Capitolo Ventesimo

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"Soffro. O meglio, soffrivo davvero troppo. Ho temuto abbastanza a lungo le conseguenze di questo e ora è il momento di finirla, qui ed oggi come tutto è iniziato, solo al contrario. Non ho più voglia; forse non ne ho mai avuta."

Sono queste le parole con cui Harry Edward Styles, milionario e proprietario della Styles Corp., ci ha lasciati stamattina. Le sue parole sono state trovate da un suo amico, all'interno della sua dimora a Canary Wharf. Sul biglietto, nulla che possa riportare a lui. Del corpo non c'è traccia e del signor Styles non si sa nulla da oltre quarantotto ore. Gli agenti, tra cui un suo amico fidato, si sentono vicini alla famiglia e agli amici.

Louis, Londra, 2012.

Erano passati tre giorni da quando Harry aveva deciso di uscire da casa mia, dandomi il nuovo numero e un appuntamento in un posto alquanto insolito. Aveva detto di volermi portare al pentagono, per insegnarmi a proteggermi quando lui non sarebbe stato intorno a me ma erano giorni interi durante i quali immaginavo e sognavo la sua morte. Era così che passavo il tempo: angosciato. C'era qualcosa che non andava. Qualcosa di sottile e sinistro di cui non mi aveva reso partecipe. Avevo imparato a riconoscere quel cipiglio sulla fronte che non lasciava spazio alla fantasia di nessuno se non alla mia. Chiedevo al suo eterno enigma di risolversi dinnanzi ai miei occhi mortali ogni qual volta aprisse il sipario della sua mente a me, ma mi ero reso conto fin troppo tardi di non essere capace di decifrarlo senza le sue chiavi di lettura.

Mi ero cacciato nel tranello peggiore, pensando di andare incontro ad un'avventura e nonostante avessi avuto più volte la possibilità di scappare, non accennai mai a volerlo davvero fare. Avevo quasi ceduto, quella mattina, quando si era svegliato ancora senza forze e in stato confusionario, chiedendomi solo degli antidolorifici. Lo avevo quasi cacciato, eppure per la prima volta lo avevo visto pregarmi di non farlo. Pensai di averlo costretto, per un po', essendomi messo alla sua mercé, in ginocchio, liberamente incatenato a quegli occhi di rugiada e alla sua pelle candida.

Ma come ci si libera di qualcuno che si è spogliato pur di dargli la dignità di essere pulito, in un letto umile ma caldo? Non riuscivo più a immaginare di non potermi prendere cura delle sue più grandi debolezze come sé stesso. Il grandioso, forte, Harry Edward Styles, così piccolo e indifeso nelle mani di un uomo che del mondo sapeva la metà di lui. Avevo passato una spugna imbevuta di acqua e aceto sul suo corpo madido di sudore e pieno di terra fino al collo. Aveva blaterato cose assurde per la maggior parte del tempo, citando un campo di fiori, delle lettere, oggetti strani, suo padre. Non capimmo mai come fosse riuscito ad arrivare da me in quello stato. Fu come un sogno ad occhi aperti, disse, o meglio, come un incubo. Una scalinata infinita verso il buio, che ad un tratto si era interrotta sotto la mia palazzina. Avevo guardato le sue cicatrici, di nuovo, trovandomi ad osservare quella che avevo visto formarsi sotto i miei stessi occhi. Quel rosa scuro, che tanto cercava di non somigliare al rosso, si ergeva appena sopra il suo ombelico con la forma di un ragno, segno che non fosse stata suturata affatto bene. Almeno era sopravvissuto, diceva lui; io vedevo solo il mio lavoro fatto male, lasciandolo sfregiato a vita, più di quanto già non fosse. Era assurdo pensare al suo corpo come una tela squarciata da mille lame, quando nemmeno il più soffice dei pennelli sarebbe mai stato alla sua altezza, per me.

Indossai una tuta verde bottiglia, decidendo così di avviarmi con la metropolitana verso Canary Wharf, un posto che avevo visitato fin troppo spesso nelle ultime settimane, rispetto al resto della mia vita. Avrei impiegato circa quaranta minuti da Oxford Circus a Jubilee, senza contare le passeggiate per arrivare in stazione, quindi gli inviai un SMS per avvisarlo. Mi rispose nella maniera più Styles possibile.

Ti avrei dato io un passaggio ma tu insisti sempre per la dannata metro! Comunque ,non ti preoccupare, ti aspetto in ufficio.
-H

All'inizio trovavo ridicolo che si firmasse anche nei messaggi, come se non avessi il suo numero salvato; ma con il tempo mi resi conto fosse solo un'altra delle sue strane ma gentili abitudini.
Una volta lì, superati gli ostacoli della metro, quali il tempo e le persone ammassate, mi sentii nuovamente inghiottito da quel quartiere che trasudava guadagno passivo. Fumai una sigaretta, durante il tragitto, forse perché ero impreparato a vedere nuovamente il luogo in cui lui, per la prima volta, aveva ceduto a me, abbandonandosi ai miei desideri quanto ai suoi.
Il palazzo era fin troppo grande per appartenere a una sola persona, nella mia concezione di affitto e proprietà. Gettai la sigaretta nel posacenere in pietra nera all'entrata, facendomi strada finalmente all'interno. La segretaria, Marion da quanto ricordavo, mi sorrise chinando il capo. Ricambiai timidamente il gesto, torturando con l'anulare il letto ungueale del mio pollice. La guardia che giorni prima mi aveva caricato sulla spalla, invece, rise appena, distogliendo lo sguardo dal suo giornale solo per squadrarmi. Lo ignorai.

Eleven ➳ l.s.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora