1.1 // Diplomazia [nuovo]

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Solomon si lasciò andare a un sospiro sconfitto e abbandonò la testa sul cuscino, steso sul lenzuolo fresco. Il vento fischiava forte alle finestre, erano entrati nella stagione ventosa già da qualche settimana, e sul monte di Belt le raffiche frustavano ancora più forte che a valle.

Giocherellò con le maniche della tunica dorata, lasciandole scivolare tra le dita per sentirne la stoffa coi polpastrelli. La tradizione aveva imposto che il Re e il suo braccio destro soggiornassero alla dimora del più alto dignitario presente in città, mentre lui in quanto druido era ospite della congrega dell’altopiano.

Questo non solo significava che non avrebbe passato la notte con Everard, non solo significava che l’avrebbe lasciato da solo in luogo non sicuro, ma significava persino che in quel momento il suo padrone di casa era Edmund.

Parecchio seccante.

«Questa è l’ultima volta che mi convinci a seguirti in un viaggio diplomatico» sbuffò, dal letto accanto, la voce di suo fratello.

«Non ti ho convinto a fare un bel niente» borbottò in risposta. «Hai insistito tu per venire con me, perché Astrid sarebbe rimasta a corte e non avevi voglia di sopportarla.»

«È lei che non ha voglia di sopportare me. E non avevo considerato il fatto che, quando lei è via, il suo leccapiedi diventa il capo. Lo vedo sin troppo smargiasso per i miei gusti.»

«Già» sibilò Solomon. «Almeno non tenta di fare il viscido con la tua fidanzata.»

«Almeno il tuo fidanzato è qui. La mia fidanzata è a miglia di distanza.»

Strizzò gli occhi, infastidito. «Saremmo dovuti restare a casa entrambi.»

«Figurati, non avresti avuto pace, e di conseguenza neanche io.»

In effetti, Hildebrand aveva ragione. Era da un pezzo che, quando perdeva Everard di vista anche solo qualche giorno, lui diventava strano. Aveva cercato di ignorare i segni, all’inizio. Del resto, la vita di tutti loro era cambiata, e il ragazzo in particolare era stato investito di una responsabilità improvvisa e imprevista che, su due piedi, nessuno avrebbe saputo come gestire, figuriamoci un ragazzo di strada.

Solo che… solo che talvolta sembrava confuso, distante. I mal di testa aumentavano di intensità e frequenza, e così i vuoti di memoria. Solomon era certo che ci fosse qualcosa che non andava. Non gliene aveva parlato per non allarmarlo, si era limitato a vegliare per evitare che finisse troppo nei guai, ma la situazione si era fatta insostenibile.

Decise di non rispondere, per non dare a suo fratello la soddisfazione di averla spuntata. Tenne gli occhi puntati sul soffitto, a Beltann il legno non era diffuso, e il rifugio in cui si trovava era scavato nella pietra porosa dell’altopiano.

Schiuse le labbra per lasciarsi andare all’ennesima lamentela annoiata, quando una impercettibile scarica di allerta lo pizzicò nel petto.

Qualcuno aveva passato i confini del rifugio.

Si levò a sedere in un sobbalzo, Hildebrand già saltato in piedi. «Forse l’idiota aspetta visite.»

«Meglio andare a controllare» liquidò, sbrigativo. «Di quello non mi fido.»

Che il rifugio di Beltann non ospitasse alcun figlio di Tanvar era evidente. La congrega del bosco era rischiarata negli anfratti più nascosti da torce ardenti che lo rinvigorivano scoppiettando alle pareti, mentre i corridoi che attraversava in quel momento luccicavano dei globi di luce di Sunnar, opera della donna druido che era stata loro ospite settimane prima.

Le rifrazioni dorate non emettevano calore, si trattava di un’illusione e nulla più.

«Che ci fa lui qui?»

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