21.

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Evyn.

«Posso giurare di averla messa qui da qualche parte,» sussurro a me stessa, frugando freneticamente tra i cassetti della mia camera. Ogni spazio è già stato controllato due volte, ma la foto non si trova. Il letto è un disastro di vestiti e libri ammucchiati alla rinfusa, il cassetto del comodino spalancato, vuoto.

La sensazione di vuoto dentro di me cresce. Dove diavolo è finita?

Quella foto... Non me la ricordo nitidamente, ma so che era speciale. Mio padre l'aveva scattata quando ero bambina, una di quelle poche giornate serene passate insieme, io con il mio solito sorriso spensierato e lui dietro la macchina fotografica. Un momento in cui sembrava quasi tutto a posto.

«Mamma!» urlo, con la voce che trema appena. «Per favore, dimmi che l'hai presa tu!» Le mani mi afferrano i capelli mentre cammino in cerchio, cercando di dare un senso al caos nella mia testa.

Scendo le scale quasi inciampando, la disperazione mi spinge a muovermi più velocemente. Quando arrivo in cucina, la vedo: mamma, tranquilla come sempre, con la sua vestaglia di seta e una tazza di tè caldo in mano. Sembra quasi in pace, mentre io mi sento come se stessi per esplodere.

«Mamma, la foto... quella che mi ha scattato papà al parco quando ero piccola. L'hai vista? Per favore, dimmi che l'hai presa tu.»

Lei mi guarda per un attimo, senza fretta, sorseggiando il tè. «Sì, Evyn, ricordo quella foto. Ma non l'ho presa io.» Il suo tono è calmo, troppo calmo per la situazione che sto vivendo.

«Ma non c'è! L'ho cercata ovunque, non la trovo da nessuna parte!» sento la mia voce alzarsi di un'ottava, come se non potessi più controllare il panico che mi stringe il petto.

Mamma posa la tazza sul tavolo con un respiro profondo. «Evyn, capisco che ci tieni molto, ma ora non puoi perdere tutto questo tempo per una foto.» Il suo tono è calmo, ma il suo sguardo è pieno di una comprensione che mi infastidisce.

«Non è solo una foto, mamma,» rispondo, la frustrazione montando dentro di me. «È l'unica cosa che mi resta di lui, di quel giorno.» Le parole escono più dure di quanto intendessi, e lei lo nota, abbassando lo sguardo per un istante.

«Lo so, tesoro. Lo so quanto fosse importante tuo padre per te, ma ci sono momenti in cui dobbiamo imparare a lasciar andare le cose.» La sua voce è gentile, quasi un sussurro, ma quel tipo di gentilezza che sa ferire più di ogni altra cosa.

«Lasciare andare? Come puoi anche solo pensare che possa farlo?» le rispondo, il cuore che mi batte forte nel petto. Mi sento come se stessi per perdere tutto, come se quella piccola foto rappresentasse l'ultimo pezzo di mio padre rimasto a me.

Mamma mi osserva per un attimo, poi sospira, mettendo la mano sulla mia spalla. «Non sto dicendo di dimenticare. Sto dicendo che forse c'è un altro modo per tenere vivo il suo ricordo, senza aggrapparsi così disperatamente a una fotografia. Tuo padre vive dentro di te, nelle tue azioni, nei tuoi ricordi. Non hai bisogno di un oggetto per sentirlo vicino.»

La sua voce è morbida, ma non mi consola. Io voglio quella foto, voglio quel ricordo tangibile di un tempo che sembra scivolarmi dalle mani.

Mi passo una mano nei capelli, cercando di tenere a bada l'ansia che mi sta soffocando. «Non posso andare a scuola oggi, non fino a quando non avrò trovato quella foto. Non capisci?»

Mamma mi osserva per qualche secondo, poi si alza e si avvicina alla porta, lo sguardo stanco. «Evyn, vai a scuola. Cerca la foto dopo. Non puoi lasciare che queste cose ti consumino. Non così.»

Prima che possa rispondere, mi porge lo zaino. Il messaggio è chiaro: non c'è più spazio per la discussione. Mi sento vuota, ma non ho altra scelta che uscire di casa.

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