Secondo giorno

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24 Gennaio 2013.

Secondo giorno di prigionia.


Non vedo il sole da circa quarantacinque ore.

La cosa può essere anche normale pensando alle ore in cui dormiamo, pensando alla sera, pensando alla pioggia.

Il fatto è che io non vedo neanche il cielo.

Sono sempre stata una persona che ama l'aria aperta, che quando è bel tempo prende il telefono e chiama gli amici per uscire. Perciò, per me, la cosa è ancora più difficile da accettare.

Non so neanche se l'accetterò mai, se è per questo!

Come posso vivere sapendo che tutti mi credono matta? Una ragazza con problemi familiari -si fa per dire- disagiata anche mentalmente. Loro non sono nessuno per giudicare i miei ragionamenti, i miei pensieri, il mio stile, tanto meno il mio patrigno, quel caro uomo che mi ha spedita qui a calci in culo.

Come posso vivere non sapendo se ci sarà mai un giorno in cui riconosceranno che in me non c'è alcun disturbo o, per farla più semplice, che sono guarita?

Non lo posso sapere, appunto. Vogliono farmi credere di essere matta per davvero, ci provano.

Ma io so di non esserlo e anche alcuni di loro lo sanno. Il potere e i soldi del mio patrigno, però, offuscano la vista a tutti. Ciechi, bugiardi, ignoranti. Fanno finta di essere così, quelli. In fondo anche loro sanno la verità. C'è chi me lo dimostra di più e chi meno.

Sì, in quarantacinque ore ho già capito come funzionano le cose qui.

Non è come in carcere seppure io non ci sia mai andata.

Qui non c'è nessun capo tra i detenuti. I detenuti si aiutano, perché coloro che comandano sono quelli 'sani'.

Ho visto persone davvero matte. Alcune in senso negativo, altre sono solo cadute nell'oblio della stupidità e ingenuità.

Adesso sono nella Sala Ricreativa, quella sala dove ci è permesso fare i matti, a quanto pare.

È solo la prima volta che ci vengo, ovviamente, ma è quasi vuota.

Forse alcuni sono troppo matti anche per questo.

Qui c'è una televisione, dei giornali, del materiale per scrivere e disegnare e non so che altro.

Computer non se ne parla.

Ho chiesto quante volte posso venire nella SR a settimana. Mi hanno risposto con un 'quanto vuoi, basta che tu sia sorvegliata. Capisci?'

Sì, che capisco, non sono una decerebrata. E non sono neanche pericolosa, se è per questo.

Scommetto che se adesso mi mettessi a disegnare una pistola mi porterebbero nel reparto più sorvegliato della struttura.

Ho già adocchiato una fessura abbastanza ampia, nel tavolo di legno antico su cui sto scrivendo, nel quale mettere queste lettere. No, non sono lettere, sono uno sfogo personale. Credo.

Sicuramente ce ne starà solo uno, perciò ogni volta che scriverò 'uno sfogo' dovrò prima liberarmi di quello precedente.

Sì, ho deciso, questi inutili scritti si chiamano sfogo.

Me lo leggerò un'ultima volta, me lo metterò in tasca e, una volta in cella, lo butterò nel cestino, cercando di farne più pezzi possibile.

Nessuno deve poter anche solo immaginare cosa penso. Si convincerebbero ancor di più di quanto sia psicopatica. O almeno, ci proverebbero. Comunque ciò che scrivo un senso lo ha, perciò, forse, è quello che penso che è un controsenso.

No, non sono matta, sono solo giri di parole. E ora la penna sta finendo, così come il tempo a me concesso di rimanere qui.

Oh, là c'è un buco come finestra. Da lì filtra qualche raggio di sole. Sto sorridendo. Forse, per adesso, posso accontentarmi.

Jade Lennox ripone il foglio spiegazzato nella fessura del tavolo, proprio come descritto nel suo sfogo. Si alza dalla sua sedia e fa cenno alla sua guardia di essere pronta.

"Giusto in tempo, 0127"

"Quello non è il mio nome, Guardia", dice lei fredda, seria, più del ghiaccio.

Un'altra guardia passa di lì e, sentendo le sue parole, bisbiglia qualcosa nell'orecchio del collega.

"Sarà meglio assecondarli, questi qua", dice. L'altro accenna a una risatina, ma poi si accorge del fatto che la ragazza è perfettamente consapevole di ciò che gli è stato riferito.

"Andiamo, Lennox"

Lei lo segue a passo spedito per i corridoi grigi dell'edificio, rimanendo in silenzio.

Conta i passi, li memorizza. Sono esattamente centoquarantasei.

La sua camera -si fa per dire- è tra altre due uguali alla sua, entrambe vuote.

Come fa a saperlo? Semplice, di notte è tutto silenzioso, mentre durante il ritorno dalla cena, la sua prima cena, ha avuto la grande occasione di sentire urla spaventose fin da molto lontano.

Al suo rientro in cella, però, qualcosa è cambiato.

La camera alla sua sinistra ha la porta spalancata, riesce a intravedere delle lenzuola pulite piegate su un comò bianco e delle signore che puliscono la stanza.

"Cosa stanno facendo?", chiede Lennox alla sua guardia.

"Puliscono, non vedi?", dice con tono insolente, anche se, dopo poco, si rende conto di parlare con una mentecatta.

"C'è un nuovo arrivato. E ora fila dentro."

Jade Lennox viene fatta entrare nella sua cella bianca, immacolata. Dietro di lei la porta si richiude con un tonfo, mentre la serratura scatta.

Sedendosi pesantemente sul suo duro letto, anch'esso bianco, la paziente 0127, lascia vagare la mente in luoghi in cui, adesso, non le è più concesso andare.

E così passano le ore, tranquille, se non interrotte da rari urli lontani o dai passi delle guardie in servizio.

È quasi ora di cena quando sente del movimento nei paraggi.

La voce di due guardie, piuttosto agitate, si sovrappongono a quelle di un ragazzo urlante.

"Non sono matto, non sono matto! State facendo un errore, razza di id...", un colpo forte, in pieno volto.

"Non hai il diritto di parlare, ragazzo! Non così, almeno! D' ora in poi verrai chiamato per cognome o per numero. Opporre resistenza peggiorerà solo le cose. Hai quarantacinque minuti per calmarti, poi andrai a cenare, 0128."

Anche la sua porta si chiude violentemente.

E così, Jade Lennox non è più sola.

Lennox - 0127Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora