CAPITOLO XII

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Mi ritrovo a seguire mio padre per l'intera giornata.
Non fa nulla di preciso, anzi: rispetto alla sua solita routine fatta di impegni, meeting e telefonate, terminato l'appuntamento della mattina – durato comunque insolitamente poco – mio padre resta rintanato nel suo ufficio a compiere sempre le stesse azioni, proprio come ha fatto anche mia madre la scorsa notte.

Principalmente resta seduto alla scrivania a fissare la foto nella cornice in argento, ogni tanto si alza e si posiziona davanti alla finestra con aria malinconica, un paio di volte chiede ad Agata di portargli un caffè.

Noto che la sua segretaria combatte una specie di battaglia interiore: da una parte, vorrebbe dire qualcosa a mio padre, per risollevare il suo umore, dall'altra, è consapevole che non potrebbe riuscirci mai.
Dal canto suo, mio padre non parla mai, per l'intera giornata, né lavora: si limita solo a sospirare ogni tanto.

La cosa mi manda in confusione: non sono abituato a vederlo così, sapere di non avere nessuna arma in mio possesso per scuoterlo da questo stato di apatia mi rende irrequieto e impaziente.

Resto comunque per l'intera giornata accanto a lui, curioso, a questo punto, di scoprire dove trascorrerà la notte.
I suoi vestiti, gli stessi che indossa ormai da due giorni, hanno infatti bisogno di essere cambiati e portati in lavanderia, anche il suo viso stanco chiede pietà e la barba è ancora più lunga sulle sue guance.

Sono ansioso, per questo motivo, di capire dove intende andare una volta lasciato l'ufficio. Non credo che proverà ancora ad andare da mia madre...

Quando l'azienda si è svuotata e le auto dei dipendenti hanno anche lasciato il parcheggio, mio padre inizia a prepararsi per andar via: con gesti lenti e abitudinari mette in ordine la scrivania, dove comunque quasi nulla era fuori posto; perlustra le varie stanze in silenzio e infine si avvia all'ingresso e quindi entra in auto.

Mi aspettavo che ci fosse il suo autista ad attenderlo, invece oggi non è così.
Prima di mettere in moto mio padre si ferma a pensare a qualcosa, fissando il parcheggio davanti a lui.
All'improvviso la sua espressione si incupisce, quindi accende l'auto e dà gas partendo subito ad alta velocità.

Io sono seduto di fianco a lui e una serie di terrificanti sensazioni iniziano a prendere forma nella mia mente: rivivo i momenti prima dell'incidente, quelli in cui imploravo mio padre di guidare più piano; una rapida occhiata nella sua direzione mi mostra la stessa espressione furibonda che aveva quel giorno.

Non avverto nessun dolore fisico, ma d'istinto incrocio le braccia sull'addome, come se sentissi di nuovo lo stomaco girarmi.
«Rallenta, papà!» dico sperando che lui possa in qualche modo sentirmi, cosa che chiaramente non accade.

Lui invece accelera e, una volta che si è immesso sulla strada principale, inizia lo stesso slalom già fatto nel giorno dell'incidente.

Mi volto e trovo mio padre che piange: copiose sono le lacrime che gli bagnano il viso, io adesso sono piegato in due da un dolore che non provo davvero. È più un dolore mentale, determinato dalla più spaventosa delle consapevolezze: mio padre sta provando a suicidarsi.

«Frena, papà, ti prego! Non farlo! Non voglio che tu lo faccia, non può finire così!» Urlo ancora, senza però ottenere nulla.
Leggo in qualche modo i pensieri di mio padre: non ha nulla per cui andare avanti, neanche la sua azienda, la preziosa società che fino a qualche giorno fa considerava come una figlia, non vale quanto l'amore e il supporto mio e di mia madre.

Mio padre l'ha finalmente realizzato, ma, adesso che non può più recuperare quello che aveva, non trova nessuna motivazione valida per andare avanti.

«Non sono ancora andato via, papà, sono qui vicino a te! Ferma la macchina, ti prego!»
La corsa di mio padre continua, molte auto suonano il clacson vedendolo sfrecciare da un lato all'altro della carreggiata, ma mio padre è ormai dissociato dalla realtà e non sembra esserci nulla che possa fermarlo.

Il tempo che restaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora