2 - Ancora, ancora, ancora

91 16 26
                                    

Andrea

Mi aveva abbandonato a quel tavolino Ginevra, era sparita nel nulla, lasciando dietro di se un sacco di domande, qualche brivido sulla pelle e attimi racchiusi in gola a cui non sapevo dare spiegazione. Il disco di Mina a girare imperterrito e quei suoni in grado di smuovere qualcosa dentro di me.

Ero tornato più volte in quel bar, sempre allo stesso tavolo, sempre in tarda serata, con lo stesso disgustoso caffè. In attesa. Per curiosità più che altro, come se credessi veramente che potesse esserci un seguito ad un incontro tanto strano come quello avuto. O perlomeno per una presentazione come si deve. Mi accorsi di non aver avuto modo di sapere il suo nome e di non esser riuscito a farle sentire il mio.

Credevo veramente che ci fosse qualcosa da aspettare. Un sorriso, un profumo, o addirittura uno sguardo. Uno di quelli sinceri e schietti che mi aveva riservato lei quella sera.

Scorrevano le giornate, lente alcune, più veloci altre ed i miei pensieri si affollavano, certi prima o poi di trovare sfogo. Ma lei non tornava, io non sapevo dove cercarla e l'uomo del bar non proferiva parola. Mi diede più volte la sensazione che sapesse ma non volesse dire.

Il mio lavoro poteva esser svolto da qualsiasi parte del mondo, avevo scelto di tornare perché niente più mi teneva legato al luogo in cui ero. Dal tavolino posto a fianco della vetrata vedevo attraversare visi, sorrisi e qualche lacrima. Mi perdevo in situazioni non mie e ci scrivevo su. Quel luogo in quel tempo, teneva lontana l'oppressione che sentivo dentro al ricordo di tutto ciò che era stata la mia vita fino a quel momento.

Non esiste alcune volte definizione dello stato d'animo che si percorre. Si sa solo di esserci entrati senza esattamente sapere come uscirne. Ginevra mi aveva travolto, catturato con una Thunder Road arrangiata e quella sera cantava Bruce come se fosse poesia. Come se sentisse quell'amore sulla pelle.

Trentaquattro giorni dopo Ginevra era riapparsa nel bar, aveva ordinato il solito disgustoso caffè e un sorrisetto le era apparso sul viso sedendosi di fronte a me. Dalle casse risuonava forte il disco di Mina, con ancora, ancora, ancora. Il destino, per chi ci crede, potremmo quasi dire, si prese gioco di noi.

«Trentaquattro, quasi trentacinque giorni dopo ti trovo qui.»

Mi sussurrò da sopra la spalla. Era tranquilla Ginevra, nessuna traccia del nervosismo della prima volta.

«Ti ho osservato» mi ha detto quando nessuna risposta si protrasse dalle mie labbra.

«Solito tavolo, solito caffè, solito sguardo oserei dire e il taccuino» indicandolo «per trentaquattro giorni».

«Sei un'ottima osservatrice» ho constatato subito dopo di lei.

«Non voglio mica rubarti il lavoro. A proposito che lavoro fai?» ha sorriso.

«Devo dire che mi hai fatto scoprire una perla rara. E' un luogo, pacifico.» dissi indicando il bar. Rimase in attesa che continuassi «si, scrivo. Io, scrivo.»

«Tu. Tu scrivi?» sembro pesare la mia affermazione.

«Io scrivo.» le ripetei.

«Hai uno strano modo di porti. Te lo hanno mai detto?»

Annui impercettibilmente e ricordi di conversazioni lontane si affacciarono alla mia mente.

È bastato poco perché il silenzio calasse nuovamente. Nessun obbligo, nessuna pretesa, questa era la regola silenziosa che avremmo poi istituito tra noi due.

«Perché non entrare prima? A salutarmi intendo, se mi hai osservato tutto questo tempo.» ripresi innervosito dalla sua domanda che aleggiava ancora tra di noi.

«Trentaquattro giorni esatti, quasi trentacinque, infatti mancano pochi minuti alla mezzanotte. Credo molto nella simbologia delle situazioni.»

Mi spiazzò.

«Sai che non ci siamo presentati, straniera.» dissi.

«Possiamo continuare a non presentarci ed essere comunque amici.» rispose lei con un'alzata di spalle. Poi si girò verso il bancone e disse «Nando porti un altro caffè?»

Amici. Sorrisi a quell'affermazione, perché non sapevamo nulla dell'altro. Eppure aveva tirato fuori la parola che per definizione cozzava in tutto e per tutto su quello che eravamo. Perché non eravamo niente. Niente l'uno per l'altro.

Nulla mi impedì di sentirmi in pace. Iniziai ad intuire che il mondo visto con i suoi occhi sembrava più facile, semplice. Era diverso.

La osservavo con lo sguardo di un bambino, perso nel vuoto, le mani intorno al caffè, la schiena incurvata, il labbro inferiore a lasciarsi torturare dai denti bianchi. Ed è piano piano che le sue guance presero colore, sussurrò
«che brutta abitudine questa cosa dell'osservare.»

Nando si era avvicinato lentamente ed in silenzio aveva appoggiato il caffè sul bordo del nostro tavolino. Avevo chiuso di impeto il taccuino. La bolla in cui eravamo confinati scoppiò.


♡♡♡ ♡♡♡♡ ♡♡♡ ♡♡♡♡ ♡♡♡



Spazio Autrice:
Questa storia mi consuma. Lasciate commenti, aiutano me a capire in che folle (di nuovo, ancora) avventura io mi sia immersa. E se avete dubbi scrivetemi.

A presto,

Serena

GinevraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora