17. Armando

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Le attività commerciali presenti nel rione si potevano contare sulla dita di una mano, ma nei pressi del campo, dove si giocava a calcio, ce n'erano addirittura due: la salumeria del signor Cesare e la merceria del signor Amedeo. La sala giochi, invece, era dall'altra parte del rione nelle immediate vicinanze delle montagnelle.

Varcare l'ingresso della sala giochi significava avventurarsi in un mondo parallelo dove nulla era come fuori; il concetto stesso di tempo, lì dentro, perdeva ogni significato. Chi si avventurava in quel mondo, in cerca di svago e carico di monete, doveva muoversi tra luci e suoni accattivanti che, come il canto delle sirene, cercavano di incantarlo per portargli via il tesoro. Non era raro udire grida disperate di chi, sedotto e caduto a un passo dal record, malediceva il fato per il suo triste destino; oppure chi sputava la sua delusione contro l'odiata scritta 'game over'.
Il signore di questo regno era un essere infido che vigilava su quelle macchine infernali e conservava gelosamente un tesoro di monete: un adulto noto per la sua avidità e per i suoi grossi baffi neri che veniva chiamato da tutti semplicemente Tonino.

Ettore vide la Vespa rossa di Armando parcheggiata sul marciapiede di fronte alla sala giochi. Sembrava un normalissimo scooter, ma tutti sapevano che, in realtà, era uno dei più veloci della città grazie alle modifiche che gli erano state fatte. Si fermò per ammirarla da vicino e accarezzò, con delicatezza, la pelle liscia e nera del sellino. Nel farlo ricordò quando, per la prima volta, aveva fatto un giro sulla moto di un suo amico: aveva sfrecciato per le strade del rione con il vento nei capelli ed era andato così forte che, quando aveva spalancato la bocca, l'aria gli aveva gonfiato le guance. Ricordò anche che suo padre lo aveva visto e che quella sera, per punizione, lo aveva preso a cinghiate sul sedere.

Massaggiandosi il posteriore, come se fosse ancora indolenzito, entrò nel locale dove fu subito avvolto da una nube di fumo di sigarette. Dopo essersi guardato attorno si diresse a un banchetto dietro al quale si intravedeva una sagoma e solo quando distinse chiaramente dei grossi baffi fu certo di trovarsi al cospetto di Tonino.

– Buongiorno. – salutò. – Vorrei parlare con Armando.

Tonino lo scrutò sospettoso con i suoi piccoli e avidi occhi neri. – Armando è di là che sta giocando a biliardo con i suoi amici. – rispose facendo oscillare i baffi. – Non ama essere disturbato mentre gioca.

Ettore cercò di sbirciare nella stanza del biliardo, ma dei ragazzi gli coprivano la visuale e per questo non riuscì a vedere granché. A un tratto, il rumore delle palle che cozzarono con violenza scatenò un'ovazione.

– Grande!

– Fantastico colpo!

– Sei sempre il migliore!

Erano gli scagnozzi di Armando che lo adulavano, anche se in realtà non ne aveva bisogno in quanto era davvero bravo in quel gioco.

Ettore acquistò una busta di patatine e dopo averla aperta ci infilò la mano per tirare fuori la sorpresa. Queste patatine promettevano di far trovare in ogni confezione un macabro oggetto di gomma: all'esterno si potevano vedere stampate le immagini di un dito mozzato, di uno scarafaggio, di un orecchio e di un occhio. Ettore possedeva quasi tutta la collezione e gli mancava soltanto l'occhio che non riusciva proprio a trovare. Quindi estrasse, con trepidazione, la bustina e dopo averla tastata, nel vano tentativo di scoprirne il contenuto, la aprì.

– E che cavolo! – esclamò. – Ancora questo stupidissimo dito di gomma.

Sbuffò e si infilò nervosamente in bocca una manciata di patatine: erano unte e sapevano di rancido, ma nonostante ciò continuò a mangiarle. Quando il pacchetto era ancora pieno per metà, riuscì a vedere Armando che, terminato di giocare, stava riponendo la stecca nella rastrelliera sulla parete.

La banda degli americani in pigiamaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora