12. È successo a me

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Il servizio al ristorante era iniziato da appena mezz'ora e la sala era già insolitamente piena per un sabato ordinario.
Nonostante il da farsi, però, Eva non riusciva a smettere di pensare a quello che era successo la sera prima con Marta.
All'imbarazzo e alla frustrazione per essersi lasciata sfuggire l'occasione di baciarla, si era aggiunto, a mente fredda,  la paura che il proprio comportamento avrebbe potuto compromettere il suo rapporto con Marta e, nel tentativo di rimediare, quella mattina, Eva, armata di scuse, aveva suonato all'appartamento del piano di sotto. La vicina, però, non era in casa e,  privata di quell'incontro, la ragazza aveva finito per rimuginare per tutto il giorno, figurandosi in mente una serie di disastrosi scenari, non ultimo, quello che prevedeva che la vicina non le rivolgesse più la parola.

Lavorare quella sera, quindi, si stava rivelando piuttosto impegnativo.
Eva arrancava nel tenere il passo della sua collega, Cristina, e, proprio quest'ultima, addirittura le aveva le aveva rivolto più di un'occhiata di esasperata supplica.
«Sembri avere la testa tra le nuvole, oggi.» aveva detto dopo averle chiesto due volte di troppo di portare dei piatti fuori dalla cucina.
Eva, però, si consolava pensando che dopo un turno così, una volta tornata a casa, almeno, sarebbe stata troppo stanca per pensare a Marta.

Erano circa a metà serata e Eva stava portando una comanda in cucina, quando Adele, la titolare, dopo aver fatto accomodare dei clienti, richiamò la sua attenzione.
«Occupati del cinque, cara, si sono appena seduti.» le disse gentilmente.
Eva annuì, senza curarsi, però, di voltarsi verso il tavolo in questione e, nel tornare indietro con dei menù in mano, era ancora troppo distratta, per  accorgersi che i nuovi arrivati non erano affatto degli sconosciuti.
«Eva, tesoro,» sentì dire a una voce femminile mentre si avvicinava al tavolo «sapevo che lavoravi come cameriera, ma non credevo di trovarti qui. Che coincidenza!»
A parlare era stata Barbara, ma purtroppo insieme a lei c'era anche il resto della famiglia.
Eva rimase attonita per qualche secondo: Michele, che si era presentato prepotentemente nella sua testa la sera prima nel momento meno azzeccato, adesso era in carne ed ossa davanti a lei.
Come la sera della festa, la ragazza sentì il panico montarle dentro, ma differenza di allora non poteva permettere di farsi travolgere.
Sul posto di lavoro doveva mantenere la calma e cercò, quindi, di concentrarsi su Barbara.
«Sì, ho iniziato da poco, dò una mano qualche sera a settimana.» disse forzando un sorriso.
«Quando veniamo a Padova a trovare Michele, ci fermiamo sempre qui a mangiare.»
Barbara, quindi, indicò il figlio, ma Eva continuò a tenere gli occhi fissi su di lei.
«Vi lascio i menù.» disse fallendo nel tenere la voce ferma «Torno tra qualche minuto per prendere la vostra ordinazione.»

Eva si allontanò, quasi correndo, e andò in cerca della collega. Se voleva sopravvivere alla serata doveva cedere il tavolo a Cristina.
«Cri', ti devo chiedere un favore.» disse mettendosi davanti alla ragazza che usciva dalla cucina.
«Dimmi.»
«Devi prenderti il cinque.»
Cristina, incuriosita dalla da quella richiesta accorata, buttò l'occhio in direzione del tavolo citato.
«È tutto a posto?» chiese poi.
«No, cioè sì, a patto che non sia costretta a parlarci. Mi prendo uno dei tuoi tavoli o anche tutta la sala se vuoi.»
La collega , anche se un po' confusa, accettò, senza ribattere, il cambio.

Eva scoprì presto, però, che ottanta metri quadri non erano sufficienti per ignorare qualcuno; la ragazza, infatti, non poteva fare a meno di passare vicino a Michele, mentre portava i piatti avanti e indietro per la sala e, come se non bastasse, aveva la sensazione di aver i suoi occhi addosso. Per verificarlo, tuttavia, sarebbe stata costretta a girarsi verso di lui e l'ultima cosa che voleva era incontrare il suo sguardo, perché a quel punto la calma l'avrebbe persa sul serio.
La precauzione, però, si rivelò inutile, Eva si stava dirigendo in cucina con in mano una pila di piatti del tavolo che aveva appena sparecchiato, quando vide Michele dirigersi verso di lei, senza che potesse evitarlo.
«Mi spieghi che ti è preso?» disse seccato mentre l'afferrava per il braccio.
Eva aprì la bocca per dirgli di lasciarla andare, ma non uscì alcun suono.
«Non avresti dovuto mandare la tua collega, mia mamma mi ha riempito di domande. Non capisce perché ci stai evitando. E onestamente non lo capisco neanche io. Dio, smettila di fare la bambina.»
Eva ancora una volta non trovò la forza di parlare, riuscì, tuttavia, a  sottrarsi dalla presa del ragazzo con uno strattone. Il movimento, troppo brusco, però, le fece perdere la presa che aveva sui piatti che si schiantarono sul pavimento.
Come era prevedibile, il rumore  attirò gli occhi di tutta la sala su Eva, che sopraffatta tanto dalla vicinanza di Michele quanto da quell'improvvisa attenzione, non resse la pressione e scappò via. Si rifugiò nel piccolo spogliatoio dello staff e, sedutasi per terra contro il muro, lasciò andare le lacrime.
Non ne poteva fare a meno, ogni qualvolta si trovava di fronte quel ragazzo, il cervello le andava in panne e l'istinto le diceva di scappare, anche se razionalmente, quella volta come la sera della festa, non le avrebbe potuto farle ancora del male.
Non fare la bambina, le aveva detto Michele, e forse su questo aveva ragione; il suo comportamento non era affatto maturo, ma non riusciva ad evitarlo.

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