 2004.

C'è una sottile differenza tra essere coraggiosi ed essere temerari. Questa, senza andare nello specifico, è una linea quasi impercettibile da coloro che non distinguono una montagna russa da un tuffo da una rupe. Sulla montagna russa hai la certezza che qualcun altro prima di te c'è già stato e ha testato tutto ciò che tu stai per compiere; mentre sulla rupe non hai idea di cosa c'è sotto di te. Scogli? Alghe? Pesci? Squali? Non so sinceramente cosa ci sia esattamente al mare, sotto una rupe, ci sarò stato al massimo una volta ed era solo una distesa di spiaggia lunga fin troppi chilometri per arrivare a mettere le caviglie in acqua.

Ma so che ho visto il mio migliore amico gettarsi da una rupe una volta, dicendo che sarebbe stato divertente, come andare sulle montagne russe. Ho visto un morto per la mia prima volta a soli sedici anni. Ricordo di essere rimasto lì a fissarlo, probabilmente per lo shock, o forse perché sapevo, guardando il suo corpo lasciato in balìa delle onde, che non c'era più nulla che potessi fare. Ho gridato a pieni polmoni il suo nome, ma solo dopo interminabili minuti, durante i quali ho sentito i polmoni cedere e gli zigomi trasformarsi in pietra. La mia unica espressione era fissa sul tentare di urlare ma era come se l'acqua avesse strozzato anche me. Eppure sapevo nuotare, pensai. Eppure sapevo correre, avevo perfino un brevetto di nuoto preso inutilmente, per ironia della sorte. Mi sentii un codardo, nel non voler guardare più quel corpo muoversi, senza vita, mentre si smembrava a intermittenza sopra un cespuglio di salsola superstite, al ritmo che le onde destavano. L'acqua intorno a lui era di un rosso chiaro, diluito dal mare e quel tempo che passò mi bastò per ricordare a vita che non avrei mai più voluto vedere qualcuno uccidersi. Mi aveva chiesto di fargli un video, con la sua fotocamera da quattro soldi comprata da un truffatore a China Town. Era tutto registrato. Avrei potuto mostrare ai suoi familiari come fosse morto, come aveva deciso di togliersi la vita sotto i miei occhi silenti. Ma non lo feci.

Scappai, per quelli che parvero giorni, in cui la luce si irradiava in raggi più che pittoreschi tra i rami della foresta più vicina, eppure grazie alla fotocamera potei facilmente notare che erano solo passate due ore. Ero seduto ai piedi di un distributore di benzina abbandonato, in cui la natura si era ripresa ciò che era di sua proprietà. E piansi. Piansi tutte le lacrime che avevo in corpo, perché solo in quel momento mi resi davvero conto che Atlas non sarebbe mai più stato una parte di me. Eravamo solo bambini e avevamo giocato fin troppo senza la presenza dei nostri genitori. Eravamo scappati finché il buio non si era palesato in pieno giorno e questo fu quanto mi accompagnò per ogni giorno della mia vita: il buio sotto il sole, come la luna in pieno giorno.

Non pensai a scappare ancora. Ormai mi avevano visto e non in pochi. I passanti si erano resi conto di quel ragazzino scioccato e mezzo nudo che viaggiava per le strade, con quei segni trasparenti sulle ginocchia e sul dorso delle mani. Avevo lasciato i miei guanti a casa perché con Atlas non c'era vergogna nel mostrare il mio dolore e lui non aveva paura di mostrarmi il suo.

Guardando indietro, con gli occhi più maturi di quelli di un adolescente, riconosco che forse Atlas non era fatto esattamente per questa vita. La sua delicata sensibilità lo rendeva qualcuno di così etereo, fuori dalla superficialità del mondo esterno. Creava intorno a me una bolla che nessuno poteva scoppiare e io fluttuavo all'interno di essa come quel pomeriggio avevo nuotato in quel mare, con le braccia aggrappate al suo collo e le urla di gioia a coprire i pensieri. Ma il suo volto era un po' più spento del solito e il sole non gli faceva brillare gli occhi come quando ci incontrammo sulla via di casa, dopo scuola, la prima volta. No, quel giorno i suoi occhi erano così pieni di qualcosa che oggi descriverei come paura ma ieri avrei descritto come amore.

Nuotare insieme era una cosa che facevamo spesso ma Atlas non si era mai buttato giù da una rupe e di certo non era una persona priva di fobie. Anzi, ne aveva molte e allora le memorizzai tutte per impressionarlo. Ma lui invece si stranì e finì per ridere di quanto fossi meticoloso.

La gente ricca non aveva spesso occasione di legare con gente comune, mi giustificai così. Ed era vero. Mio padre mi aveva sempre proibito di frequentare gente di un rango inferiore al mio, come ad esempio chiunque provenisse da una scuola pubblica. Era strano immaginarmi in situazioni come quelle che spesso spuntavano fuori con Atlas, come l'incontrarlo ogni giorno durante la strada di ritorno, nonostante frequentassimo due scuole completamente diverse e avessimo usanze e costumi completamente opposti.

Lui era il tipico ragazzo da olimpiadi di matematica, un genio incompreso, probabilmente lievemente autistico perché fin troppo meticoloso, ma dalla dialettica dei quartieri del centro, non di certo del ceto popolare da cui proveniva. Io ero un ragazzino appassionato di letteratura e affascinato dalla fisica che al giorno d'oggi ancora non capisco.

Ripensare a lui in chiave così umana mi rammenta ancora la sua esistenza realmente avvenuta. A volte sembra come se chi morisse andasse via anche dalla memoria, lasciandosi dietro brandelli di una vita che non sentiamo più nostra. Lo psicologo la chiamò perdita di memoria dovuta ad un evento traumatico e pensai che in effetti vedere un ragazzino morire non doveva essere stata proprio una passeggiata come cosa da processare dal mio corpo. Ma ciò che mi tormenta ancora nei sogni, o probabilmente negl'incubi, è il pericolo, la paura, o forse fobia addirittura, che questa cosa possa ripetersi nuovamente, in chiave ancor più rossa e cruda.

Mi ripromisi che non sarebbe mai più accaduto. Non sotto i miei occhi. Non per colpa mia, almeno.

Eleven ➳ l.s.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora