Capitolo Settimo

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TW: morte, linguaggio molto specifico

Louis, Londra, 1992.

Avevo sette anni quando varcai le porte di quell'orfanotrofio. Non ero abbastanza piccolo per fare pietà, né abbasta bello e gentile da essere adottato. Quest'ultima cosa mi era stata ben impressa dalle suore. Io sapevo, però, di non voler chiamare mai più nessuno mamma. Ne avevo già avuta una e mi era bastato per capire di non voler mai più amare nessuno in quel modo. Ne sapevo davvero poco di amore. Mio padre non lo avevo mai conosciuto ma a quanto pare era ricco, un americano che aveva vinto alla lotteria e aveva abbandonato ogni sua responsabilità qui a Londra. Chissà dov'era. Non avevo veri parenti, o almeno mi era stato insegnato a non fidarmi di loro. Mamma diceva che avrebbero giudicato, qualsiasi cosa avessi fatto. Così fu, infatti, in quel periodo di stallo tra lei e il mio abbandono da parte loro.

"Buonasera Londra! Dopo il telegiornale di stasera, ecco a voi le notizie del meteo. Si prevedono pesanti rovesci d'acqua a sud, fino al Sussex. Le temperature avranno una minima di sei e una massima di otto gradi, con nuvole sparse. Una tempesta è in arrivo, per via di una tromba d'aria proveniente dal Pacifico. Si consiglia fortemente di rimanere in casa per le prossime ventiquattr'ore. L'allerta meteo rossa sarà aggiornata costantemente sui canali militari ufficiali. Passiamo alle previsioni del centro.."

Era il settembre più piovoso mai visto negli ultimi vent'anni, dicevano in tv. Il ventottesimo giorno del mese, io e mia madre eravamo soliti mangiare del gelato, con gli ultimi soldi che ci erano rimasti dal suo stipendio. Spesso non potevamo comprarlo, allora lei andava a chiedere una cialda vuota per me, dalla gentile proprietaria del café Sunny Side. Non mi piaceva molto, senza quella colorata pallina alla fragola, ma non glielo avevo mai detto. D'altronde, lo faceva per rendermi almeno l'idea che tutto fosse possibile, anche con le difficoltà più grandi. Voleva insegnarmi che, con la dedizione, ogni cosa poteva essere nelle mie mani. Pensavo fosse davvero una responsabilità troppo grande e non la volevo, in tutta onestà. Volevo sentirmi piccolo ancora per un po'.

La casa in cui vivevamo era a dir poco arrangiata. Le pareti erano macchiate di muffa, che non faceva certo bene respirare, ma almeno avevamo un tetto sopra la testa. Stare dai nonni mi piaceva di più, certamente, avendo l'acqua calda e in più preparavano sempre i pasti, invece che comprarli precotti. Ma erano anche molto scortesi con me e non mi facevano toccare nulla. Mia madre urlava sempre contro di loro, dietro la porta rosa dietro cui finivo ogni volta che qualcosa tra loro non andasse.

"Sei un'irresponsabile! Come hai fatto a finire di nuovo i soldi? Dove vanno eh? Hai iniziato a drogarti? Hai iniziato a sperperare in gioco?" li sentivo parlare spesso di droga, anche se pensavo parlassero di medicine.

"No! Ho comprato dei vestiti a Louis per l'inizio della scuola, ho pagato la retta, l'affitto, il fondo per il college e ho fatto la spesa!" diceva disperatamente. Sapevo di non essere stato pianificato, come bambino. Me lo aveva detto mio nonno, una volta, quando mi stava aiutando in matematica e mi disse Non sei nemmeno un briciolo di me. Si vede che sei stato fatto di fretta. Quando dissi a mamma questa cosa, lei scoppiò a piangere, ma camuffò il tutto con una gran risata. Io mi accorsi, però, che fosse triste e la abbracciai, senza dire nulla.

"Non abbiamo altro da darti! Hai speso tutto ciò che ti abbiamo prestato e non abbiamo visto nulla indietro. Sono passati sette anni e ancora non trovi un modo per cavartela da sola. Non ti vergogni? Sei la rovina del nostro nome!" Quella fu l'ultima volta che vidi i miei nonni e la porticina rosa.

Noi non avevamo molte pentole. Avevamo solo un tetto, un tavolo, due sedie, una TV a tubo catodico che a volte decideva di mostrare solo immagini in bianco e nero, un letto e un cane di nome Alan. Era grigio, con occhi davvero grandi. Mangiava i nostri avanzi e non sembravano piacergli molto ma non per questo non ci dava amore. Lo aveva salvato mia madre dalla strada, curandogli fratture davvero gravi. Era un'infermiera nel St. George Hospital a Tooting. Non era vicinissimo a casa, ma ci permetteva di vivere abbastanza bene. O almeno così credevo. Andavo in una scuola pubblica, andavo a ripetizioni delle materie che non capivo bene, come la matematica, e a volte andavo anche in gita, quando erano dentro Londra. I miei vestiti erano sempre puliti, profumavo e mia madre spesso metteva il viso nel mio collo, in un abbraccio carico di sorrisi. Le piaceva sentire il mio odore.

Eleven ➳ l.s.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora