6.

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Valtor: 18 anni.

È la terza settimana dietro queste sbarre, il freddo del carcere sembra penetrarmi anche nelle ossa. Osservo il grigio soffitto e i ricordi della vita al di fuori di queste mura diventano sempre più sfocati, la sensazione di abbandono cresce in me, seguita dalla mia frustrazione.

Non sono stato io, non l'ho uccisa io. Non l'avrei mai fatto. Io le volevo bene, le voglio bene. Io la amo.
Quella piccola peste percorre i miei ricordi, con la sua voce delicata e i suoi piedini nudi su mio petto.

Una lacrima scivola lungo le mie guance, arrivando fino al collo. Le luci si stanno per riaccendere, è l'ora della colazione. «Valentine, svegliati ed esci» la voce fastidiosa di una guardia rimbomba in tutta la mia cella.

Il suono del suo manganellino sbattuto contro le sbarre mi da fastidio, nervoso e irritazione. Deve smetterla.
«Svegliati Valentine, alza quel culo dal letto»
Svegliarmi? Letto? Due parole che non c'entrano nulla con la realtà. Non dormo ormai da giorni, gli incubi mi destabilizzano e mi perseguitano, mi rendono fragile ed io non sono fragile.

Io non l'ho uccisa.

«Valentine cazzo! Svegliati» la cella si apre e prima che quest'uomo possa entrare, mi alzo. Si crede potente solo perché indossa una divisa, è alto un metro e forse qualche nocciolina, magro e senza nessunissima massa muscolare. Se gli soffiassi addosso, volerebbe. «Muoviti» mi spinge fuori dalla cella, incitandomi a camminare, per poi passare a tormentare l'ennesimo carcerato.

Non tutti saranno clementi con te, Johnson.
Qualcuno ti prenderà e ti sbatterà al muro, ti massacrerà. Non tutti saranno clementi, Johnson.

Le occhiate sulla mia figura non mancano mai, tutti sanno, ma nessuno parla, non osano avvicinarsi a me.
"Ha ucciso uno di famiglia, una donna." sono queste le cazzate che girano in questo merdoso carcere.

Io non l'ho uccisa.

«Hai un nuovo tatuaggio Valentine» Kian si avvicina a me, mettendomi un braccio intorno alle spalle. Non conosco il suo vero nome o forse è proprio questo, ma per me è solo Kian, l'unica persona che mi parla, l'unico che mi crede.
«Mi annoiavo»

Dovevo coprire i tagli auto inflitti.

«Oggi cosa riserverà questo ristorante?» scherza Kian, entrando nella mensa. «Non ho fame» confesso, sedendomi in uno dei tavoli vuoti. «Come al solito, ci penso io» Kian si allontana, prendendo due vassoi e facendosi servire quella specie di roba che chiamano pasta. Pasta a colazione, vomito.

«Tieni» fa scivolare il vassoio sul tavolo, verso la mia direzione. «Quanti mesi ti mancano?» chiedo, mentre inizia a mangiare, sotto il mio sguardo. «Due» si riempie la bocca, non curandosi per nulla della sua apparenza.
È stato messo dentro per spaccio, ma ha dovuto scontare più della pena dovuta. Società di merda.

"Davanti alla legge siamo tutti uguali", dicono. Ma sono qui, tra queste sbarre, mentre il vero colpevole cammina libero là fuori, intoccabile. Che si chiami giustizia o solo un gioco di potere, una cosa è certa: non siamo tutti sulla stessa linea. E io non sono qui per scelta, ma per un sistema che ha sempre fatto il suo gioco con le vite di chi non conta.

«A te?» esilarante, sono dentro da meno di un mese, per omicidio, uscirò mai da questo tugurio? Non penso. Alza lo sguardo e lo riabbassa subito. «Non è ancora detto, magari c'è speranza» sussurra incerto. In risposta roteo gli occhi, incrociando le braccia al petto. Speranza?

«Non l'hai uccisa tu» continua, fermo e deciso.
«Che ne sai» rispondo, in questo carcare tutti devono pensare che io sia colpevole, non mi posso far sottomettere. Mi guarda ed alza un sopracciglio.

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