Un rapper da pullman

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Forse il mio pubblico, al di là di altri aspiranti rapper come me che si sfidano sui muretti di provincia, è una serie di amici - molti dei quali li vedo tuttora - con cui condivido tante cazzate, ricordi belli e meno belli.
In pratica, mi faccio le ossa sul pullman che quasi ogni sera ci porta nel Veronese. Cosa ci faccio sul pullman, è un'ottima domanda.
Fra i quindici e i diciasette anni, passo i sabati pomeriggio a Desio e sto inziando a diventare bravo nel rap. Mentre muovo i primi passi nel mondo hip hop, continuo a frequentare anche le solite compagnie e a un certo punto ci prende questa cosa di organizzare delle serate in una discoteca fuori Verona.
Non ricordo a chi sia venuta l'idea del pullman, ma alla fine pare più semplice: siamo quasi tutti minorenni, e poi è meglio evitare la macchina, anche perchè di solito siamo già belli pieni di droghe ancor prima di partire.
Il noleggio ci costa sui cinquecento euro, di solito siamo una cinquantina di persone, quindi è più o meno una deca a testa. Queste serate cominciano verso le nove, quando ci trovamo davanti al liceo di Vimercate, ancora abbastanza lucidi ma carichi di pasticche. Fra noi, almeno in questa fase, durante la settimana ci limitiamo a fumare delle gran canne poi nel weekend di solito esageriamo un pò.

Faccio una premessa: questo è un libro che vuole raccontare alcune cose che ho vissuto e non un kit per diventare Emis Killa. Quello che credo sia importante è che, se un ignorante come me, uscito da un contesto del genere, oggi è una persona completamente diversa, c'è spazio per chiunque. Tutti ce la possiamo fare. Ho passato tante serate a impasticcarmi, ma intanto cercavo delle vie d'uscita, provavo a fare la mia musica, mi scaricavo i dischi che mi interessavano, avevo altro. Quelli che invece non l'hanno fatto adesso sono dei venticinquenni incazzati neri che si mangiano le mani (oltre alle pastiglie) sapendo di essere rimasti tutti i pomeriggi a cazzeggiare in un parchetto senza provare a fare niente quando sarebbe stato il momento giusto.
Ma ora sto diventando troppo serio, ritorniamo rapidi davanti al liceo, con questa massa di minorenni che aspettano un adulto, l'autista, pronti a condurli a destinazione.

Appena saliti sul pullman, già cominciavamo a farci. L'autista lo sa ma fa finta di nulla, l'ordine che riceve è quello di lasciar perdere: compreso nel prezzo del noleggio c'è il suo silenzio, e dovrà pure sopportare dei ragazzini che prima o dopo si avvicineranno per rompergli i coglioni.
Si ride, si dicono cazzate, il pullman è la nostra isola felice, come un iceberg solo nostro trascinato dalla corrente. L'autista, ogni volta che vede una macchina degli sbirri, ci invita a stare buoni, a non farci notare, a mostrarci come una normale classe delle superiori in gita a Verona che canta i Nirvana. Ogni tanto, però, gli sbirri ci fermano e ci precipitiamo a gettare dal finestrino tutto quello che di illegale abbiamo con noi.
Di solito mi metto a rappare anche sul pullman. Ricordo una volta in cui c'era un tizio davanti che faceva freestyle con intorno quattro amici suoi. Mi avvicino per sentirlo e parte una sfida. Mi accorgo subito che è un fake e che ha imparato a memoria delle rime di Ensi. Lo smerdo: io quei freestyle li ho ascoltati e riascoltati così tante volte che so a memoria anche tutte le pause che Ensi fa. Lo spacco, punto.

La cosa assurda è che, per arrivare alla discoteca vicino a Verona, il pullman si deve arrampicare su dei tornanti, col risultato che molti di noi si sentono male appena arriviamo. Siamo tutti abbastanza allucinanti e non ci facciamo troppo caso ma immagino la scena che si presenta a quelli che aspettano di entrare: una massa di ragazzi che scendono di corsa dal pullman, fanni venti metri e poi vomitano l'anima contro un muretto. Benvenuti a Verona.
Io non mi tiro indietro con le droghe, ma cerco sempre di fermarmi un attimo prima di rovinarmi la serata. Poi so che a Verona, a un certo punto della notte, tutto diventa più bello, più interessante, si ha l'impressione di vivere qualcosa di pazzesco anche se non succede un cazzo.
Alla chiusura, usciamo nel piazzale, il pullman aspetta che tutti si facciano un panino in qualche baracchino, e verso l'alba ci si rimette in autostrada per tornare a casa.
Durante il viaggio di ritorno c'è sempre un'atmosfera semiapocalittica che vede l'entusiasmo dell'andata rimpiazzato da uno spettacolo di sopravvissuti. Tutti dormono, stravolti, si accasciano sui sedili senza dire una parola, distrutti.
Quando arriviamo a Vimercate, l'autista comincia a svegliarci con il microfono.
Giunto a destinazione io non so che faccio ho ma mi basta guardare quella degli altri per immaginarmela. Perciò mi infilo a letto, cercando di non farmi scoprire da mia madre e poi dormo tutta la domenica fino a sera. A volte mi sono svegliato ancora con della droga in tasca, chiedendomi dove potessi nasconderla.
Non so dire perchè ci facessimo così tanto, penso fossimo dei ragazzi molto giovani che avevano voglia di divertirsi, e quello era il modo più facile.

Un'altra scena assurda che ricordo di quel periodo è stata la volta in cui ho incontrato una collega di mia madre completamente fatta che quando mi ha vista si è spaventata.
《Ti prego, ti prego, non dirlo a tua madre》mi ha implorato.
《TU non dirlo a MIA madre, cazzo.》
Io ero il ragazzino, lei aveva una trentina d'anni e poteva fare un pò quello che voleva, anche se forse quella situazione era più assurda per lei che per me.

Dirlo dopo questi ricordi sembra strano, ma io non ero uno che dava preoccupazioni. Ero sempre abbastanaza controllato, mi facevo ma a casa ci arrivavo sempre con i miei piedi, non ero uno da coma etilico, ambulanza, robe così. Non sono mai stato dipendente, non ho mai voluto diventarlo. Era semplicemente un modo per fare serata, niente di più.
Quando ripenso a quel periodo la cosa che mi viene da dire è che la vita è bella, va presa nel giusto modo e va fottuta a dovere. Non devi prenderla come viene, devi dirti: la mia vita sono io, io vengo al primo posto. E fare il coglione tutti i sabati sera sul pullman forse non è il modo migliore per costruire qualcosa.
Vedo invece che molti ragazzi che mi seguono si sono rassegnati e rincoglioniti, ancor più di come lo ero io dieci anni fa. A loro dico di sognare, di non rassegnarsi, e l'unico modo per non rassegnarsi è svegliarsi, darsi da fare e provare a realizzare qualcosa di buono nella vita. Avere un obiettivo.
Quando vedevo gli amici che dicevano voglio fare un disco, mettere insieme una crew, registrare un pezzo, esattamente come me, e poi la settimana dopo mi raccontavano che si erano comprati le Jordan, non riuscivo proprio a capirli. Ma minchia, perchè non ti compri un microfono?
Se non lo fai, vuol dire che non ti piace veramente la musica, che non tieni abbastanza a te stesso.
E poi, se a venticinque anni fai un lavoro di merda e sei ancora lì ad ammazzarti di droghe per stare al mondo, bè, l'unica persona con cui puoi incazzarti la trovi riflessa allo specchio tutte le mattine quando ti alzi.

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