CAPITOLO I

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CIRCA DUE MESI PRIMA

Il suono prepotente e fastidioso della sveglia interrompe i miei sogni facendomi ripiombare nella realtà; con una mano la spengo e subito mi rendo conto che il mal di testa lancinante di ieri sera non mi ha ancora abbandonato. Devo aver bevuto proprio parecchio, senza neanche essermene reso conto.
E mi piacerebbe poter dire di averlo fatto insieme ai miei amici, durante una serata goliardica fra studenti universitari.

Così non è stato, ho semplicemente partecipato all'ennesimo evento organizzato da mio padre... L'ennesima cena a base di perbenismo, falsità e scambi di favori.
Una noia mortale che io, in quanto unico erede del suo impero, sono costretto a subire almeno due volte a settimana, nella speranza – oltremodo vana – di riuscire finalmente ad acquisire il talento e il fiuto per gli affari di mio padre, il temutissimo Achille Ferrara, l'inarrivabile imprenditore che è riuscito a metter su in pochi anni un vero e proprio impero della moda.

Ma figuriamoci! Già, figuriamoci se sono pronto per questo... Neanche so se questo è quello che voglio davvero fare nella mia vita! C'è tempo per pensare a questo. In fondo ho solo venticinque anni.

Quello per cui potrebbe non esserci tempo, invece, è la possibilità di tornare ad avere un rapporto con mio padre, l'uomo con cui ormai è diventato impossibile avere un dialogo, o più in generale, uno stralcio di conversazione.
Lui non ha mai tempo, il lavoro viene prima di ogni cosa.

Non era così, quando ero piccolo: mio padre aveva tempo per me, per stare insieme, per dialogare, per ascoltare gli accadimenti della mia giornata.
Mario, il mio autista, mi accompagnava sempre fuori l'azienda di mio padre, quando ero piccolo e uscivo da scuola.
C'è un piccolo muretto fatto di mattoncini rossicci lì fuori, dove io mi sedevo in attesa che mio padre fosse libero e potesse dedicarmi del tempo.
Solitamente stazionavo lì e poi gli inviavo un messaggio.

Non lasciarmi andare via, scrivevo.

Era un nostro messaggio in codice, mio e di mio padre. Non volevo mai rientrare a casa dopo la scuola, volevo invece trascorrere del tempo con lui.
Giocare a calcio, fare una passeggiata, raccontarci storie... Queste erano alcune delle cose che amavamo fare insieme quando ero bambino, l'uscita da scuola era sempre il momento perfetto per provare a rubare del tempo al lavoro di mio padre invece di andare a casa, dove ad attendermi c'erano mia madre e la sua ossessione per i compiti.

Mio padre di solito non rispondeva al messaggio, ma si affacciava prontamente dalla finestra e mi faceva l'occhiolino, oppure mi mostrava un pollice alzato, che lasciava intendere che, non appena si fosse liberato, ci saremmo dedicati ad uno dei nostri passatempi preferiti.

Però col tempo le cose sono cambiate.
Ho terminato le scuole superiori e la scelta della facoltà universitaria ha creato la prima frattura con lui: era infatti convinto che volessi proseguire il suo lavoro, io in realtà non avevo le idee chiare. E non perché il suo lavoro non mi piacesse, anzi. Lo trovavo affascinante e non vedevo l'ora di prender parte ai progetti su cui lavorava.

Ma quello stesso lavoro lo identificavo anche come la causa dell'allontanamento di mio padre. Era diventato quello il figlio a cui teneva di più, allora io avevo inconsciamente iniziato ad odiarlo.

Non mi piaceva più il padre che mi ritrovavo ad avere ed ero convinto che fosse stato il suo lavoro a renderlo improvvisamente così presuntuoso e avido di successo.

Provare a scegliere un percorso diverso sarebbe stata la mia strada per la salvezza, che tuttavia non ho avuto il coraggio di percorrere: ho scelto la facoltà di economia, come voleva lui. Forse non l'aveva semplicemente desiderato, molto più probabilmente me l'aveva invece imposto. E io avevo acconsentito, pensando che questo mi avrebbe restituito il padre di cui sentivo la mancanza.

Il tempo che restaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora