2. Nessuna speranza

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Edoardo Fassio, detto il Fassi, non aveva nessun talento per cui eccellesse. Normalmente, non era per il suo livello intellettuale che si distingueva dalla massa, bensì per la sua bellezza.

Edoardo Fassio, detto il Fassi, se ne stava lì in piedi davanti a tutti. I pantaloni di lino grigio erano attorcigliati intorno alle caviglie, le gambe tese e pelose in bella vista. Con la testa alta e le mani sui fianchi sembrava il Colosso di Rodi.

Lo guardavano tutti, anche Samu fissava le gambe tornite del Fassi. Un soffio leggero e continuo gli usciva dalle labbra socchiuse.

D'un tratto sembrava che un nugulo di artisti si fosse radunato intorno al Fassi per ritrarne la bellezza appollinea. Bellezza di cui lui non aveva merito.

Sulla pelle ambrata e sotto le folte sopracciglia marroncine, i suoi occhi risultavano ancora più belli ed erano belli perché non era dipeso da lui averli così, erano una benedizione.

La bellezza era l'unica misera consolazione che il Fassi aveva nella vita.

«E adesso? Dillo! Chi c'ha il piciu corto?» domandò.

Era bello, sì, ma quando apriva bocca l'incantesimo si spezzava e si tornava a provare una moderata pena per lui piuttosto che una gelosa ammirazione. Sarebbe dovuto rimanere in un silenzio eterno e farsi ammirare come un quadro o come una statua, come un oggetto inanimato.

Mentre Samu sospirava un sospiro esausto, Cristian spostò gli occhi da quelli del Fassi al resto del suo corpo. Anche per lui l'incantesimo si era spezzato ma non lo diede a vedere, non come aveva fatto Samu che si stava reggendo le ciocche di capelli tra le mani mentre scuoteva la testa a destra e a sinistra.

La pelle sensibile dell'inguine del Fassi era macchiata da una piccola scritta, proprio sopra la coscia, che recitava una sola parola: speranza.

Che posto del cazzo per farsi un tatuaggio. Fu la prima cosa che pensò Cristian.

Speranza di che cosa? Fu la seconda cosa che pensò Cristian.

Il Fassi avrebbe dovuto farsi tatuare nessuna speranza, si disse con una buona dose di cinismo.

Era vietato sperare. Così era, così doveva essere.

Quando il loro vaso di Pandora era stato scoperchiato aveva liberato tutti gli spiriti maligni -vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia, vizio- ma di Elpis -della speranza- non ce n'era traccia. E quel cretino del Fassi se l'era fatto tatuare sulla pelle, come se volesse prendersi in giro da solo. Povero illuso.

«Va bene, va bene» disse Samu. Strascicò le parole e alzò i palmi delle mani «Abbiamo capito che ce l'hai grosso, ora rialzati quei pantaloni»

«Eh, no. Se l'ho fatto io, lo fate anche voi. Non sono mica un idiota, io!» disse il Fassi. Si buttò per terra e atterrò sulle natiche con un tonfo.

Pum!

«Un po' lo sembri così» mormorò Cristian.

Samu abbaiò una risata acuta e il Giorgione e il Giorgino se la risero di gusto. Allora anche il Fassi alzò un angolo delle labbra all'insù per non urlargli contro e finire per fare la figura dell'isterico sfigato.

Il Giorgione si asciugò una lacrima al bordo dell'occhio, indicò Cristian con un dito e disse: «Tu devi farlo più di tutti noi. Tu hai avuto l'idea, tu ti spogli!»

Cristian deglutì, aggrottò le sopracciglia e poi si passò la lingua sulle labbra riarse.

Il Giorgione lo guardava con una tale determinazione negli occhi che gli facevano intendere che non si sarebbe arreso finché non lo avrebbe visto nudo. Era strano vedere determinazione negli occhi del Giorgione piuttosto del vuoto che li caratterizzava normalmente. Di solito il Fassi era la mente e il Giorgione era il braccio.

NESSUNA SPERANZADove le storie prendono vita. Scoprilo ora