2.2 // Maratona

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La donna si alzò, i capelli rossi che le ricadevano sulle spalle ondeggiarono al movimento. Il ragazzo si sentiva uno straccio, era debole, aveva male al petto, però non si sentiva più in pericolo. Sapeva di essere al sicuro, non sarebbe stato più male come ore prima.

Astrid aprì la porta della stanza e uscì, forse per dar loro l’impressione di avere un po’ di privacy. Ironico, visto che avrebbe letto nelle loro menti com’era andato quell’incontro appena li avrebbe rivisti dopo l’accaduto. 

La prima ad affacciarsi nella stanza fu Dameta, esitante. I suoi occhi dorati indugiarono sulla figura di Everard nel letto e si avvicinò a lui a passi misurati, quasi avesse paura di spaventarlo. Everard le rivolse un breve sorriso e lei lo ricambiò, sfiorandogli con la mano i capelli per assicurarsi che stesse bene.

Poi entrò Hildebrand, gli occhi azzurri come sempre annoiati. “Non hai proprio istinto di conservazione tu, eh?” gli disse, raggiungendo la ragazza vicino al letto. Sembrava seccato dell’inconveniente, ma Everard non poté fare a meno di individuare un velo di preoccupazione nelle sue parole.

L’ultimo a entrare nella stanza fu Solomon, e quando lo vide il cuore di Everard si fermò. Non si vedevano da settimane, ma quando si erano salutati l’ultima volta lui era stato convinto che non l’avrebbe più rivisto. Entrò nella stanza quasi timido, esitante, e non lo guardò in faccia. I suoi occhi verdi si soffermarono sulla finestra della stanza, osservando la luce flebile che veniva dal bosco, senza parole.

“Avevo una certa fretta,” rispose a Hildebrand, schiarendosi la voce. “Quel druido è andato a dire in giro che sareste morti. Avresti preferito che perdessi tempo a riposare?”

“Oh, non fraintendermi, penso che se continuerai così ti ammazzerai prima o poi, ma non era un invito a smettere. In realtà della tua vita non mi importa più di tanto…”

“Ah no? Che ci fai qui allora? Sentiamo.”

Hildebrand esitò. “Io… Dameta ci teneva tanto a venire, e io l’ho accompagnata! Tutto qui.”

“Ma certo…” commentò Everard, con il sorrisino di chi sapeva che alla persona là davanti importava di lui, almeno un pochino.

“Come stai?” 

La voce di Solomon gli fece riportare gli occhi su di lui. Il druido non lo stava guardando, osservava ancora fuori dalla finestra, e aveva su un’espressione neutrale, indecifrabile. Sembrava tra loro quello che aveva meno interesse in lui, e il cuore di Everard si strinse in una morsa.

Non vuole neanche guardarmi in faccia.

“Bene,” mentì. Si rese conto che tutte le persone in quella stanza potevano capire che era una bugia bella e buona solo dopo che l’ebbe detta. Non se la rimangiò, perché sarebbe stato ridicolo.

“Si vede infatti,” commentò Hildebrand, secco. “Stai una favola.”

“Mi sto riprendendo,” rispose Everard, “Astrid mi ha rimesso in sesto.”

“Non è stata lei,” gli disse Hildebrand, annoiato. “Mamma è un po’ carente negli incantesimi di Ingar. Se la cava meglio con quelli di Tanvar, tra quelli che non sono i suoi. Solomon ti ha rimesso a posto.”

“Avrei continuato, ma stavo esaurendo le forze e mi hanno costretto a smettere,” aggiunse Solomon, a bassa voce. Ora guardava i piedi del letto, sempre senza incrociare il suo sguardo. “Se stai ancora male posso riprendere, ora mi sento meglio.”

“Non c’è bisogno,” rispose Everard, asciutto. Il fatto che non lo stesse neanche guardando in faccia gli faceva male, e pensava che il druido si sarebbe trovato davvero in imbarazzo a restare solo con lui e avvicinarsi abbastanza per guarirlo. “Devo solo riposare un po’. Mi passerà.”

Amma della MenteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora