14. La fine del principio

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Cristian si era seduto su uno dei sedili di plastica dell'autobus quando era chiaro che non si sarebbe fermato.

Smise di battere i pugni sulle porte. Le mani, ormai rosse e calde, bruciavano per la violenza della sua disperazione.

«Non ti conviene scendere» disse l'autista della vettura.

Lo aveva osservato in silenzio senza dire niente, aveva assistito alle sue scenate senza una parola.

Lo osservava da dietro il plexiglass come se volesse assicurarsi che non si mettesse nei casini e lo avvertiva con gli occhi strabuzzati, le sclere bianche ben visibili sulla pelle color cioccolato, di non scendere per nessun motivo.

Lo avvertiva che se ne sarebbe pentito se fosse sceso, che non sarebbe tornato nessuno a prenderlo, che non aveva nessuno a cui importasse di lui.

Le porte della vettura si aprirono e si richiusero, il mezzo aveva fatto la sua prima fermata e Cristian era ancora seduto. Ripartì, vuoto come si era fermato, con uno sbuffo e un verso stridulo.

«Pensi che quello ti stia aspettando alla fermata?» chiese l'autista, concretizzando i suoi avvertimenti in domande petulanti.

Quello era Samu e sicuramente non lo stava aspettando.

«Non penso che mi stia aspettando» mormorò Cristian perché l'autista lo stava guardando dallo specchietto retrovisore e sembrava in attesa di una risposta.

Quando distolse lo sguardo, nella sicurezza della solitudine, Cristian si lasciò sprofondare sul sedile e si lasciò andare ad un pianto disperato.

Poche volte aveva pianto in quel modo: la prima volta che l'avevano portato in una comunità di accoglienza e aveva otto anni, la prima volta che aveva sentito il dolore delle mani di suo padre sulla pelle, la prima volta che sua madre l'aveva strattonato per la maglietta, aggrappandosi a lui per essere accompagnata a letto, una di quelle notti in cui era tornata a casa ubriaca con la matita viola sfumata sotto gli occhi e vestita solo con delle calze a maglia nere quaranta denari e una canottiera sporca di alcol, l'alito acre e lo sguardo perso.

Poche volte aveva pianto in quel modo con i rumori disperati della voce, i singhiozzi e i rigurgiti. Lacrime e muco e resti di pioggia si confondevano sul suo viso.

L'autista continuava a parlare, forse non si era neanche accorto che il suo unico passeggero si era messo a piangere. Gli stava dicendo che gli amici non si comportano così, che avrebbe almeno potuto accompagnarlo a casa, invece di lasciarlo in quelle condizioni.

Povera anima, diceva, ha paura la povera anima.

Se Cristian fosse stato un po' più fuori di sé stesso e un po' più stabile sulle gambe, pensò che si sarebbe trasformato in una versione più letale dell'aquila dodicenne con i capelli a cipolla bianca. Ma quello non era lui. Quando soffriva, Cristian non reagiva con violenza, si chiudeva solo nel suo dolore, aspettava di toccare il fondo prima che qualcuno gli tendesse la mano e lo aiutasse a risalire.

Quando fermò il pianto fu solo perché si era addormentato.

Fu svegliato al capolinea dalla mano grassoccia dell'autista. L'autobus si era fermato nella bella zona della città, dove i crimini erano solo finzione, dove le gang di undicenni armati di coltelli da cucina erano solo fantasia.

L'autista gli diede il tempo di ricomporsi prima di farlo scendere e ripartire, abbandonandolo lì con un saluto della mano, un sorriso stretto e uno sguardo di sincera compassione. Sarebbe durata, quella compassione, finché non fosse tornato a casa e poi si sarebbe quasi certamente dimenticato di lui e del suo pianto disperato e dell'amico infame che non lo aveva accompagnato a casa.

NESSUNA SPERANZADove le storie prendono vita. Scoprilo ora