Capitolo ventidue.

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JORGE'S POV

Andai via da quella stanza. Non reggevo più.

Sentivo di essere giudicato da quell'uomo che tutto faceva, tranne che pensare al bene della figlia.

Ero stordito pensando al fatto che avevo detto che la amavo. Ma era vero. Avevo sempre creduto che non ci fosse bisogno di dichiararsi a voce, che a farlo erano i gesti, ma sentivo il bisogno di farglielo sapere.

Doveva sapere che averla trovata, era stato un regalo. Doveva saperlo che mi riempiva il cuore anche quando era lontana e anche quando non volevo vedere nessuno. In quegli anni volevo stare da solo perché volevo pensare a lei, volevo ricordarmi dei momenti passati prima di rovinare tutto. Doveva saperlo che lei mi riempiva di luce e che poterle stare accanto era l'unico motivo che mi aveva spinto a disintossicarmi.


***************************FLASHBACK*************************

Il coro cantava mentre nella navata centrale si faceva spazio il feretro del mio migliore amico. Era lì, chiuso tra quelle tavole di legno ricoperte di corone di fiori numerose, così numerose che nemmeno si contavano.

Sentivo gli occhi pizzicare, erano giorni che piangevo a dirotto. Piangevo perché mi sentivo perso, perché nessuno può mai abituarsi all'idea di una perdita.

In quella folla nella chiesa, la cercavo con lo sguardo nella speranza di incrociare i suoi occhi. Avrei tanto avuto bisogno di stringerla e di dividere con lei quel dolore che mi stava lacerando.

L'avevo trattata male, le avevo sputato fin troppo veleno addosso.

Avevo sempre saputo della cotta che Ruggero aveva per lei, ma sapevo altrettanto bene che lei vedeva e voleva solo me. Ma in quel momento, dopo averlo visto morto, non so bene cosa mi è successo, quale corda si fosse staccata per farmi parlare in quel modo.

Continuavo a chiamarla da quella volta, lo avevo fatto anche poco prima di entrare in chiesa.

La celebrazione fu bella, con canti commoventi e discorsi che non permettevano di contenere le emozioni.

Lei non c'era.

Ero assillato da questa frase.

Come avrei potuto affrontare il domani senza loro al mio fianco?
Mi pareva impossibile.

Vedevo Lodo seduta tra quei banchi insieme ai genitori di Ruggero. Non si reggevano in piedi, il pianto li spezzava.
Qualche banco dietro di me stavano seduti i miei genitori ed esattamente dall'altro lato c'era la madre di Martina accompagnata da uno dei suoi autisti.

Usciti dalla chiesa, provai ad avvicinarmi a lei.
" è andata via" mi disse e con quelle tre parole ni crollò il mondo addosso.
Dove era andata?

Parlai con Camilla, la sua migliore amica, ma lei seppe dirmi solo che era partita, che non stava più a Los Angeles e che probabilmente non sarebbe mai più tornata.

"Jorge... andiamo a casa" mi raggiunsero i miei mentre me ne stavo seduto sugli scalini del sagrato della chiesa. Non dissi nulla, mi alzai e mi rinchiusi nella mia camera.

Iniziai a tempestarla di messaggi nei giorni successivi mentre in città non si faceva che parlare dell'accaduto e tutti 'ricamavano' su di noi e su cosa era realmente successo.
Io non riuscii più a dormire.

Passai la prima settimana senza nemmeno mangiare. L'assenza di Martina non era sopportabile.

Provavo a immaginarmi i suoi baci, le sue mani che mi sfioravano la pelle per sentirmi meno solo.

Ci eravamo lasciati nella peggiore maniera possibile, senza più vederci e sentirci. Sentivo la mancanza di Ruggero, mi riappariva in mente quel corpo steso a terra e mi sembrava di non riuscire a respirare.
Come chiudevo gli occhi, era lì e la spossatezza iniziò a sfinirmi.

Un giorno decisi che in qualche modo dovevo far passare quel dolore.
In bagno trovai delle pillole di morfina di mia madre.
Ne presi un po' e le buttai giù di colpo.

Iniziarono a darmi una sensazione di sollievo, una sensazione che mi piaceva tremendamente.

Dopo qualche settimana mia madre se ne accorse e a casa mia ci fu l'apocalisse. Tutta la città e i miei compresi, dopo quanto accaduto a Ruggero erano traumatizzati solo a sentire la parola 'droga'.

Io dalla morfina passai a ricercare un modo per accedere a cose più pesanti.
Riuscivo a scappare dalla realtà e a non pensare a lei.

I miei mi diedero un ultimatum, o smettevo, o sarei dovuto andare via di casa.
Io scelsi la seconda opzione.

Trovai un appartamento a poco prezzo e mi trasferii lì mentre la mia dipendenza si faceva sempre più grave. Abbandonai gli studi, lavoricchiavo in qualche locale a qualche festa per guadagnarmi da vivere e in città nessuno mi vedeva mai.
Ero come una cometa.

Le ragazze nemmeno le guardavo.
Speravo come un illuso di rivederla prima o poi tornare così per caso e ricominciare da zero.

Ogni posto mi parlava di lei, di noi, di quello che eravamo. Mi sembrava a volte di sentire il suo profumo sui miei vestiti, la desideravo per chiederle scusa e poi baciarla senza lasciarla andare mai.
E continuavo a farmi.

A volte arrivavo a prendere così tanta roba da non sentire più i piedi e le gambe, da non riuscire a parlare, ma solo a perdermi nei miei viaggi mentali che avevano come unica protagonista Martina e che mi facevano dimenticare l'assenza del mio migliore amico e di tutti i miei affetti.

Iniziavo davvero a consumarmi.

***********************************

Era sera e di Martina non avevo avuto più notizie.
Probabilmente il padre l'aveva davvero riportata a New York. Probabilmente non ci saremmo di nuovo più rivisti.

Non rispondeva al telefono, ai messaggi.
In studio non c'era.

Dovevo andare a cercarla, non potevo permettermi di ricadere in quel vortice.

Il cuore non dimentica [Jortini]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora