𝟐

124 22 126
                                    

La pioggia sferzava contro le finestre delle abitazioni e il vento smuoveva gli alberi rendedoli dei danzatori su una pista da ballo. Ogni cittadino rinchiuso nella propria casa. In un solo edificio si udiva un frastuono. Il tintinnio metallico delle armature reali. Ogni cavaliere pattugliava i corridoi del castello del sovrano.

La casata dei Tranivoc - stirpe sia demoniaca sia vampiresca - governava da molti anni. Tezreth Tranivoc aveva fondato il regno di Zanthios ma dopo solo quindici anni - in cui si combattè una guerra fra le specie - abdicò e il trono passò al suo unico figlio Mezreth.

Al comando, ora, c'era Naphatos, secondo genito di Bezreth e nipote di Mezreth. Tuttavia nessun cittadino aveva mai conosciuto il suo re, non appariva mai in pubblico e gestiva il regno nell'ombra ma, ai suoi occhi vigili, non sfuggeva nulla.
La sala del trono era silenziosa ma al di là della porta c'era un messaggero in attesa di entrare, portava delle notizie.

«Altezza c'è qualcuno che l'aspetta» annunciò il cavaliere accanto all'entrata.

«Oggi non accetto visite» rispose Naphatos. La sua voce profonda risuonò nella stanza.

«È un messaggero?» chiese Bezreth, consigliere del sovrano.

«Padre che importa? Se fosse una notizia urgente sarebbe già entrato. Non voglio ricevere visite, non mi ripeterò una terza volta» tagliò corto Naphatos.

«Sono ai tuoi servizi, figlio mio» si rassegnò al suo potere.

Il re si alzò dal suo seggio e si diresse verso la porta della sala del trono ma venne fermato dalla voce di suo padre.

«Dove vai?» chiese lui stupito dalla mossa.

«Mi ritiro nelle mie stanze, nessuno mi disturberà» uscì.

Il messaggero si avvicinò al muro poi si inchinò al passaggio di Naphatos. Lui superò ogni cavaliere.
La sua camera era situata nell'ala nord del castello: un lato in cui neanche suo padre poteva mettere piede. Le candele appese ai muri erano spente, le finestre rischiaravano i corridoi oscuri.
Naphatos entrò nella sua stanza. Il letto a baldacchino in ordine. Una fiamma tenue crepitava sul lume, la cera non si era ancora sciolta del tutto.

Si tolse il gilet e lo lanciò sull'appendiabiti. Nello specchio accanto ad esso si rifletteva la mascella definita di Naphatos e il profilo della maschera di porcellana. Le indossava da anni ormai, nascondeva il suo volto sotto di esse. Forme diverse, alcune più rivelatrici e altre meno. Ma tutte avevano in comune solo una cosa: celare la parte superiore del suo viso.
Gli occhi penetranti, di un grigio simile alle nuvole che battevano su Zanthios; un'inondata di picco, il modo più chiaro e semplice che conoscesse era trasmettere ogni parola in quelle sfere malinconiche.
Delusione.
Rabbia.
Calma.
Emozioni diverse comunicate in un identico modo: lo sguardo.
Rare volte Naphatos esprimeva le sue sensazioni a parole. Non ne aveva bisogno.

Il marchio sulla sua spalla destra bruciava come una candela appena accesa, delle scosse attraversarono la sua schiena migliaia di volte. Si morse il labbro inferiore e corrugò la fronte. Gemette di dolore e si inginocchiò. Le dita ricurve nelle assi di legno. Le schegge si conficcarono nei suoi polpastrelli. Gattonò fino agli estremi del materasso, si arrampicò a stento sul letto. Il suo respiro asmatico gli fece lacrimare gli occhi.
Si distese sul letto, aveva bisogno di riposare nonostante fosse solo metà mattina. Ma quel timbro continuò a tormentarlo.

***

La fronte di Nikolai era madida di sudore, alcune gocce scendevano sui suoi addominali. Stava sferrando pugni a mezz'aria.
Non sentì la porta aprirsi. Era entrato qualcuno ma questa volta il suo udito non riconobbe il suono.

𝐈𝐋 𝐑𝐈𝐅𝐋𝐄𝐒𝐒𝐎 𝐃𝐄𝐋𝐋𝐄 𝐂𝐈𝐂𝐀𝐓𝐑𝐈𝐂𝐈Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora