7. L'ispezione

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Il mese di giugno volgeva al termine e i ragazzi, con le scuole chiuse,  trascorrevano gran parte delle giornate all'aperto giocando a calcio, a nascondino, passeggiando o andando in giro in bicicletta. Spesso i genitori non avevano idea di dove si trovassero, ma non se ne preoccupavano più di tanto. Quando, però, avevano la necessità di rintracciarli e non riuscivano a vederli affacciandosi da finestre o balconi, ricorrevano all'antico, quanto efficace, metodo di urlare a squarciagola il loro nome.

Il papà di Tommy, da buon pescivendolo, possedeva una voce stentorea e poteva essere udito anche a isolati di distanza; il ragazzo si vergognava moltissimo quando lo chiamava in questo modo. Non tutti i genitori, però, erano dotati di una voce così potente e per far tornare a casa i propri figli ricorrevano a soluzioni più sofisticate: fischiavano come uccelli mattinieri, ognuno con il suo personalissimo stile.

Il papà di Ettore produceva il fischio più potente del rione: infilando pollice e indice in bocca emetteva un suono intenso e prolungato che il figliuolo riconosceva anche a grandi distanze. Quello del papà dei Caracciolo, invece, era meno potente, ma più originale ed elaborato: un unico e inconfondibile fischio caratterizzato dalla ciclica ripetizione di due sole note.

Quella mattina il cielo era d'un azzurro pallido e del tutto privo di nuvole; il sole splendeva sornione. Le montagnelle erano punteggiate da profumati fiorellini gialli tra i quali spiccavano le macchie rosse dei papaveri; api operose si aggiravano tra quei colori in cerca di delizioso nettare, mentre coppie di vivaci farfalle si inseguivano in allegria.

Le montagnelle erano uno dei luoghi preferiti dai ragazzi: una zona priva di edifici e abbandonata a sé stessa dove cresceva tanta vegetazione spontanea. Venivano chiamate così perché dei terreni di risulta, scaricati anni addietro, avevano formato dei grossi cumuli sui quali i ragazzi si divertivano a giocare. Qui, abbandonate da anni, giacevano una betoniera e una molazza che, con il tempo, erano diventate per i ragazzi un'inesauribile fonte di divertimento. Le montagnelle confinavano a sud con il casolare e a nord con il palazzo dei Doretti, dal quale erano separate da una breve e ripida strada che scendeva verso un piccolo piazzale dove, di solito, erano parcheggiate delle auto.

Andrea e Fabio, dopo aver percorso quella strada, raggiunsero il piazzale di fronte al quale si ergeva un maestoso albero: Becco D'Aquila. Un leccio alto quasi quindici metri battezzato così perché qualcuno aveva visto nella sua chioma la forma del becco del noto rapace. Il suo tronco, largo un paio di metri, era cresciuto su un ripido pendio che collegava il piazzale a una stradina sterrata; questa, posta più in alto, costeggiava tutta la campagna circostante. Era un albero imponente che, grazie ai suoi robusti rami, permetteva ai ragazzi di arrampicarsi facilmente; così alto che quando si raggiungeva il punto più elevato si riusciva a scorgere, in lontananza, lo scintillio del mare.

Ettore e Orzowei chiacchieravano tranquilli al riparo della sua ombra. Il primo, seduto su un sasso, faceva la punta a un ramo con il suo temperino; il secondo, invece, giocava con il suo passatempo preferito: le palline clic clac.

– Ciao ragazzi. – fece Andrea, mentre Fabio salutò con un rapido cenno.

Ettore staccò gli occhi dal rametto e li guardò, mentre Orzowei, preso dal gioco, sembrò non essersi accorto di loro. – Come è andata a finire ieri sera con vostra mamma?

– Male. – Andrea si mise seduto al suo fianco. – Dopo che vi ha mandati via ci ha spiegato, a colpi di battipanni, che non dobbiamo più invitare amici senza prima chiedere il permesso.

– Ha struppiato anche Davide. – aggiunse Fabio, senza nascondere un pizzico di soddisfazione.

Orzowei mise da parte le palline e li fissò con i suoi occhi luminosi. – Ben gli sta. Ci ha fatto diventare gialli dalla paura con quello stupido scherzo!

La banda degli americani in pigiamaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora