CAPITOLO III

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Il giorno successivo mi sveglio di buon mattino, deciso ad arrivare presto a casa dei miei: non ho più riportato l'auto di mio padre a casa e voglio passare a prenderlo per parlare con lui lungo il tragitto fino all'azienda.

Ho trascorso la notte a riflettere: sono stanco dei continui litigi fra i miei genitori, e sono consapevole che tutto questo finirà solo se sarò io a fare il primo passo. Se razionalmente ho questa consapevolezza, però, accettare che invece mio padre non sarebbe disposto a fare un primo passo verso di me mi fa ancora male.

Quando arrivo sotto casa dei miei, mia madre mi avvisa che mio padre è uscito prima del solito di casa e ha raggiunto l'azienda in taxi... Prevedo che sarà ancora più furioso con me.

Fuori l'azienda mi attende Simone in piedi, in visibile imbarazzo, che fa un giro intorno all'auto appena la parcheggio, per assicurarsi che questa non abbia segni o ammaccature.
Gli lancio le chiavi mostrandogli un sorriso, in realtà la mia tensione è alle stelle. Non è mai capitato, infatti, che facessi un gesto simile in precedenza.
«Andrea...» Mi chiama Simone con tono insicuro.
«Non accadrà più, Simone, puoi stare tranquillo,» lo rassicuro, «parlerò io con mio padre e gli spiegherò che tu non c'entri niente. E comunque ho fatto il pieno.»
Simone non mi risponde, ma scuote il capo.
«Lo so, lo so... Devo risolvere questa situazione,» dico prima di incamminarmi verso l'azienda ed aprire la sua grande porta in vetro.
«Avresti almeno potuto rispondere al telefono...» Sento dire ancora da Simone.

Già, quasi dimenticavo. Ieri l'autista di mio padre ha provato a chiamarmi più volte per recuperare l'auto, cosa che ha fatto anche Alberto, attraverso messaggi e telefonate a cui non ho risposto.

In azienda, subito vengo accolto dal sorriso allegro di Arianna, la ragazza che lavora alla reception. Lo accompagna con un dolce "buongiorno" e io intuisco che in realtà vorrebbe dirmi molto di più... Io e lei siamo diventati amici negli ultimi tempi, capita anche che la sera ci intratteniamo a scambiarci messaggi, ma in realtà credo che lei provi qualcosa per me. Io la ritengo una buona amica e un'ottima ascoltatrice, ma, anche se provassi altro, chiaramente il mio ruolo in azienda mi impedirebbe di andare oltre un semplice scambio di messaggi con lei.

«Meriteresti una tirata di orecchie, lo sai, Andrea?» Arianna cerca di sembrare seria, ma è una parte che non le viene affatto bene. Si scioglie infatti in un sorriso subito dopo avermi fatto questa domanda.

«Sei già al corrente di tutto? Chi è stato a dirtelo, Agata?»
Arianna annuisce, io le sorrido e poi mi avvio nel corridoio alle sue spalle.
Quando salgo al piano superiore nell'intero ambiente regna il silenzio e io realizzo che il lunedì mattina è un giorno difficile per tutti.
Incrocio un paio di dipendenti che mi salutano debolmente, sembrano ancora assonnati e hanno l'aria sfatta.

Delle persone che lavorano nell'enorme edificio della J&K, direi che solo in due sono perennemente entusiaste del lavoro che svolgono: la prima è Agata, la segretaria di mio padre, che è rimasta fedele al suo lavoro da tempo immemore, sebbene mio padre spesso la sgridi e la mortifichi senza pietà. L'altro è un designer, un bizzarro personaggio che indossa perennemente mocassini portandoli come fossero pantofole da spiaggia. Vive incollato alla responsabile dell'ufficio stile, Renata, una donna perennemente vestita di nero, dall'aspetto austero. Quei due insieme sembrano portare sulle spalle il peso dell'intero ufficio, mentre tutti gli altri li seguono a ruota senza neanche provare a cambiare un po' le cose, e questo è uno dei motivi per cui il mio ingresso in azienda sarà subordinato all'avviamento di un nuovo progetto.

Intendo infatti creare qualcosa che non coinvolga nessuno di loro, che sia solo mio e a cui lavorerò scegliendo personalmente i soggetti che mi affiancheranno. Anche perché, in tutta onestà, non so come potrei essere preso sul serio da persone che mi hanno visto solo ricevere rimproveri dal loro titolare. Non che abbia avuto modo di confrontarmi con qualcuno dei designer dell'azienda, intendiamoci... Il mio ruolo si è sempre limitato a quello dell'osservatore, sono sempre stato solo il figlio del titolare che ogni tanto si intrattiene nel suo ufficio, non ho mai avuto la reale possibilità di mettermi in gioco. Forse, per permettermi di farlo, mio padre aspetta prima che io accetti incondizionatamente di agire come lui crede sia meglio nella sua azienda.

Il tempo che restaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora