1 - Thunder Road

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Andrea

Ginevra l'ho conosciuta ad una festa universitaria.
Profumava di arancia e aveva un sorriso che faceva sparire tutto.

Era stata una serata calda. La birra al mio arrivo scorreva. La musica alta inebriava. Ero giunto trafilato, veloce dopo la chiamata preoccupante che mi aveva fatto Giulio. Ero tornato in Italia nemmeno da una settimana e lui si divertiva a farmi fare, di nuovo, il fratello maggiore.

I ragazzi sguaiati urlavano canzoni incomprensibili, belli da fare schifo. Si abbracciavano, ridevano, sotto il cielo stellato. Era una serata di inizio estate, calma, piatta. Una leggerissima brezza ogni tanto si alzava.

Con le mani in tasca tentando di passare inosservato allungavo il collo qua e là cercando di scovare la testa riccioluta di Giulio, che però non si faceva vedere.

Da sotto il gazebo Ginevra aveva fatto la sua apparizione accomodandosi a bordo piscina con una chitarra classica e in due secondi aveva metabolizzato l'attenzione su di se. Si era lasciata ricadere i capelli davanti al volto e lentamente aveva intonato una thunder road arrangiata. La musica dalle casse si era spenta subito. I ragazzi intorno a lei avevano smesso di dimenarsi. E piano piano una piccola folla le si era accerchiata attorno.

Poi come era apparsa si era dileguata. Il mio sguardo non la lasciò nemmeno per un secondo, vuoi per curiosità, vuoi per paura, l'avevo seguita fino a che la boscaglia retro casa l'aveva inghiottita.

Silenzioso e approfittando del fatto che nessuno mi conoscesse, mossi passi verso la sua direzione.
«Stai bene?» le domandai, abbastanza lontano per non turbarla.
Non sentendo risposta mi avvicinai, la ritrovai accovacciata dietro un albero, in silenzio, con il respiro pesante e gli occhi impauriti. Mi sorprese non vederla scappare via. Mi misi seduto in silenzio in attesa e così restammo fino a che la luna alta e splendente non decise di ricordarci che la notte era lì pronta ad esplodere intorno a noi.

«Non è sempre così» disse dopo un tempo infinito «alcune volte riesco a non scappare» e mi guardò, per la prima volta con gli occhi verdi e grandi. «Non piaccio alle persone se arrossisco.» aveva continuato con il fiato pesante.

Mi ero girato, sorpreso, confuso, cercando nei suoi occhi una qualche risposta ad una tale cavolata. Ma lei non ne aveva. E forse non ne aveva mai avute. Si era persa in qualche storia e da lì non era più uscita.

«Arrossire è segno di grande umanità. Significa che le cose, persone, situazioni ti toccano.»

Sembrò soppesare le mie parole a lungo fino a che con la testa iniziò ad annuire.

«Non è una cosa da me, quella di prima,» si aggiustò a sedere, di fianco a me ma con la dovuta distanza, «però tutti dicono che ho una bella voce e mi sembrava un occasione giusta.»

Annuì, e alzandomi, le feci segno di seguirmi. Arrivammo nuovamente nella zona della piscina. Il mio cellulare vibrò. Giulio era tornato a casa.

Fu naturale chiederle di poterla riaccompagnare a casa. Fu ancora più naturale decidere di incamminarci insieme.

Nonostante la sua giovane età, Ginevra, aveva già un portamento da donna. La osservavo muoversi al mio fianco e a come gli occhi dei curiosi, superstiti di qualche serata, ci guardavano. La schiena era dritta ed i capelli lunghi la sfioravano ad ogni movimento. Lo sguardo dritto davanti che cozzava con le sue braccia strette strette a se. Come se gli abbracci che gli avevano dato non fossero stati abbastanza. Camminava silenziosa al mio fianco. La ricordo sorridere sotto i baffi e sussurrare.

«È proprio questo che mi fa arrossire.» Girando appena gli occhi verso di me.

«Perdonami la mia è solo curiosità. Non volevo metterti a disagio. E' bello trovare una persona che sa arrossire ancora oggi dove sembra esser diventato tutto troppo superfluo.»

L'avevo vista chiudersi e quasi subito indicare un bar lungo strada poco distante da dove abitavano i miei genitori. Avevo annuito ed eravamo entrati, prima lei, poi io.
L'ambiente era spartano, con tavoli in legno e tovagliette rosse. Nell'aria aleggiava un vecchio disco di Mina e la canzone ancora, ancora, ancora si diffondeva dalle casse. Ginevra aveva salutato con un cenno l'uomo dietro il bancone e sicura si era accomodata ad un tavolo lungo la vetrina. Avevamo ordinato un caffè lungo entrambi. Ci studiavamo, lentamente, per la prima volta. Girava la testa, osservava, destra e sinistra. Aveva un neo sulla guancia sinistra, i capelli castani erano lunghi e mossi. Gli occhi verdi e le ciglia lunghe, lunghe. Non aveva un filo di trucco ma era comunque bellissima, con la pelle appena abbronzata dai primi soli. Teneva un paio di occhiali in testa a fermare i capelli che le ricadevano davanti al viso.

Dopo qualche minuto per spezzare questo strano osservarsi aveva esordito con

«Ma tu quanti anni hai?»

Avrei dovuto mentirle.

«Trentacinque a novembre.»

Non si era mossa, nessun segno, nessun colpo.

«E perché non dire solo trentaquattro?»

Aveva risposto schietta. Ed è questo che molto probabilmente mi spinse a sorridere.

«E ad una festa universitaria, cosa ci facevi?» Aveva continuato.

«Vorrei poter dire che amo osservare la gioventù perché mi manca esser così spensierato, ma in realtà, ho un fratello più piccolo combina guai» le avevo risposto.

«Io odio osservare ed esserlo, invece.» aveva sussurrato.

«Lo avevo intuito. Cosa studi?»

«Lettere moderne.»

«E ti piace?» avevo chiesto interessato. Ma lei sembrava comunicare secondo un codice tutto suo.

«Sai che mi sembra di conoscerti?» aveva stretto gli occhi per guardarmi meglio. Mi ero sentito a disagio, osservato. «Hai lineamenti familiari.»

«Che significa?» ho risposto

«Che mi sento stranamente a mio agio. Ma adesso si è fatto veramente tardi e me ne devo andare, grazie per il caffè e grazie per la chiacchierata.»

Non mi aveva sfiorato più il suo sguardo. Si era alzata e dileguata veloce.

«Sono Andrea, comunque.»

Ma lei non c'era più.

Dopo tempo mi ero alzato con le due tazze in procinto di pagare, ma il proprietario non ne aveva voluto sapere. Mi ero allontanato, attraversato il parco ero tornato a casa dei miei genitori sperando di trovare Giulio.

Una testa riccia sbucava dal divano e lamenti persistenti giunsero alle mie orecchie. Sorrisi ricordando vecchie storie passate. Sussurrai sedendomi a fianco

«Che bello avere vent'anni!»

«Sta zitto!» mi aveva fulminato e proseguito con «grazie per essere venuto.» Il silenzio aveva aleggiato intorno a noi a lungo e Giulio piano si era assopito. Lo avevo coperto con un plaid ed ero andato nella mia vecchia stanza. Era tardi per rientrare a casa.

A notte inoltrata un paio di occhi verdi erano tornati inspiegabilmente a farmi visita.


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Spazio Autrice:
Non ho gradi aspettative verso me stessa, però mi sono divertita e, purtroppo o per fortuna, immedesimata a fondo nella vita dei miei personaggi. Tenterò di essere costante e di aggiornare una volta alla settimana. Voglio non correre e tornare a scrivere per piacere non per dovere. Ad intrecciare la musica al testo e ciò che provo nella mia vita ai miei personaggi.

Marissa Mayer disse «Ho sempre fatto qualcosa che non ero abbastanza pronto a fare. Penso che sia così che si cresce. Quando c'è quel momento in cui esclami "Wow, non sono proprio sicuro di poterlo fare", e tu superi quel momento, è allora che vivi una vera svolta.»

Ed io spero di non smettere mai di crescere e fare.

A presto,

Serena

GinevraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora