𝑪𝒂𝒑. 𝟐𝟎: 𝒐𝒍𝒕𝒓𝒆𝒑𝒂𝒔𝒔𝒂𝒓𝒆 𝒊𝒍 𝒍𝒊𝒎𝒊𝒕𝒆

250 13 19
                                    

Arrivare in cucina fu una vera e propria impresa. In primo luogo perché non riuscivo a mettere due passi davanti agli altri che subito perdevo l'equilibrio e mi trovavo a sperimentare tutte le cadute possibili e immaginabili: a faccia a terra, cadendo di schiena, rotolando su messa, sbattendo la testa. Fu una serata esilarante, non per me ovviamente ma per quel barbagianni che ogni volta che udiva i tonfi delle cadute, le mie lamentele, le mie invettive che maledicevano quella sera stessa, lui e, a volte, anche la mia testa calda, faceva riecheggiare la sua acuta, agghiacciante e fastidiosa risata per le stanze del Ryoiki Tenkai. 

Non so sinceramente cosa ci trovasse di così tanto divertente. Magari nessuna donna, no che dico!, nessun essere umano si era mai permesso di spingersi così oltre, di superare il limite e di permettersi di inveirgli contro. Se c'era un limite, qual era? Sembrava che con lui superarlo significasse annoiarlo e infastidirlo ma se così era, quando si poteva dire che lo fosse? A volte bastava una sola parola per farlo spazientire, altre le mie lamentele e la mia rabbia gli si potevano scagliare contro senza alcun problema, senza che mi facesse del male, e altre ancora un mio solo movimento poteva farlo infuriare a tal punto da graffiarmi la pelle con le sue unghie e da prendermi a schiaffi finché non chiedevo pietà e perdevo i sensi. 

In secondo luogo, non avevo la più pallida idea di dove fosse quella fantomatica cucina, ammesso che ci fosse veramente. E così passai un abbondante quarto d'ora a cercare di oltrepassare quel piccolo corridoio che mi separava dalla camera da letto, mantenendomi una volta alla parete rocciosa di destra, l'altra a quella di sinistra. Quando varcai l'ingresso della grande e profumatissima stanza tirai un sospiro di sollievo, lasciando che quell'odore di mele misto alla cannella mi invadesse i polmoni. Mi guardai attorno: Sukuna non c'era. A meno che non si fosse nascosto in quel minuscolo armadio, la via era libera. Puntai con lo sguardo quel bellissimo letto che in quel momento sembrava mi stesse chiamando per nome, invitandomi a tuffarmici sopra. Feci un ultimo sforzo, accovacciandomi sul morbido tappeto e trascinandomi facendo leva sugli avanbracci. Quando finalmente toccai con entrambe le mani la spalliera a piedi a letto, mi tirai su e mi catapultai sul materasso. 

Il contatto con quel tessuto fu una sensazione meravigliosa. Le lenzuola erano talmente tanto fresche e morbide che per un attimo credetti che Sukuna avesse fatto il bucato. Mi stiracchiai soddisfatta e di conseguenza mi dimenticai della cucina, del perché avevo intrapreso quella folle marcia, della cena e di Ryomen Sukuna. Mi lasciai completamente andare, abbracciando un grande cuscino alla mia sinistra. Non mi preoccupavo più né del mio stomaco che chiedeva pietà pregandomi di infilare qualcosa sotto i denti né di quel cinghiale inferocito che stava continuando a darmi la caccia. Ma durò per pochi minuti. Sentii qualcuno schiarirsi la voce, infastidito; non aveva detto niente per fare intendere il suo umore ma lo si poteva fiutare nell'aria. Ignorai volontariamente il tutto ma quando Sukuna si schiarì la voce per la seconda volta e più forte, dovetti voltarmi per forza. 

"Sukuna, che su-" strabuzzai gli occhi, portando immediatamente una mano al petto per assicurarmi che il cuore stesse ancora battendo. "...per-tutti-gli-yokai!" L'uomo che avevo di fronte non era più quello composto di una mezz'oretta prima. No, chiamarlo uomo era più che sbagliato. Quello era un demone in piena regola, tramutatosi in essere umano per portare scompiglio nelle menti degli innocenti. Il kimono di prima aveva lasciato spazio al suo torso nudo, mettendo così in evidenza i suoi marchi tribali e i  suoi muscoli ben piazzati. Chissà quanti secoli aveva impiegato per arrivare ad ottenere quei risultati! L'unico indumento che indossava erano dei pantaloncini grigi che lo lasciavano scoperto dal ginocchio in giù, mettendo così in evidenza i polpacci ben allenati e con alcuni segni tribali che troneggiavano su essi e gli fasciavano le caviglie. Era appoggiato con la spalla sinistra all'altra entrata della camera da letto, portando tutto il peso a sbilanciarsi verso quel lato; le braccia conserte, come al solito. Il suo sguardo inviperito si tramutò in una smorfia di divertimento quando gli arrivò alle orecchie la mia esclamazione.

𝑰𝒍 𝒎𝒐𝒏𝒅𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒇𝒂𝒓𝒇𝒂𝒍𝒍𝒆Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora