10. Un nuovo amico

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Quel misterioso ragazzino se ne stava in disparte e, seduto sul muretto, li osservava giocare. Indossava una maglietta azzurra, un pantaloncino corto bianco, dei vistosi calzettoni gialli arrotolati sulle caviglie e calzava delle scarpette nere. Andrea, incuriosito, si alzò e si diresse verso di lui.

– Ciao. – salutò.

Aveva capelli ramati e profondi occhi verdi nei quali si rifletteva un velo di malinconia; il viso sottile, di un pallore insolito, era impreziosito da una pioggia di lentiggini. Andrea notò che indossava una vecchia maglia azzurra molto simile a quella di suo fratello.

– È la maglia della tua squadra del cuore? – domandò per rompere il ghiaccio.

– Ce-certo. – rispose. – Sennò perché dovrei indossarla? – La sua voce era tenue e flautata.

– Giusto. Io mi chiamo Andrea e tu?

– So-sono Giuseppe.

– Non ti ho mai visto qui prima.

– Non vivo qui. So-sono ospite di mia nonna per qu-qualche giorno.

– Capisco. Ti va di giocare con noi?

– Mi pi-piacerebbe, ma non posso.

– Perché non puoi?

– Ho pro-promesso a nonna che non avrei sudato.

– Ok, ma se resti sotto questo sole suderai lo stesso. Almeno vieni all'ombra.

– Pre-preferisco rimanere qui. Mi piace sentire il calore del so-sole sulla pelle. Da dove vengo sono rare belle giornate come qu-questa.

– Va bene, ma se dovessi cambiare idea sarai il benvenuto. I miei amici saranno contenti di conoscerti.

– Sei molto ge-gentile, ma per ora resterò qui.

Andrea si allontanò e tornò dai suoi amici, mentre rimuginava sulla voce del nuovo arrivato e cercava di capire se gli ricordasse quella di suo cugino o quella di un suo compagno di classe.

Fu accolto subito da Fabio che lo aggiornò sulle intenzioni del gruppo. – Andre', ci siamo stufati di trentuno acchiappatutti – disse – e ora vogliamo fare una partita a calcio. Sei con noi?

Andrea ci pensò per pochi secondi. – Posso fare l'arbitro? – domandò – non ho voglia di giocare.

– Va bene. Noi, intanto, facciamo le squadre.

Nel frattempo, anche Umbertino e Tommy scavalcarono il muretto del casolare e raggiunsero i loro amici e questi, non appena li videro, li obbligarono a unirsi alla loro partita. Così Ettore e Orzowei, nominati caposquadra, poterono fare la conta per stabilire chi avrebbe iniziato a scegliere e, in poco tempo, le due squadre furono pronte. 

Dopo i primi calci al pallone fu subito chiaro che la squadra di Ettore era quella più forte, infatti il risultato era già sul due a zero. Quando fu segnato anche il quarto gol, Orzowei, rosso come un peperoncino calabrese, tirò un calciò alla palla e la fece finire lontano.

– Non è giusto! – sbraitò – La mia squadra è troppo scarsa. Cambiamo gioco!

– Siamo alle solite! – esclamò Fabio correndo verso di lui. – Non vinci e vuoi subito cambiare gioco!

– Il tuo problema è che non sai perdere! - gli urlò Billy.

– Siete voi che imbrogliate. - fece Orzowei incrociando le braccia. – E so perdere benissimo!

Ettore si avvicinò a pochi centimetri dal suo naso. – La sola cosa che sai perdere è la pazienza e se continuerai a lamentarti potresti anche perdere qualche dente!

La discussione si infervorò e, un attimo prima che Ettore potesse togliersi gli occhiali, Fabio ebbe un'idea.

– Perché non andiamo a giocare a paldiscesa?

La proposta fu accolta e il nervosismo lasciò il posto all'entusiasmo; Andrea pensò di coinvolgere anche lo strambo ragazzino appena conosciuto, così corse da lui per invitarlo.

– Noi andiamo a giocare a paldiscesa. Ti va di venire?

– Pal-discesa? – ripeté Giuseppe. – Non ho mai sentito pa-parlare di questo gioco...

– È normale. – spiegò Andrea con un sorriso. – Lo abbiamo inventato noi. Si gioca in una strada in discesa che conduce a un garage, ma ti spiegherò tutto quando saremo lì. È vicino casa mia, a pochi passi da qui.

Giuseppe sgranò gli occhi e rimase impalato per qualche secondo, infine saltò giù dal muretto e si allontanò senza dire una parola.

– Ehi. Dove vai? – chiese Andrea. – Non vuoi venire?

Giuseppe scosse la testa e, dopo aver salutato con un timido cenno della mano, sparì dietro l'angolo del casolare.

– Ma che gli è preso? - si domandò Andrea grattandosi la testa.

– Forza ragazzi! – urlò Ettore. – Recuperiamo il pallone e andiamo.

Il gioco del paldiscesa era stato inventato da Andrea, Ettore e Fabio. Il campo da gioco era una stradina in discesa che conduceva a un garage; una grata di scolo, al centro della strada, divideva in due il campo e delimitava le zone di competenza: superarla e invadere il campo avversario comportava l'assegnazione di un punto all'altra squadra. Le due squadre dovevano schierarsi nelle due aree; chi era posizionato nella parte alta doveva fare punti colpendo, con il pallone, la saracinesca che era in fondo senza che venisse nemmeno sfiorato da alcun avversario. Gli altri dovevano fare lo stesso, ma dal basso, e cercando di lanciare la palla oltre il cancello che era all'inizio della discesa. I punti potevano essere segnati colpendo la palla con i piedi o con le mani.

I ragazzi, dopo aver composto le squadre, giocarono fino all'ora di pranzo quando furono costretti a smettere perché il signor Quagliariello, l'inquilino del primo piano, li cacciò via infastidito dai continui schianti del pallone sulla saracinesca.

– Se non ve ne andate, scendo e vi schiatto il pallone!

Nel pomeriggio, tornarono al casolare per fare una guerra a sassate e anche il giorno seguente passarono l'intera giornata lì. Quel cortile era perfetto per i loro giochi: protetti dal muretto e al riparo da occhi indiscreti potevano passare ore a giocare e a far rumore senza dare fastidio a nessuno.

Si tennero, però, alla larga dall'appartamento del primo piano e continuarono a guardare alle sue finestre con una certa apprensione.

La banda degli americani in pigiamaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora